28. Il teorema dei girasoli

«Ti darò tutto il mondo.»
Eminem

«Quali sono i suoi piani per il paese, Procuratore?»

Il giornalista teneva il microfono verso il viso dell'uomo, la telecamera lo inquadrava a metà, il suo trench Burberry nero, risaltava attraverso lo schermo.

«I nostri piani, sono certamente propositivi. Come già spiegato nelle precedenti dichiarazioni, andremo alla radice del problema e daremo molti più posti di lavoro, come promesso in campagna elettorale!» sancì il Procuratore, i suoi baffetti neri tremarono sotto lo stendersi del suo sorriso. Affabile, nel suo completo firmato, col suo cappello nero a coprirgli i ciuffi color alabastro, strisciate argentate gli sfumavano le punte.

Nel guardarlo dalla tv, Katsuki ebbe un fremito. Dovette serrare i pugni, impedendosi di colpirla.
Lo odiava.
Odiava quello schifoso baffuto, il suo viso cordiale e quell'aria di superiorità che il solo respirare gli conferiva, come se fosse sempre lì a dimostrargli che col suo titolo superava chiunque.

«Campagna elettorale?! Ma sta scherzando?! Non c'è mai stata alcuna campagna elettorale…!» esclamò Kirishima battendo il pugno sul tavolo.

Katsuki non poté che dargli ragione; non c'era mai stata alcuna campagna elettorale. Avevano preso il potere con la forza, imponendosi al pari dei nazisti.
Dei radicali, fissati con l'ordine e i colori neutri, con l'idea della potenza e della sottomissione di qualunque omega.

Gli alpha al potere, urlavano i loro manifesti, in una muta sottointenzione.

«Procuratore, cosa dice riguardo l'incidente all'incendente avvenuto al gruppo direzionato da Katsuki…-»

Il Procuratore storse le labbra, allontanandosi. Il giornalista provò ad avvicinarsi, il microfono teso in avanti, ma i bodyguard lo bloccarono.

«Si allontani» il giornalista provò a sgomitare per raggiungere il politico, ma venne nuovamente fermato.

«Procuratore, cosa ne pensa-»
«Procuratore che dice di-»
«Procuratore…»

Una matassa di giornalisti iniziarono a farsi largo, sgomitando per raggiungere l'intervistato. I bodyguard si schierarono dinanzi all'auto blindata che avrebbe trasportato via il politico.

«State lont-»

Un boato simile allo scoppio di un palloncino, mille volte amplificato.

Per un attimo, lo schermo della tv venne illuminato da un bagliore simile a un fuoco dirompente, uno sciocco forte e acuto, come se inaspettatamente fosse saltato su qualcosa. Katsuki corruggò la fronte.

Quando il fumo iniziò a dissolversi, le prime sagome che si videro, furono i giornalisti, lontani qualche metro dall'esplosione, la macchina era in fiamme.

«Merda…» esclamò Kirishima, drizzandosi sulla sedia. «Dov'è quello stronzo?» redarguì, aggrottando la fronte.

I telecameraman si accostarono al fuoco, riprendendo l'incendio. L'auto era fortunatamente vuota, ma del tutto carbonizzata. Il panico sciorinava tra la folla, come una formica operaria, scivolava tra le vene, inasprendo l'aria.

«Procuratore…! È vivo! Il Procuratore è vivo!» strillò un giornalista, saltellando.

Le telecamere seguirono l'indice dell'uomo e inquadarono il politico.

Era caduto a terra, i suoi bei abiti costosi erano sporchi di cenere, un rivolo di sangue gli scivolava lungo la fronte. Gli era volato via il cappello e osservava con occhi sgranati il terribile scenario dinanzi a sé.

L'auto era esplosa proprio un attimo prima che salisse, come se qualcuno ne fosse a conoscenza. Non era stato causale. Tutti, perfino i giornalisti più stolti sembravano averlo capito, forse proprio per ciò si tenevano sempre più lontano.

Avevano iniziato a strillare, saltellare, spintonarsi, sembravano tutti sull'attenti e al contempo in preda al panico, come se la cosa lo rendesse zelanti.

Le guardie del corpo, raggiunsero immediatamente il Procuratore. Lo aiutarono a rimettersi in piedi, tenendolo dai gomiti, poi, lo spostarono.

Le urla impedivano di captare una qualunque frase logica.

Ad un certo punto, la trasmissione dell'incendio venne interrotta. Il fracasso dei giornalisti si interruppe. Katsuki balzò in piedi, mentre sullo schermo della televisione compariva un viso mascherato. Lo sfondo dietro era neutro, Katsuki, pensò subito ad un montaggio.

«Buonasera, signori» asserì quella che pareva essere la voce di un uomo. «Sono lieto di essere qui a parlarvi stasera. Quello che avete appena visto, è solo un inizio. Il Procuratore e il CRPS non solo, hanno governato il paese usurpando il potere del popolo, ma hanno anche osato zittirci, toglierci ogni diritto, usando la mera scusa del dovere» gli si inasprì la voce, lo sguardo freddo, la maschera bianca e blu gli copriva il viso a metà. I suoi capelli erano ciocche candide, di uno scuro color carbone. «Hanno preso il potere, ci hanno sottomessi tutti. Come ho detto prima, oggi è stato solo l'inizio. Io e miei compagni riporteremo questo paese nelle mani del popolo. Nessuno potrà fermarci. Unitevi a noi, cittadini. Unitevi a noi e aiutateci a fermare il Procuratore, viscido e orrendo. Di seguito lasceremo un video, abbiamo rilasciato in rete la versione non censurata, per dimostrare che non stiamo bluffando. Vi lasciamo alla sua visione.»

Di seguito, lo schermo si annerì. Subito dopo, comparve un video. C'era il Procuratore, completamente nudo, una frusta scura tra le dita.

Davanti a sé un omega, un piccolo omega tremante, con i polsi legati stretti sulla testa, le labbra scurissime, come la sua pelle esposta. Il Procuratore gli stava alle spalle. Sentirono le suppliche dell'omega, il suo piagnucolio soffocato.

Il Procuratore caricò la frusta. Essa sibilò, fendette l'aria, spezzò il silenzio.
Ringhiò nella stanza, arrestando la sua vibrazione sulla schiena del ragazzo.

Esso urlò. Una mano del procuratore scattò sul basso ventre. L'espressione lussuriosa del suo viso parlò per lui.

Ancora. Un altro fendente, un altro. Altre urla, un altro fendente, un'altra supplica, urla, singhiozzi, sperma.

Poi, la scena si trasformò di nuovo. Stavolta c'era un uomo, un alpha, a giudicare dalla divisa grigio fumo, un dirigente della SPL, la società per i lavoratori, una mera facciata per coprire i loschi scopi del governo.
L'uomo era legato a una catena, aveva entrambi i polsi attaccati al muro.

Il Procuratore lo stava torturando.
Vari tagli spuntava dal corpo martoriato dell'uomo che supplicava. Katsuki non riuscì a capire se supplicasse di essere ucciso o risparmiato. Di solito, la gente non voleva morire, ma quell'uomo sembrava essere così stanco, così svuotato, che perfino i suoi occhi opachi sembravano volersi spegnere definitivamente, confermando le sue richieste.

Quando infine, cedette alle richieste del politico, quest'ultimo sorrise, si accese una sigaretta e si allontanò.

La guardia del corpo, finì quel dipendente, sparandogli in fronte.

Katsuki storse il naso. Non gli piaceva affatto, tuttavia il fatto che stessero portando all'aria tutte le puttanate di quel bastardo, gli faceva provare uno strano tipo di piacere. Una sadica soddisfazione, che gli fece accavvalare le gambe e sollevare gli angoli delle labbra.

Questo. Questo, era quel verme.

Sullo schermo comparvero altre immagini. Un sorriso, un paio d'occhi. Verdi, come le foglie di un acero.

Il cuore di Katsuki perse un battito; avrebbe riconosciuto la tonalità di quelle iridi perfino tra mille e mille verdi.

«Ehy Katsuki…» iniziò Kirishima, ma si zittì immediatamente quando quelli in televisione ripresero a parlare.

«Inoltre, questo ragazzo, questo omega, ha aiutato il Procuratore, ha intrapreso una relazione con lui perfino…probabilmente questo ragazzo, è più subdolo del Procuratore stesso! È solo un omega vigliacco! Ecco qui, delle informazioni che spiegheranno tutto.»

Mentre ancora finiva di parlare, sullo schermo apparvero dei documenti penali. C'era scritto il nome di lui. Katsuki sentì il cuore battere all'infuriata.

«Questo ragazzo, meglio noto come Dominic Fernandez, è stato responsabile della morte di sua madre, che ha probabilmente ucciso senza alcuna pietà. In seguito, il governo lo ha condotto in una casa famiglia, dove non solo ha litigato con tutti i ragazzi presenti, ma ha anche ucciso un operatore. Un innocente, per la smania di potere. Sapete qual è il suo quirk? È attualmente uno dei più pericolosi in circolazione!» redarguì, la maschera gli impediva di vedere quel viso. Voleva ucciderlo, strappargli la lingua, zittirlo in un qualsiasi modo doloroso. «Signori e signore, vi chiediamo di stare lontani da questo soggetto, il quale quirk riveleremo tra qualche secondo, è estremamente pericoloso. Offriamo una taglia, una piccola ricompensa a chiunque ce lo porti vivo. Ma fate attenzione! Il suo quirk, è subdolo, degno di un mostro come lui. Si chiama “seduzione” e consiste nel farvi fare tutto ciò che vuole lui, solo toccandovi. Basta un piccolo tocco, addirittura uno sguardo più prolungato! È così, crediamo, che è riuscito ad infilarsi nel letto dei maggiori esponenti politici e a collaborare con il Procuratore! State attenti, amici!» si interruppe, come abiler far risuonare attraverso il vetro quelle parole. «Noi siamo i Brothers e vi libereremo da questi mostri! Questa è una promessa

Katsuki si allontanò. Il cuore gli esplodeva in petto, il respiro gli restava bloccato in gola. Dovette poggiarsi con un palmo contro la parete, respirando pesantemente dal naso.

Non riusciva a crederci. Dominic, la mamma di suo figlio, il ragazzo che aveva con sé. Erano bugie, lui lo sapeva bene, Dominic gliene aveva già parlato, ma sapeva anche che presto tutto quello sarebbe venuto a galla, era stato proprio Dominic a dirglielo.

Non riusciva a distinguere il colorito del muro. Era troppo bianco. Gli ricordava l'asfissia che aveva provato intrappolato sotto le macerie della casa. La sua stessa casa. La tenuta dei suoi genitori, la casa di sua madre. A volte di notte, sentiva di sprofondare. Il materasso gli pareva sempre troppo morbido, come se il suo corpo ci potesse scivolare dentro, così, iniziava a boccheggiare, le pareti sembravano chiudersi su di lui, essere perennemente sul punto di cadere, esplodergli addosso.

In quei momenti, faceva detonare il sudore, si guardava attorno freneticamente, alla ricerca del sorriso gentile di Izuku, del respiro lento di Dominic, ma a parte il suo riflesso nello specchio sulla cassettiera, non c'era altro.

Quando smetteva di iperventilare, si alzava. Il freddo lo aiutava a stare meglio, così, apriva la portafinestra e scivolava sul balcone. Restava lì fino all'alba.

Non riusciva a muoversi. Si portava sempre una coperta; quella che Izuku gli poggiava addosso quando lui parlava con Millie dopo i suoi incubi. In quel modo, gli sembrava che fosse lì. Lo sognava sempre. Sognava che Izuku veniva portato via davanti ai suoi occhi e che lui, era intrappolato sotto le macerie e non riusciva a fermarlo.

Non riusciva a fermarlo mai. Piangeva, strillava, scalciava. Nulla. Non c'era nulla che potesse salvarlo. Ogni notte, Izuku, gli veniva portato via e ogni notte il suo viso si faceva sempre più sfocato, come se la sua mente volesse cancellarlo.

Non glielo avrebbe permesso. Aveva una piccola foro di sé ed Izuku, ma non riusciva più a trovarla. Gli era anche venuto il dubbio che Izuku stesso potesse averla presa. Sperava sempre che fosse così. Sperava, guardava le stelle, scrutava la luna e gli sembrava di vedere il sorriso di Izuku e le sue lentiggini. Gli sembrava di vederlo accanto a sé mentre faceva la doccia, mentre camminava stanco, mentre mangiava. Perfino mentre soffriva. Izuku era sempre lì, in ogni cosa.

Perfino le stelle non brillavano come le sue iridi. Nulla riusciva a colmare il bisogno che aveva di lui e delle sue lentiggini tenere.

Nulla, neppure il suo ricordo.










«Che cazzo ci fai qui?»

Dominic deglutì. Un rivolo di sudore gli solleticò la fronte, si fece più vicino alla porta. Guardò dinanzi a sé, la sagoma era avvolta dal buio della stanza, riusciva a vederlo a stento.

«Chi sei? Una guardia?» chiese, premendo il bambino contro il petto, sperando che quello non se ne accorgerse.

L'uomo mosse qualche passo. Dominic gli tenne gli occhi incollati addosso. Non c'era una luce accesa, nulla che potesse aiutarlo a distinguerne i tratti.

«Non si risponde alle domande con altre domande, Dominic» cantalenò quello, il tono dolce come burro.
L'omega aggrottò le sopracciglia. Il cuore gli batteva furiosamente nel petto.
«Come sai il mio nome?» chiese, cercando di nascondere il tremito della sua voce.

L'uomo non rispose. Percepì i suoi passi, arretrò, trovandosi stretto tra il muro e il corpo dello sconosciuto. Era decisamente più alto di lui, più alto perfino di Katsuki-san, azzardò.

«So tante cose di te» scandì l'uomo, da così vicino, Dominic riuscì ad annusare il suo odore. Un misto di muschio e nocciola, come il retrogusto di un bagnoschiuma dolce.

«Che cosa vuoi da me? Sei una guardia? Vuoi consegnarmi?» redarguì, adirato.
«Dominic» scandì nuovamente il suo nome, la lingua che soffiava ogni sillaba, la pronuncia perfetta. Non riusciva comunque a soffocare quell'accento straniero che, si mischiava al suo tono come olio. «Sai, non dovresti scappare senza neppure un piano» gli fece notare.

Dominic gonfiò le guance, offeso.
«Io ce l'ho un piano!» esalò, tutt'uno fiato. Il bambino emise un piccolo vagito.
L'uomo sbuffò un risolino.
«Certo, è per questo che ti sei rinchiuso nella camera del Caporal Maggiore e gli parli come se nulla fosse» asserì, il tono calmo e setoso, come lembi di carta liscia.

Caporal Maggiore?

«Tu…sei…» deglutì, sollevando gli occhi. Non riusciva a vedere nulla, ma sentiva il suo odore, il suo respiro, vicino al suo viso. «Tu sei il Caporal Maggiore?» mormorò, nascondendo il timore.

«Cosa pensavi di fare esattamente chiudendoti qui dentro?» chiese «non ci sono finestre, né porte qui. È praticamente come mettersi in gabbia da soli e per uno che dice di avere un piano per fuggire, questo mi sembra un po'…contraddittorio
«Ma cosa vuoi?!» sbottò Dominic, innervosito. Gli diede una leggera spinta in direzione del petto e scartò di lato.
«Lasciami andare» soffiò, cercando la maniglia, a tastoni.

Il Caporale ridacchiò, raggiungendolo di nuovo. Dominic sbuffò, infervorato.

«Lasciami andare, cazzo!» sbraitò, forzando la maniglia che non accennava ad aprirsi.

«Così la romperai» obiettò lo sconosciuto, «poi, resteremo davvero intrappolati qui, per sempre.»

Dominic dondollò il bambino. Respirava ancora affannosamente, più di lui.

«I-io devo…» non aveva forze. Voleva davvero ribellarsi, scalciare, provare a fuggire, ma non ne aveva le forze.
Non mangiava né beveva da un giorno intero, in più, aveva dormito poco e male, col bambino tra le braccia e l'ansia nello stomaco.

Si lasciò scivolare in avanti, stringendo a sé il bambino, la mente svuotata, il corpo debole.

«Ehy, ehy…» un paio di braccia forti lo afferrarono, il viso gli finì contro la sua spalla. Chiuse gli occhi.

«Da quant'è che non bevi?» sentì chiedere, il tono che tradiva una sana preoccupazione.

«Un giorno, ma…» gli prese il polso, mentre lo sconosciuto lo posava su qualcosa di morbido. «Occupati…prima del bambino, ti prego» farfugliò, poi si addormentò.








Izuku si sentiva soffocare.

Era stretto nel completo elegante che Erin gli aveva fatto indossare, ma il colletto della maglietta era a collo alto e lui li odiava. Se lo era dovuto mettere per forza visti i segni sulla sua gola, lasciati dalle mani di Fukushūki, ma non riusciva a respirare.

Perfino i capelli non gli sembravano più i suoi. Erin glieli aveva abbelliti con un cerchietto di gemme piccole e luminose, che brillavano come stelle, tra i suoi riccioli verdognoli.

Non era a suo agio lì. Fukushūki gli aveva preso la mano e lui si era dimenato. Aveva smesso ben presto, troppo impaurito dallo sguardo di fuoco dell'alpha. Non ci teneva a sentire di nuovo quelle dita a spezzargli il fiato.

Già di per sé, era molto debole. Aveva partorito suo figlio da poco, era quasi morto dissaguanto proprio a seguito di ciò, aveva il collo livido, il corpo debole, la caviglia che Erin gli aveva guarito con una strana pozione.

Gli aveva anche messo un po' di trucco. Per coprire le occhiaie aveva detto, tuttavia, sul suo ventre, c'era una garza grandissima, intrisa di sangue.

Il medico che lo aveva visitato, gli aveva detto di non muoversi troppo, e lui, su ordine di Fukushūki, non aveva il permesso di sedersi o stare da una parte troppo a lungo.

Cammina affianco a me, gli aveva detto Fukushūki appena erano arrivati nell'enorne sala. Izuku aveva guardato il gigantesco soffitto a volta, restando a bocca aperta nel notare gli splendidi lampadari di cristallo, affiancati da affreschi meravigliosi.

Allora, si era detto, il signor Garfield non mentiva, dopotutto. Gli affreschi, erano davvero bellissimi. Sembravano veri e propri squarci su una realtà che non conosceva, arte piena e antica.

Si era riscosso dal suo stupore, quando Fukushūki si era iniziato a muovere e aveva dovuto stargli dietro. Le pareti della sala eramo dipinte di un delizioso color oro, grandi tende color amaranto curvavano dinanzi alle enormi finestre a volta, nei pavimenti lucidissimi, gli parve di vedere il suo stesso riflesso.

Si chiese cosa pensassero tutte quelle persone, tutti quegli alpha stretti nei loro completi firmati con le loro dame avvinghiate al braccio, i loro abiti sempre più sfarzosi. Un ostentarsi ricchezza, in una sala preziosa, concorrendo a chi possedeva di più, a chi poteva avere di più.

«Ci sono molti politici importanti, fammi fare bella figura» lo avvertì Fukushūki, muovendo le lunghe gambe.

Izuku si limitò ad annuire, seguendolo.

L'alpha gli presentò un certo Michael Nover, che presentò come Ministro degli affari esteri. Izuku fece un leggero inchino, abbassando gli occhi. Accanto al ministro, c'era un piccolo omega con gli occhi azzurri.

Michael e Fukushūki parlarono per un po'. Non riuscì a cogliere proprio il significato dei loro discorsi. Percepì solo alcuni nomi, vagamente familiari, come se li avesse già sentiti, anche se, non ricordava dove.

Quando infine, passarono ad altri, Izuku ricominciò a percepire il dolore al ventre. Lì dove doveva avere i punti, sentiva la pelle tirare, bruciare come se qualcuno ci avesse versato della vera e propria lava dentro. Riusciva a restare in piedi con la sola forza della volontà e del braccio di Fukushūki che lo teneva dolorosamente dritto. La schiena gli doleva, la pelle ardeva.

Dovette sorbire altri dieci ministri, corredati di discorsi e sorrisetti falsi, prima che potesse infine sedersi. Anzi, per lo più, si era limitato a supplicare Fukushūki di farlo sedere, sventolando le ciglia, sperando di farlo vacillare.

Fukushūki lo aveva ascoltato, esaudendo le sue preghiere. Lo aveva fatto accomodare in una parte coperta della sala, il tavolo era addibito da ogni specie di pietanza, ma Izuku non aveva osato toccare nulla. Il solo pensiero del cibo in quel momento, gli dava la nausea.

Seduti di fronte a lui, c'erano altri omega.
Li aveva sentiti bisbigliare tra di loro, gettandogli di tanto in tanto delle occhiatine. Izuku non seppe se fossero solo occhiate curiose o adirate. Ad un certo punto, sentendo la gola secca, decise di versarsi un bicchiere d'acqua, il problema sorse quando vide i bicchieri dinanzi a sé. Non ce n'era uno solo; c'erano ben tre.
Izuku li scrutò uno ad uno, chiedendosi quale fosse quello giusto in cui versare la bevanda. Probabilmente dovette indulgiare troppo, perché ad un certo punto, percepì dei lievi risolini.

Sollevò lo sguardo, accorgendosi del modo in cui lo fissavano. Avvampò, riabbassando gli occhi. «scusate, io…» farfugliò «ho forse sbagliato? Non sono molto pratico di queste cose…»

Un ragazzo, probabilmente il più grande, prese il bicchiere che reggeva tra le mani e ci sputò dentro, poi glielo porse.
Izuku sgranò gli occhi.

«Che c'è? Non ti piace per caso?» asserì il ragazzo, sogghignando divertito. I suoi bei riccioli castani parevano fatti di cioccolata calda. «Noi pensavamo che fosse questo, quello che volevi» aggiunse, il tono fintamente gentile.

Izuku non rispose.

«Non ti diverti abbastanza? Dicci,» iniziò il ragazzo accanto al primo, quest'ultimo aveva delle belle ciocche bionde, lisce e delicate come raggi di sole. «cos'hai in più di noi? Fukushūki è così bello, non merita uno scarto come te» sibilò, storcendo le belle labbra, infastidito.

Fukushūki. Izuku aggrottò la fronte.
Erano gelosi, forse? Ma gelosi di cosa? Fukushūki era un vero e proprio mostro, Izuku non capiva cosa ci fosse di così attraente in quell'uomo. Glielo avrebbe ceduto violentieri, avrebbe fatto di tutto pur di non essere guardato da quello.
E loro, quei ragazzi addirittura lo invidiavano?

Pensò che probabilmente dovevano essere completamente scemi.

Poi, però, capì. Non erano scemi. Era il modo in cui Fukushūki si comportava in pubblico. Sembrava impeccabile. Stretto nel suo completo grigio gessato, perfetto, con i bei ciuffi biondi tirati all'indietro e un sorriso felino sulle labbra. Certo che era bello, identico a Katsuki, al suo Kacchan, chiunque, anche il mostro più crudele sarebbe sembrato perfetto.

Dovette tirarsi un pizzicotto per impedirsi di continuare a fissare quell'uomo. Si disse che lo faceva perché gli mancava Kacchan, perché la somiglianza lo sconcertava, ma quando gli occhi di Fukushūki si spostarono su di lui, beccandolo in pieno, non poté impedire al suo cuore di accelerare.

Lo odiava. Odiava quel posto, quegli omega, quel mondo. Odiava lui.

Fukushūki fece un cenno all'uomo con il quale stava parlando e sorridendo, si allontanò. L'uomo ricambiò il sorriso, scoccando un'occhiata ad Izuku. Quest'ultimo non capì. L'alpha lo raggiunse. Gli omega si ammutolirono, il bicchiere che porgevano ad Izuku, sbeffeggiandolo, sparì.

Ora, erano tutti sorrisini, la loro attenzione, dedicata unicamente a quell'uomo. Izuku provò un incredibile e inspiegabile ondata d'odio per tutti.
Il suo profumo dovette inasprirsi, perché Fukushūki gli posò una mano sulla guancia, un brivido lo percorse.

«Ragazzi, non fatelo innervosire» mormorò l'alpha agli omega, i quali, abbassarono immediatamente lo sguardo. Izuku lo guardò male.
«Non preoccuparti, tesoro, sono solo tuo» si chinò a sussurrargli. Ebbe la percezione di dover rimettere. Deglutì, ignorando quella pulsione e spostò lo sguardo.

Fukushūki gli sorrise, il solito ghigno sardonico, poi si allontanò. Lo vide camminare lungo la sala, sono ad arrivare ad un palco. Salì lì sopra, richiamando l'attenzione degli invitati.
Izuku si raddrizzò, non capendo.

«Signori e signore» iniziò, prendendo il microfono che gli porgevano. Il ghigno era scomparso, sulle sue labbra c'era solo un sorriso composto, gentile e cordiale.
«Innanzitutto, vorrei ringraziarvi per essere qui. Per me è in vero onore, avervi qui riuniti, davvero.» La folla sorrise, le donne avvamparono, gli omega rilasciarono i loro feromoni seduttivi.
«Però, come immaginerete, non si tratta solo di una semplice cerimonia, ma di un importante annuncio.» Il suo sguardo si spostò su di lui, Izuku tremò, cercando di farsi piccolo piccolo.
«Come ben sapete, ho finalmente deciso di mettere un punto di svolta alla mia vita, è per questo, che ho deciso di sposarmi

Il respiro gli restò bloccato in gola. Percepì il suo immobilizzarsi, il mondo ridursi. Percepì gli occhi della folla calare su di lui, come avvoltoi su un pezzo di carne. Non riusciva neppure ad udire del tutto ciò che Fukushūki stava dicendo.

«E bene, il fortunato è il mio piccolo Izuku. Izuku Midoriya, il mio omega, il mio futuro marito

Mentre era sul punto di vomitare, Izuku pensò che il mondo a volte, poteva davvero comportarsi come un grandissimo figlio di puttana.










«Dominic» una mano lo scrollava. Aveva sonno, non voleva aprire gli occhi.

La voce lo chiamò ancora. Provò a dimenarsi, girandosi sul lato opposto, ma un piccolo corpicino premette contro il suo.

Il bambino. Di scatto aprì gli occhi, guardandosi intorno. Il piccolino era accanto a sé, il suo respiro era regolare, il suo visino non era più pallido. Aveva avvolta a sé una copertina di lana, decisamente più calda del logoro pezzo di stoffa di prima.

Dominic lì per lì non capì. Era sdraiato, gli faceva male la testa. Provò a prendere in braccio il bambino, ma non appena piegò il braccio sinistro, si rese conto dell'ago che gli bucava la pelle. Corruggò la fronte, scrutandolo. Non ricordava di…

No, aspetta. Lo sconosciuto. Era svenuto tra le braccia dello sconosciuto…!
Tentò di dimenarsi, ma il filo collegato all'ago, che doveva essere senza dubbio una flebo, glielo impedì.

«Stai tranquillo» sussurrò la voce, «è solo una flebo per la disidratazione» spiegò.
Dominic non lo ascoltò, balzando a sedere; mossa che lo fece sbandare. Rischiò di finire nuovamente per terra, ma un paio di braccia forti lo sorresse.
Gli sembrava di avere un dejavù.

«Non agitarti, sei ancora troppo debole» mormorò. Il suo tono era lieve, non urlava, non farfugliava. Una voce sicura, un timbro preciso. Un...

«Sei un soldato?» chiese, cercando di distanziarsi per vederlo in viso.
«Si» asserì.

Si rimise a sedere, l'uomo gli fece poggiare la testa contro uno schienale morbido. Gli girava la testa.

Mentre si allontanava, nonostante la scarsa luminosità, riuscì a guardarlo in viso. Restò sconcertato dalle sue linee perfette, dal suo viso bello, la curva sinuosa delle spalle, le belle ciocche scure.

«Un soldato…come ti chiami?» domandò Dominic, portandosi una mano alla tempia, massaggiandola.
«Sei sempre così pragmatico, Dominic?» gli chiese, le sue labbra rosse si stesero in un sorrisetto sardonico.

Dominic assottigliò gli occhi.

«Sono un soldato anch'io, è normale» si difese, restando incantato dai suoi denti bianchi. Le labbra li avevano scoperti appena, permettendogli di vederli.

«Si, il Capitano Fernandez, il miglior cecchino dell'esercito della prima divisione. Sotto copertura. Qual era il tuo nome?» redarguì l'uomo, inginocchiandosi accanto a lui. Gli avvicinò le dita al polso e Dominic fu colto da un brivido. Lo ignorò, mentre il Caporale gli controllava i battiti.

«Sai tutto questo e non sai qual era il mio nome sotto copertura?» lo sbeffeggiò, guardandolo male. Il Caporale ridacchiò, il suo naso si arricciò verso l'alto, i ciuffi scuri gli scivolarono sulla fronte.
Dominic si chiese come fosse possibile che ad un soldato venisse concesso di tenere i capelli così lunghi.

«Hai ragione. Volevo solo sentirtelo dire» asserì, guardandolo con una strana malinconia negli occhi. Dominic strinse le labbra.

«Perchè mi stai aiutando?» chiese, guardandosi attorno. Dovevano essere ancora in quell'ufficio, però, c'era una piccola lampada accesa. Si rese conto di essere su una brandina, una piccola brandina e di avere un cuscino dietro le spalle.

Il Caporale, regolò la manovella della flebo, le lunghe dita affusolate, non sembravano quelle di un soldato. Erano curate, lisce, sottili.

«Ti aiuto perché sei in difficoltà, perché hai un figlio neonato a cui badare, perché eri disidratato e ferito. I miei genitori mi hanno insegnato che bisogna aiutare i più deboli, l'esercito mi ha insegnato che bisogna prendersi cura dei propri compagni» spiegò, il tono calmo. Le sue mani non tremavano, il corpo era fermo e sicuro, sembrava consapevole dello spazio che occupava e che gestiva.

Dominic distolse lo sguardo, in imbarazzo. «Non è mio figlio» mormorò.
Il Caporale lo guardò interrogativo.
«Il bambino, non è mio figlio» redarguì.
«Capisco, quindi devi prendertene cura.»
Dominic arricciò le labbra. «In un certo senso.»

Il Caporale si fece serio.
«Dominic, devi ascoltarmi bene» iniziò, guardandolo con attenzione. «So che vuoi andartene di qui, ma se lo facessi adesso, ti riprenderebbe immediatamente. Non ci sono uscite su questo piano. È proprio stato progettato per dei prigionieri speciali. Non puoi usare il tuo quirk sulle guardie, perché sono state addestrare-»
«Come fai a sapere del mio quirk?»
Il Caporale lo ignorò, riprendendo. «Non puoi uscire ora, capisci? So che ti risulterà difficile fidarti, ma ti prego di farlo. Se solo tu riuscissi a darmi la tua fiducia, ti prometto che ti farò uscire di qui, ma con le dovute precauzioni. Ci sono troppe guardie ora, troppo poco casino. C'è bisogno di un piano, inoltre, non vuoi portare anche i tuoi amici?»

Dominic lo guardò, gli occhi sbarrati.

«Fidarmi?! Non so neppure come ti chiami!» gli fece notare con un cipiglio sarcastico. Il Caporale sospirò.

«Bene» si mise a sedere, la brandina si piegò un po' sotto il peso del suo corpo. Il cuore di Dominic tremò ad averlo così vicino. «Tre domande. Fammi tre domande ed io ti risponderò sinceramente.»

Dominic lo guardò corrugando la fronte.

«Pensi che basti così poco per farmi fidare di te?» lo prese in giro, studiandolo con sufficienza. «Non so chi sei, per quanto posso supporre, potrei anche non essere un soldato, come vuoi che-»
«Usa il tuo quirk su di me, allora.»
Dominic si immobilizzò, fissandolo sull'attenti, come se si aspettasse di essere tradito da un momento all'altro.

«Non ti mentirò, non ti tradirò, ha la mia parola, Capitano Fernandez.»

Dominic esitò. Guardò il bambino, chiedendosi se fosse davvero giusto ciò che stava per fare. Poi, pensò al suo bambino, quello che gli cresceva nel ventre.

«Va bene, a patto che al bambino non venga torto neppure un capello.»
«Certo, Dominic.»
«Non ti ho dato il permesso di chiamarmi per nome» gli fece notare l'omega con una smorfia. Il Caporale sorrise, intravide i suoi occhi color cobalto, un blu così intenso che temette di potersi confondere dentro.
«Ma abbiamo lo stesso grado» rispose.
«Si, ma io non so il tuo nome.»
Il sorrisetto del Caporale si estese.
«Se volevi sapere come mi chiamo, bastava chiederlo.»

Dominic gli gettò un'occhiataccia.

«Non voglio…-»
«Sono il Caporale Demian Metanova, comandante del secondo reggimento, maggiore della PMCC, primo ed unico figlio di Caterina e Isaac Metanova» esclamò, la voce costante, lieve e sofferma come carta liscia.
«Metanova? Sei russo?» chiese Dominic, osservandolo sorpreso. Non sembrava russo, il suo intero aspetto era e sembrava quello di un americano.

Il Caporale spostò lo sguardo.
«Per metà, mio padre è russo, ma mia madre è ungherese» disse, il tono ruvido, come se quell'argomento non gli piacesse affatto.
«E perché sei qui?» domandò.
«È una lunga storia. Mi sono arruolato appena compiuti sedici anni.»
«Quanti anni hai ora?» chiese Dominic.
«Ventitré.»
Dominic spalancò gli occhi. «Sei grande.»

L'uomo sorrise. «Quanti anni mi avresti dato?» Dominic arrossì.
«Diciotto, anche diciassette.»
«Ti ringrazio, Dominic.»
L'omega si morse il labbro. Il bambino emise un piccolo mugolio. Lo prese in braccio, facendo attenzione alla flebo.

«È quasi finita» spiegò il ragazzo.
«Vuoi chiedermi altro?»
Dominic sospirò.

«Come hai intenzione di farci uscire di qui?»

Il bel viso del Caporale si contrasse. Il taglio della mascella pareva scolpito.
«C'è un solo modo per uscire di qui» spiegò. Si alzò, andò alla scrivania e prese un foglio di carta. Glielo porse.
Dominic lo spiegazzò, osservandolo. Era una mappa. Stradine, corridoio, delle. Uscite. Assottigliò lo sguardo, cercando di memorizzarla.

Demian gli indicò la parte più estrema, un corridoio lungo e sottile.
«Qui, dobbiamo arrivare qui» sancì, indicando l'indice un punto vuoto. Dominic corruggò la fronte.
«Ma qui non c'è nulla» disse.
«C'è un'uscita nascosta. Le mappe ufficiali non la riportano» spiegò il Caporale. Il bambino aveva ripreso a piangere. Se lo cullò al petto.

«E perché tu lo sai?»
«Perché» mormorò, «l'ho scavata io.»










Fukushūki aveva dovuto trascinarlo in camera. Izuku aveva avuto un terribile attacco di panico, era riuscito ad arrivare fino al corridoio prima che l'alpha lo riportasse di peso fino in camera.

«Cos'hai?» aveva anche avuto la presunzione di chiedere. Izuku era scoppiato in una risata isterica.

Si era diretto verso il letto, cercando di mettere spazio tra sé e quell'uomo.
Aveva preso il cerchietto che Erin gli aveva messo tra i capelli e lo aveva lanciato lontano. I diamantini si erano sparsi per tutta la camera.

«Cos'ho?! Cos'ho! Nulla, figurati! Sei pazzo, un maledetto pazzoide! Te lo scordi! Io non sposo prioprio nessuno! Neppure ti conoscono, maledetto! I-io…io non ti sposerò mai!» aveva strillato, strappandosi la t-shirt che gli impediva di respirare. L'aria della stanza gli aveva rinfrescato il petto nudo.

Fukushūki lo aveva raggiunto velocemente. Si era messo a cavalcioni sulle sue gambe e lo aveva schiaffeggiato. Il suo palmo si era scontrato contro la sua guancia, le dita gli avevano lasciato il segno. Aveva sentito il viso bruciare, ma non aveva aperto bocca.

«Ma ti rendi conto di cosa dici? Non vuoi sposarmi? Pensi che mi importi qualcosa di ciò che vuoi tu?! Sei solo un omega del cazzo, ti piegherai a me, mi sposerai, sennò, il tuo bel bambino, raggiungerà il padre.»

Gli occhi verdi di Izuku si spalancarono.
Padrecome faceva a sapere di Matthew? Tremò, spaventato.

Era stato sempre attento a non parlarne, perfino nei sogni. Chi glielo aveva detto? Come lo aveva scoperto? Gli veniva da piangere. Non voleva stare più lì. Voleva andare via, rivedere suo figlio.

«Avanti, non piangere» redarguì l'alpha, il tono tornato al solito livello basso, anzi, perfino più delicato del solito. Gli mise una mano sulla guancia ferita. «Sei tu che mi costringi sempre ad alzare le mani, Izuku. Se solo ti comportassi meglio, io non ti colpirei. Capisci, vero?»

Te lo sei meritato Deku. Lo hai voluto tu, Deku. Questo è per te, Deku. È colpa tua, Deku. La voce del signor Garaki gli risuonava ancora nelle orecchie, assieme alla sua finta espressione addolorata.

Chinò la testa, annuì.

«Certo, padrone.»
Fukushūki gli diede un buffetto sulla guancia.
«Non sono il tuo padrone, sono tuo marito. Voglio che mi chiami così, intensi?» mormorò, sorridendo.

Izuku annuì.

Quando Fukushūki se ne andò, si graffiò il braccio così forte che il sangue zampillò sulle lenzuola.

Mentre tirava su col naso, pensò a Katsuki. Non farti del male, Izuku, promettimi che non ti farai più del male, gli aveva detto. Izuku glielo aveva promesso.

Scusami Kacchan, ti ho deluso ancora una volta.









Erin se n'era andato da poco quando bussarono alla porta. Izuku era quasi esausto dei suoi continui rimproveri, mascherati da consigli.

Deve comportarsi bene, padrone. Deve essere più gentile col signor Bakugo. Deve essere contento di stare col signor Bakugo. Deve smetterla di urlare, deve, deve, deve…

Izuku non sapeva che farsene di tutti quei doveri. A lui, Fukushūki faceva paura. Non gli suscitava amore, non gli suscitava ammirazione, orgoglio, solo paura. Da quanto lo vedeva sorridere fino a quanto lo schiaffeggiava. Non provava altro che paura.

Eppure, Erin, gli omega e gli altri, continuavano a ripetergli quanto fosse fortunato. Lui, voleva solo andare dal suo Kacchan, ma non poteva.

Si alzò, andando ad aprire la porta. Non chiese chi fosse, ormai, non gli importava neppure più di essere aggredito; qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di quella prigionia.

«Buonasera, Izuku.»

Dinanzi a sé, c'era un uomo piccolo, con spesse sopracciglia bionde e occhi blu grandissimi. Aveva il viso scarno, come se non mangiasse da giorni.

«Chi è…?» chiese, aggrappandosi alla porta. L'uomo gli sorrise dolcemente.

«Mi chiamo Toshinori Yuri, sono un servitore, posso entrare?»
«Un servitore, uhm, si certo.» Si fece da parte, permettendogli di entrare nella stanza.

Toshinori restò in piedi, vicino al tappeto persiano. Izuku si sedette ai piedi del letto, invitando l'uomo a fare lo stesso.

«No, grazie. Purtroppo non abbiamo molto tempo, giovane Midoriya» esclamò, un vipiglio doloroso in viso.
Izuku corruggò la fronte.

«Come sa il mio…-»
«Come ho detto, purtroppo non abbiamo molto tempo, ti spiegherei tutto, ma non abbiamo tempo. Dovrai farti bastare quello che ti dirò.»
«L'ascolto» redarguì Izuku.
Il signor Toshinori annuì, pensieroso.

«Il giovane Katsuki sta facendo tutto il possibile per trovarti. Vuole salvarti, però stiamo avendo alcuni problemi» spiegò.

Izuku sgranò gli occhi, il cuore perse un battito.
«Kacchan mi sta cercando?» mormorò, sentendo il cuore fino in gola.

Il signor Toshinori annuì.

«Si, il giovane Bakugo ti sta cercando, devi resistere. Intanto, ti ho portato una cosa.» Così dicendo, sfilò un pacchetto dalla borsa che teneva lungo la spalla.
Izuku lo fissò, corrugando la fronte.

«Cos'è?» chiese. Il signor Toshinori glielo porse. «Aprilo» disse.

Izuku lo scartò. Era un pacchettino quadrato. Mentre buttava via la carta, scoprì con una punta di timore che era un libro. No, aprendo, vedendo la grafia, capì che non era un libro.

Era un diario. Sulla copertina c'era un girasole. Izuku lo sfiorò con le dita. La superficie era liscia. Dentro, sulla prima pagina, c'era una K piccolina, scritta in fondo alla pagina. Accanto, c'era un cuoricino rosso.

«Cos'è?» chiese, non riuscendo a capire.

Il signor Toshinori fece per parlare, ma sentirono dei passi lungo il corridoio. Si ammutolì.

«Leggilo, Izuku, capirai tutto» sentenziò, allontanandosi. L'omega provò a fermarlo.

«Ma come faccio, io…cosa devo capire…»
Il signor Toshinori abbassò il capo, addolorato. «Mi dispiace giovane Midoriya, leggi il fiato, mi raccomando!»

Poi, si alzò una nuvola di fumo e l'uomo sparì. Izuku restò solo in camera, rigirandosi il diario tra le mani.

Le parole del signor Toshinori gli risuonavano ancora nelle orecchie; cosa doveva capire?










«Purtroppo ancora non siamo riusciti a decifrarlo, Bakugo-bro» mormorò Kirishima, abbassando lo sguardo desolato.

Katsuki sospirò. Erano giorni che brancolavano nel buio. Erano riusciti a captare un indizio grazie anche all'aiuto dei membri della Resistenza, ma non erano riusciti a decifrarlo.

Non era stato facile. Ci erano voluti giorni di intercettazioni, chiamate, audio, messaggi. Tutto. Avevano tutto schermare tutto, ascoltare ogni parola, stare attenti ad ogni cosa. E a volte, erano così stanchi che si addormentavano con ancora le cuffie alle orecchie o i documenti davanti agli occhi.

Non era stato semplice.
Una macchina subdola, una spiegazione, una parola. Poi, un giorno, Celì era riuscito a captare un piccolo messaggio.
Una frase detta dal signor Toshinori.

L'aveva comunicata immediatamente a Katsuki, che aveva concordato con lui nel cercarne un significato. Non era riusciti a decifrarlo, non erano neppure lontanamente vicini a scoprire quel codice.

Una serie di numeri, lettere senza un filo logico. Katsuki ci era diventato matto. Ala fine, aveva dovuto ricominciare a riprendere le famose goccioline. Le odiava. Le aveva usate per d'un breve periodo della sua vita, ma ne aveva prese così tante che quando era andato in  overdose, i medici avevano concordato sul farlo restare in ospedale per un po'.
Inutile dire che li aveva mandati a fanculo tutti e se n'era andato.

Ora però, le gocce di Valium lo aiutavano a non dare di matto. Lo aiutavano a resistere all'impulso di distruggere tutto, aiutavano la sua insonnia.

Bastava qualche goccia, doveva solo stare attento.

«Com'è andata oggi con i bambini?» gli chiese, sedendosi vicino a lui.

I bambini erano sul tappeto, accanto a loro. Giocavano con le costruzioni. Ogni tanto, Nathan doveva consolare sua sorella Carlotta che piangeva per la mancanza della madre.

Katsuki non era mai stato bravo con i bambini, ma ultimamente, Kirishima era diventato molto paranoico. Non voleva lacaiarli più con nessuno, però, dovevano anche lavorare, perciò Katsuki si era offerto di guardarlo, visto che l'ultima volta che era stato in ufficio aveva fatto esplodere un'intera parete per via della frustazione.

Così, ora se ne stava a casa, si occupava dei marmocchi, gli preparava da mangiare, aspettava che tornasse Kirishima da lavoro e che magari, gli avrebbe detto che avevano scoperto tutto. Ma, non succedeva mai. Ogni sera, Kirishima tornava a casa e con lo sguardo desolato, scuoteva la testa.

Mi dispiace Bakugo-bro.

Katsuki sospirava e ricominciava il ciclo. Gli sembrava di soffocare.

«Zio, mi aiuti?» chiese Carlotta, asciugandosi gli occhi, mentre univa le costruzioni. Katsuki annuì, avvicinandosi.
La bambina stava cercando di creare una piramide, però, non ci riusciva. Aveva messo male i mattoncini e ogni volta che metteva la punta, quella cadeva.

Katsuki corruggò la fronte.

«Vuoi fare una piramide?» gli domandò. La bambina scosse la testa.
«Voglio fare un grattacielo» asserì.
«Un grattacielo? Hah, va bene.»

Iniziò a smontare il precedente monumento e prese a ricominciare. Pose prima la parte bassa, creando un parallelepipedo, poi, continuò.
Quando arrivò alla fine, la bambina corruggò il naso, confusa.

«Zio, ma al grattacielo manca la luce, non si vede niente dentro, devi lasciare il tetto libe-»

Qualcosa nel cervello di Katsuki scattò.
La luce. La luce, certo! Qual era se non quello uno dei modi della comunicazione segreta?! La luce!

«Si! Certo, la luce!» esclamò, iniziando a togliere i mattoncini dal tetto. «Kirishima, portami il foglio, penso di aver capito come decifrarlo!» redarguì.

Kirishima lo guardò confuso.

«Sbrigati, poi ti spiego!» asserì. Kirishima glielo portò.

Katsuki lo prese, intrappolandolo sotto la luce. Certo, quei numero equivalevano a delle lettere, ogni spegnersi di luce.

Corse in cucina, si mise accanto alla finestra e iniziò a trascrivere. Ci mise venti minuti, dopodiché, mostrò il suo lavoro ad un perplesso Kirishima.

«Cosa?»
«Leggi!» Gli sventolò il foglio davanti agli occhi. Kirishima prese a leggere.
«Cerca dove solo se hai gli occhi chiusi riesci a vedere. Girasoli
Il rosso sollevò lo sguardo su un sorridente Katsuki.
«Ma cosa significa? Dobbiamo comprare degli occhiali?»

Katsuki scosse la testa, ignorando la battuta dell'amico.

«Significa, che ho capito. Devo andare al campo, al nostro campo di girasoli.»



🌼

Spazio autrice:

Anche oggi 6600 parole, mi faccio sempre prendere la mano🙃

Comunque, che ve ne pare? Cosa farà ora, Izuku? E soprattutto cosa sono quei diari?

Poi, c'è Dominic! Cosa accadrà ora? Vi fidate o no del nuovo soldato? E cosa ne pensate?

Katsuki riuscirà a salvare Izuku?

Fatemi sapere tutto nei commenti!

Alla prossima♥️

Lilla

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top