2. L'anima vola

Izuku non sapeva mai che giorno fosse.

Non aveva un calendario, un modo per segnare il passar del tempo o un qualunque mezzo per sapere che ora o giorno potesse essere, ma quella notte sapeva che doveva essere speciale.
Speciale, perché presto sarebbe venuto il Natale e lo intuiva dal modo in cui il clima stava cambiando, iniziando a farsi più freddo, più asciutto.

Quella notte non riusciva a dormire.

Aveva avuto un incubo e la mente ripescava ancora le immagini e i posti che il suo subconscio gli aveva riportato a galla. Se ne stava seduto, le spalle poggiate contro il muro gelido, la trapunta poggiata sulle ginocchia e la mano destra a massaggiarsi delicatamente il ventre.

Non si era perciò fatto tanti problemi quando nel percepire delle urla da fuori aveva sobbalzato.

Osservava il muro, dove aveva inciso con le unghie dei piccoli graffi, cercando di contare il trascorrere del tempo. Anche Sam lo faceva e in quei giorni il suo unico amico gli mancava più del solito. Era passata una settimana dall'incontro con Aizawa, una settimana e un giorno, visto che ormai, doveva essere mezzanotte. In tutto quel tempo, Izuku si era limitato a dormire e mangiare. Ogni tanto, quando proprio non ce la faceva più, iniziava a piangere e spesso rimetteva.

Per quest'ultima cosa, temeva che fosse responsabile il suo bambino, il piccolo fagiolino che gli cresceva nella pancia e che gli teneva compagnia in quella radura di mostri e diavoli. Non c'era via di uscita e le sponde erano così lontane che anche solo pensare di attraversare il fiume a nuoto, gli faceva venire la pelle d'oca.

Non ce l'aveva con suo figlio, anzi era così contento di non essere più solo che ogni sera ringraziava Dio per avergli concesso almeno quel bambino. Però, alcune volte avrebbe voluto poter essere solo, così solo da non dover render conto a nessuno se decideva di morire. Perché Sam gli aveva ripetuto tante volte che a quello che pativano ogni giorno, era preferibile la morte ed Izuku col tempo aveva capito che il suo amico aveva ragione.

Non c'era giorno in cui Izuku, non desiderasse poter andare via di lì, ma le minacce del signor Shigaraki lo avevano spaventato a morte. Non gli era mai importato troppo di essere picchiato, ma ora a dover patire i colpi non era più solo lui; doveva proteggere suo figlio adesso.

Il bambino che cresceva nel suo ventre.

Qualche ora dopo, o così immaginò, bussarono alla sua cella. Lui non rispose, restando immobile e silenzioso, ma la porta si aprì comunque. Percepì ancora alcune voci, una sembrava disperata, l'altra annoiata, come se stesse imponendo qualcosa che neppure gli interessava.

Quando la porta si richiuse, Izuku sollevò gli occhi sullo sconosciuto.

«Per favore...» stava dicendo. La sua voce aveva uno strano tremito, come se stesse piangendo. Un raschiare sordo, simile a un tremore improvviso.

«P-padrone Aizawa?»  mormorò Izuku, scattando a sedere più accostato al muro.

«C-conosci Aizawa-sensei?» chiese lo sconosciuto, la sua voce bassa era scossa da un tremito. Non riusciva a vedere per bene i tratti del suo viso, ma sapeva che aveva i capelli color sole, biondi e luminosi come le immagini che Garfield gli mostrava sui suoi libri. Izuku annuì, sollevando appena la testa.

L'illuminazione della stanza era abbastanza da permettergli di osservare almeno un po' lo sconosciuto. Pareva sottile e fragile come una lastra di vetro.

Percepì i suoi passi, il modo in cui silenziosamente camminava, il suo respiro frammentato. Pareva terrorizzato, del tutto accattonato nelle sue rigide spalle sottili.

«S-sono Denki» farfugliò, tirò su col naso passandosi il dorso della mano a rastrellare le lacrime che gli macchiavano le belle guance alabastre. Con l'avvicinarsi della sua figura, poté finalmente scrutare il suo sguardo al volto del giovane.

Izuku lo osservò, facendogli cenno di accostarsi a lui. Non capiva perché stesse piangendo. Lo guardò in silenzio, captando i segnali del suo corpo, la maniera in cui si stirava le mani tenendosele in grembo, strette strette contro il ventre.

Alla luce della lampada, i capelli biondissimi di Denki brillarono come filamenti di miele. Le sue lunghe ciglia si mossero su e giù freneticamente. Izuku intravide una saetta nera tra quelle ciocche morbide che gli circondavano il viso pallido. Proseguì incuriosito, scendendo sui suoi occhi color miele, il naso all'insù, le labbra che finivano in una curva morbida e pulita.

Le sue spalle tremavano strette in un maglioncino rosso, piccole e effeminate. Non sembrava affatto un alpha, pensò Izuku.

«Io sono Deku, padrone» mormorò.

Gli occhi di Denki lo guardarono come se avesse appena pronunciato una bestemmia. Vide la parte color miele nelle sue iridi scurirsi, le pagliuzze simili a cristalli farsi più ardenti, tremanti, come scosse da un fremito interno.

«N-non... non chiamarmi così» biascicò, il tono ridotto a un sussurro. I suoi occhi volarono in basso, un odore dolciastro riempì l'aria, un profumo nuovo e fino. Di solito gli uomini che lo possedevano riversavano i loro feromoni e i loro odori addosso a lui. Lo avevano morso perfino, ma questo aroma era diverso, pareva vanigliato, esotico.

Si ritrovò istintivamente a respirare meglio quell'effluvio, allargando le narici. Gli penetrò nelle membra, attaccandosi alla sua ossatura.

«S-scusami» si affrettò a ciancicare Denki, si portò velocemente una mano alla ghiandola dietro al collo, premendoci sopra il palmo.

«N-non fa niente» lo tranquillizzò. Inclinò il volto, studiando con più attenzione. Non sapeva cosa pensare riguardo quel ragazzo, aveva solo una percezione debole di com'era.

Sembrava timido.
Un alpha timido.

«Bene, bene.»

La voce metallica dell'altoparlante li interruppe. Il suono raschiante dell'elettricità parve risuonare contro le pareti fino a inoltrarsi nelle fondamenta. Izuku scattò in quella direzione, osservando la telecamera, lo stesso fece Denki seppur più impaurito.

«Non vi abbiamo certo messo qui per chiaccherare» divampò la voce, facendo rimbombare il suo tenore lungo i loro corpi.

«Deku» lo chiamò.

Continuò ad osservare la telecamera, sebbene la sua mano tremasse.

«Spogliati» ordinò, repentina.

Deku deglutì, il solito batticuore, il fiato inesistente. Gli pareva di essere bloccato in un corridoio senza fine né inizi. Ed era tutto così grigio che gli faceva girare la testa.

Obbedì. Le sue mani screpolate corsero a sganciare le braccia dalla lurida stoffa che gli copriva il corpo esile. Represse, ingoiando la bile che gli era risalita nell'esofago, l'ondata di nausea che lo travolse quando si ritrovò nudo dinanzi a quel ragazzo che teneva lo sguardo basso, non osando guardarlo.

«Denki» disse ancora la voce, risuonando ancora più spaventosa. Il ragazzo dai capelli dorati sollevò la testa a sua volta. «Fai lo stesso.»

Le labbra del biondo si contrassero in una smorfia. Nel suo sguardo passò un lampo di terrore, puro e acerbo dolore.

«V-vi prego...» supplicò.

Gli occhi gli si erano già tornati a riempire di lacrime. Gli tremavano le labbra e le mani, così come il corpo già scosso da vari sussulti.

«Ricordati bene cosa accadrà se non obbedirai.»

A quelle parole il biondo sembrò ridestarsi. Tirò ancora una volta su col naso, un singhiozzo gli esplose nella gola mentre portava su il maglioncino. Continuò poi, sfilandosi i pantaloni neri e i boxer. Le mani parevano volte da spasmi sempre più profondi e radicali, tali che doveva condurre i suoi gesti con entrambe le mani.

Izuku non lo guardava, rispettando quel muto codice stabilito tra loro.
Capì con sorpresa che il ragazzo non voleva fare sesso con lui e che anzi, sembrava supplicare ogni dio affinché non venisse obbligato, ma non valse poi a molto; la voce non accolse quelle preghiere.

«Ora stendetevi sul letto» ordinò ancora.

Izuku obbedì, stringendosi con la schiena contro il muro per lasciare un po' di spazio al biondo, anche se il materasso era minuscolo perfino per una sola persona.

«Dovete fare sesso e poi potrete tornare a dormire.»

Un silenzio tombale seguì quelle parole. Izuku che da una parte se lo aspettava non disse nulla, non supplicò neppure. Denki al contrario, iniziò a piangere, singhiozzando disperatamente.

Izuku avrebbe tanto voluto consolarlo, passargli una mano sulla guancia dicendogli che sarebbe andato tutto bene come spesso Sam faceva con lui, ma non sarebbe stato per nulla vero.
Denki aveva il diritto di piangere, di urlare, di supplicare, e lui non poteva far nulla se non assistere inerme al suo dolore e alla sua disperazione, quella che un tempo lui stesso aveva sperimentato ogni sera.

«I-io... per favore... mi dispiace... mi dispiace..!» strillò il ragazzo, gli occhi rossi e gonfi, le dita che si stringevano nei capelli. Una contrazione nervosa della sua palpebra che fremeva arricciando i nervi in tensione, l'occhio sinistro semi-chiuso colto da un fremito isterico.

«M-mi comporterò bene, ma non fatemi fare questo, per favore, vi supplico!» mormorò ancora, i singhiozzi gli spezzavano il fiato ad ogni parola.

«Soggetto: Denki Kaminari» tuonò la voce. Il giovane non smetteva di tremare e piangere, avvinghiato alle sue braccia, strette contro il suo corpo nudo. «Se entro due minuti non obbedisce all'ordine verrà punito.»

Denki si buttò in ginocchio, le dita strette come se stesse pregando. La testa chinata in avanti, il corpo proteso in avanti in segno di sottomissione.

«V-vi prego... per favore... n-no» supplicò, la voce strascicata, gli batteva forte il cuore, alla stregua di quel sentimento che gliene sciupava qualunque altro.

Passati due minuti, tutto accadde molto velocemente.

Un attimo prima Denki stava supplicando, l'attimo dopo era chinato in avanti, urlando dal dolore. Non capì subito cosa stava accadendo. L'urlo gli ghiacciò il sangue nelle vene e lo riporto indietro a quando era sua madre a strillare, chinata sul pavimento della cucina, sporca di sangue e alcool.

Izuku scattò giù dal letto, correndo in suo soccorso, ma si bloccò quando fu abbastanza vicino da vedere cosa stava accadendo.

La pelle di Denki si apriva di millimetro in millimetro, ad ogni secondo di più, il suo corpo sembrava scuoiarsi, come a voler lasciare solo le ossa. Izuku restò immobile, interdetto tra il muoversi e il vomitare, mentre le urla di Denki riempivano la stanza. Pensò che sarebbe morto, che tutto il sangue gli sarebbe esploso insieme alla pelle e che sarebbero rimaste solo le ossa, staccate dalla carne, stese a terra e per un po' così gli parve. La visione lo lasciò così sconvolto da percepì i conati scuotergli il corpo. Dovette chinarsi, trattenere l'addome con entrambe le braccia, chiudere gli occhi ed occupare la mente. Con quelle grida maledette perforavano il velo di protezione che si era messo davanti al cuore, il fragile vetro che doveva fungere a non far schiudere i ricordi che gli assediavano la mente come fili d'erba in un campo.

Poi, improvvisamente, la carne prese a ricucirsi, unendosi, le ossa svanirono, la faccia prese a ricomporsi, le urla si smorzarono.

Izuku chiuse gli occhi, cercando di calmare il suo battito impazzito.

«Kaminari Denki.»

Il biondo sollevò tremante la testa, piccoli ciuffi che gli si scandagliavano sulla fronte.

«Torna nella tua stanza, per stasera va bene così.»

Il sospiro che sfuggì dalle labbra stanche di Denki arrivò preciso alle sue orecchie. Si ritrovò ad osservarlo spaventato e stanco.

«M-mi dispiace... non dovevi assistere a questo scempio.» mormorò Denki e solo dopo che le ebbe ripetute tra sé capì che quelle parole erano riferite a lui.

«S-stai bene?» riuscì a biascicare mentre Denki raggiungeva la porta.

Lui annuì. Non stava bene, non lo era mai stato, forse era per questo che capiva bene come ci si sentisse a stare male. Non lo espose a Denki Kaminari, non sarebbe servito a nulla se non a peggiorare il suo stato d'animo.

«Mi dispiace tanto, Deku» gli disse prima di lasciare la stanza, il passo strascicante, quasi barcollante.

Non poté fare o dire nulla per consolarlo.


🍂



Quando Izuku si rifiutava di comportarsi bene, il signor Garaki lo puniva.

Si ricordava bene come fosse affilata la lama che gli incideva la pelle o come bruciasse la sigaretta che gli premeva sulla schiena o tra le cosce. Ricordava come fosse spaventoso, fino a ridurlo alle lacrime, il suono delle cinghiate che gli tirava sulla schiena, ma nulla, nulla, faceva più male delle violenze.

Nulla era paragonabile al sentir ansimare il signor Garaki nel suo orecchio, nel sentire le sue parole cattive scivolare lungo il condotto uditivo, fino a sprofondare nel suo cervello, dove riusciva a malapena ad elaborarle, mentre il dolore gli rendeva il cuore friabile come un biscotto inzuppato nel latte. Sentiva di potersi sciogliere da un momento all'altro, sentiva di poter crollare, scoppiare a piangere dinanzi a lui ed essere sbeffeggiato, trattato alla stregua di un cane. Un cane che non doveva provare alcun sentimento.

Izuku odiava vivere con quella paura addosso. Non aveva nessuno certo, non poteva ribellarsi e l'ultima volta che lo aveva fatto... Non ci teneva a ricordare com'era stare legato ore ed ore mentre un mucchio di uomini reclamavano il suo corpo. Al solo pensarci gli salivano i conati.

Ma ora, ora cosa poteva fare?
Aveva visto che anche quel ragazzo sembrava aver patito l'inferno in terra, e se chiudeva gli occhi le immagini della sua pelle aperta in due gli si ripresentava vivida e fin troppo reale.

Non riusciva neanche ad immaginare un male del genere, seppur nella sua vita non avesse subito nient'altro se non dolore.


🍂



Due settimane dopo, Izuku era ancora bloccato lì.

Il tempo che scorreva rendeva il suo ventre appena più pronunciato, ma non c'era nulla di vistoso ed Izuku si preoccupava in continuazione per quando sarebbe arrivato quel giorno. Non sapeva cosa avrebbe fatto, non sapeva se sarebbe stato in grado di proteggere suo figlio.

Quel giorno aveva mangiato poco, le nausee erano più acute e dopo l'ultimo incontro con Denki, lo stomaco gli si chiudeva anche alla sola idea di mettere qualcosa sotto i denti. Non c'erano state altre visite, ma Izuku sapeva che era solo questione di tempo prima che qualcuno si presentasse alla sua porta.

Gli incubi c'erano ancora, così come i mostri che tentavano di acchiapparlo e gli attacchi di panico che lo costringevano in una morsa sempre maggiore.

Una sera, Izuku non avrebbe saputo dire con precisione che giorno fosse, - ma sapeva che erano passate due settimane e tre giorni da quando era lì, - la sua porta suonò.

Stava seduto a terra, con le spalle rivolte al muro, quando si aprì. Sollevò la testa, osservando lo sconosciuto penetrare nel silenzioso clima della cella. La luce ne illuminò i tratti, mettendo in risalto la mascella pronunciata, gli occhi aguzzi saettarono nel buio, un sorriso candido gli adornava i tratti.

Izuku sbiancò.

«Ciao, Deku.»

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