18. Il fegato
«ce la metto tutta
pur di capire
come si possa
riversare l’intera anima
il sangue e l’energia
in qualcuno
senza volere
nulla in
cambio
- dovrò attendere d’esser madre.»
Rupi Kaur
🌼
Nel sogno, Izuku rincorreva una volpe.
Non ne aveva mai vista una, ma il signor Garfield gliene aveva parlato svariate volte.
Vedeva da lontano la sua pelliccia rossa come sangue. Voleva acciuffarla, voleva braccarle il passaggio, voleva impedirgli di continuare a scappare da lui, ma finiva solo per inciampare.
Inciampava e prima di cadere metteva le mani in avanti, non riuscendo ad evitare di colpire il pavimento.
Percepiva l'impatto, ma non riusciva a finire mai di cadere.
Quando si era svegliato, aveva il fiatone.
Aveva impiegato qualche secondo per rimettersi in piedi, ancora turbato da quell'incubo, le gambe tremanti.
Aveva raggiunto la cucina, aveva salutato Mina e si era preparato qualcosa da mangiare, poi, era andato a cercare Katsuki.
Non era riuscito a trovarlo, però in compenso, aveva scoperto dove dormiva Denki. In effetti, aveva pensato, non vedendo quasi mai, che doveva essersene andato, però, quel giorno, mentre percorreva il corridoio, lo aveva visto uscire da una stanza alla fine del passaggio.
«Ciao» lo aveva salutato.
Denki aveva sollevato il viso, i capelli biondo grano gli erano finiti tra le ciglia. Se li era spostati con la mano, poi, lo aveva guardato.
«Ciao» aveva risposto.
Erano rimasti in silenzio per qualche minuto, guardandosi le punte dei piedi, poi, Izuku gli aveva chiesto come stesse.
«Non troppo male, tu?»
«Uh…ehm…uguale, immagino.»
Avrebbe voluto dire 'bene', ma sarebbe stata una bugia, però, quel giorno non stava neanche troppo male, perciò scrollò le spalle, sorridendo.
«Per quanto è successo nel-»
«Non ne ho parlato con nessuno» lo interruppe Izuku, guardandolo serio, «non ho riferito a nessuno, non lo farei mai» spiegò.
«Non è un problema, mi dispiace solo per ciò che hai dovuto vedere» asserì il ragazzo, chinando la testa.
Non riusciva a percepire il suo profumo, non riusciva a spiegarsi il suo genere, anche se ci provava, non sentiva nulla.
«Non fa niente» lo rassicurò Izuku.
Denki sorrise. Un piccolo sorrisetto tirato, le labbra inclinate.
«Non avrei voluto che lo vedessi» aggiunse Denki.
«Non potevi farci nulla» replicò.
«No…io…» si interruppe, strinse i pugni lungo i fianchi, la testa incassata nelle spalle, «mi dispiace…Izuku.»
Izuku si chiese perché tutti lo chiamavano così. Avrebbe voluto avvertirlo di chiamarlo Deku, solo Deku, ma aveva paura di aprire la bocca.
Annuì.
«Denki, devi usare il bagno?»
Shota Aizawa, in canottiera scura e pantaloni del pigiama, avanzava nel corridoio. Doveva essere uscito dall'altra stanza, quella che Izuku aveva visto sull'altro lato del corridoio.
«No, professore» mormorò Denki, distolse lo sguardo dalla figura di Aizawa, arrossendo.
Izuku si chiese perché lo avesse chiamato così. Si appuntò mentalmente quella parola.
«Ciao, Izuku» asserì Aizawa, chinando la testa in sua direzione.
«B-buongiorno» bonficchiò.
Aizawa gli fece un piccolo cenno, per poi scivolare in bagno.
«D-devo andare» redarguì Denki, avviandosi verso la sua stanza.
Izuku avrebbe voluto richiamarlo e chiedergli perché avesse chiamato Aizawa professore e cosa volesse dire quella parola, ma non lo fece.
Lo guardò sparire dietro la porta, poi, si girò e tornò in camera sua.
«Katsuki.»
Era seduto sul divano, l'alpha biondo era da poco tornando da lavoro. Aveva passato la giornata a rigirarsi nel letto, il polso che gli causava fitte fortissime, la nausea che gli opprimeva lo stomaco.
«Hmm?»
Katsuki teneva gli occhi socchiusi, la testa poggiata contro lo schienale di spugna.
«Posso chiederti una cosa?»
«Tutto quello che vuoi.»
Izuku aveva preso un bel respiro.
«Vorrei che tu mi insegnassi a leggere e scrivere» mormorò, le guance arrossate, la voce ridotta a un ottava.
Il biondo sollevò le palpebre, voltando il capo in sua direzione.
«Vuoi imparare?»
«S-si.»
«Allora, te lo insegnerò.»
Izuku annuì, mordendosi il labbro.
Katsuki tornò a poggiare la testa allo schienale. Gli occhi di Izuku non si spostarono di un centimetro.
«C'è dell'altro vero?»
Izuku arrossì, abbassando lo sguardo.
«Dimmi, avanti» lo spronò l'alpha, voltandosi a guardarlo.
Izuku sentì il suo sguardo bruciare come lava.
Non sapeva se era giusto chiederglielo, però voleva e doveva proprio farlo.
Prese coraggio.
«Mia mamma è ancora viva?»
Lo sguardo sorpreso di Katsuki lo colpì più di quanto avrebbe ammesso; cosa si aspettava gli avrebbe chiesto?
Non ebbe modo di immaginarlo, visto che il biondo aveva già aperto le labbra, parlando.
«Si.»
Izuku ignorò il battito assordante del suo cuore.
«E sai dove vive?»
«Izuku…» mormorò Katsuki, come se stesse pronunciando un avvertimento.
«Voglio vederla» ammise, spostando la sua attenzione sullo schienale bianco del divano. Su quel tessuto di cotone restava ancora la macchia di sangue che aveva lasciato Katsuki quando era stato ferito.
«Perché?» gli chiese l'alpha, la voce più severa, «ti ha abbandonato.»
No, non mi ha abbandonato, avrebbe voluto urlargli, ma non era quella la verità.
Avrebbe potuto mentire a sé stesso finché aveva tredici anni, ma già dai quattordici in poi, aveva capito che sua madre non lo aveva semplicemente perso di vista.
Se ne era liberata, così come si fa con un giocattolo rotto o con un giornale vecchio.
Tuttavia, il tempo non aveva certo fatto in modo che facesse meno male, anzi, Izuku non provava altro se non dolore.
Parlare di sua madre era sempre stato un tasto dolente. Non riusciva mai a capire perché lo avesse abbandonato, per quanto ci provasse, non riusciva a giustificarla.
Certo, erano poveri, erano entrambi omega, non avevano altro se non loro due, ma Izuku voleva bene a sua madre ed era certo che anche lei gliene volesse, anche se a volte diceva di odiarlo.
Però, il piccolo Izuku, non le credeva, perché lo diceva tra le lacrime e anche se era solo un bambino, aveva già capito che le cose che le persone dicono, soprattutto se lo fanno piangendo, non sempre sono vere.
«Mi hanno rapito» mormorò, «non mi ha abbandonato.»
Non sapeva perché continuava a difenderla, tuttavia, non riusciva a farne a meno, non riusciva proprio a smettere, a darle la colpa.
Forse, era proprio questa sua incapacità di vedere il peggio che lo condizionava.
Vedere sempre il buono in ogni cosa, non era un modo di vivere, era una malattia.
«Chi pensi ti abbia venduto a quegli stronzi?» aveva ringhiato Katsuki.
Izuku sollevò lo sguardo sul suo viso, restando decisamente di stucco.
Non si aspettava di sentirgli dire certe cose, non voleva che parlasse così di sua madre.
«Tu cosa ne sai?! Non è stata lei!» sancì, gonfiando le guance, infastidito.
Katsuki lo guardò addolorato. Gli lesse la pietà negli occhi mentre mormorava:
«Una madre non dovrebbe mai abbandonare suo figlio a prescindere da quello che sta passando. Lei era solo troppo debole.»
Gli occhi verdi di Izuku si sgranarono.
«Non sei nessuno per dire questo! Non sei neppure un omega! Come puoi essere c-così cattivo?!» la voce gli tremò, mentre si alzava, dandogli le spalle.
«Izuku…aspetta...»
Katsuki provò a riacciuffarlo, ma Izuku si sottrasse alla sua presa, raggiungendo il bagno per poi chiudercisi dentro.
Sentì il biondo bussare alla porta, forzandola affinché si aprisse, ma lo ignorò.
Si lasciò scivolare a terra, iniziando a piangere.
Nessuno capiva quello che aveva, nessuno capiva davvero quello che provava.
Singhiozzò, affranto e deluso.
Quando uscì dal bagno, Katsuki lo stava aspettando seduto sul corridoio, le spalle poggiate accanto alla porta del bagno.
Si stava ancora pulendo gli occhi quando lo vide.
«C-che fai qui?» gli chiese.
Katsuki si rimise in piedi, aiutandosi col muro alle sue spalle.
«Mi hai…ascoltato tutto il tempo?» insistette Izuku, guardandolo.
«Quante volte devo dirti che se stai male tu, sto male anch'io? Te l'ho promesso, no?»
Katsuki lo scrutava, un cipiglio serio stampato in viso.
«Scusa.»
Izuku sollevò lo sguardo, confuso.
«Per cosa?»
«Per quello che ho detto, per come ho parlato di tua madre, per averti fatto piangere» farfugliò Katsuki, la voce bassa.
I loro occhi si incrociarono.
«Ti ci porto» esclamò Katsuki.
«Dove?»
«Come dove?!» asserì l'alpha, aggrottando le sopracciglia, «da tua madre, alla tua vecchia casa.»
«Oh…davvero?» domandò, sorpreso.
«Certo» Katsuki gli si avvicinò, «te l'ho detto, qualunque cosa per te, 'Zuku.»
Più tardi, parlò a Xander, dell'idea di rivedere sua madre.
L'omega lo ascoltò in silenzio, aprendo le labbra solo alla fine.
«Penso che tu debba fare ciò che senti» gli disse, guardandolo. I suoi occhi verdi sembravano quercie vere e proprie.
«E se arrivo lì e non voglio più vederla?» chiese Izuku, dando voce ai suoi dubbi.
I demoni lo torturavano da dentro, corrodendogli il fegato e lo stomaco, con i loro piccoli denti affilati.
«Dici a Katsuki che vuoi andare via, no?» spiegò Xander, il tono ovvio, «quel ragazzo è pazzo di te, non riuscirebbe a dirti di no neppure se volesse.»
Izuku avvampò e sbiancò al tempo stesso.
«Ma cosa dici…!» esclamò, distogliendo lo sguardo, «non è affatto vero.»
Xander roteò gli occhi al soffitto.
«Si si, ed io sono un alpha!» lo sbeffeggiò, facendolo sbuffare.
«Dico sul serio, Xander.»
«Anch'io, Deku.»
«Riguardo quale delle due cose?» chiese Izuku, confuso.
«Entrambe.»
Mina non era stata felice di quella sua decisione. Aveva fatto notare a Katsuki con disappunto, che non era per niente buono portare un omega come Izuku in un mondo che non aveva mai conosciuto, o per meglio dire, utilizzando le sue specifiche parole:
«Che cazzo hai intenzione di fare? Traumatizzarlo ancora di più?! Vuoi buttarlo in pasto ai leoni?!»
Inutile spiegare che Katsuki gli aveva comunque risposto a tono. Mina aveva ribattuto e mentre Kirishima cercava di calmarli, Izuku, seduto sul divano, aveva mormorato:
«Sono proprio qui, in caso lo aveste dimenticato.»
Erano partiti presto.
Katsuki gli aveva legato la cintura di sicurezza attorno al busto e Izuku aveva sussultato quando gli aveva sfiorato il ventre.
Aveva fatto finta di niente, osservando meravigliato e un po' intimorito, il movimento della macchina.
Katsuki, gli aveva spiegato che quel tipo di auto, si chiamava Jeep e che era una grande macchina, particolarmente adatta ai terreni difficili.
Izuku era ancora mezzo addormentato quando avevano oltrepassato un lungo viale fatto di alberi, però, non si era fatto sfuggire neppure un particolare.
Si era incollato al finestrino, osservando con occhi pieni di meraviglia, ogni sfumatura del cielo, ogni stormo di uccelli migratori, ogni figlia degli alberi.
Quando finalmente erano arrivati in città, Izuku aveva iniziato ad osservare ogni casa, ogni palazzo, ogni marciapiede con lo sguardo sognante e curioso di chi vede quelle cose per la prima volta.
Aveva letteralmente appiccicato la faccia al vetro del finestrino, studiando a bocca aperta come gli abitanti della città attraversarsero la strada, come i grandi palazzi sorgessero dal terreno, come i semafori lampeggiassero.
«Vuoi chiedermi qualcosa?» gli aveva chiesto Katsuki vedendo il suo sguardo balzare dal finestrino al suo viso, per poi riabbassarlo, titubante.
«Hhm…no, niente» mormorò.
Katsuki tornò a guardare la strada, mentre Izuku osservava i palazzi.
«Kacchan.»
Ormai chiamarlo così, gli pareva quasi naturale, familiare e dolce, come il suo buongiorno al mattino o un sorriso quando si guardavano.
«Dimmi Izuku.»
«Questi palazzi, cosa sono?» domandò, incuriosito. Scandì per bene la parola tra i denti, come se avesse dovuto stamparla.
Katsuki gettò un'occhiata agli edifici che li circondavano.
«Quello» esclamò, indicando un palazzo sulla destra, «è la sede della SPL, vedi, che stanno entrando tutti quei cittadini?»
Izuku aggrottò la fronte.
«La cosa?» chiese, confuso.
«La SPL,» asserì Katsuki, scandendo le sillabe, «è un acronimo, sta per Società Per i Lavoratori» gli spiegò.
Izuku continuò a non capire.
«È un luogo creato dal governo, dove i cittadini sono obbligati a lavorare, ognuno in un settore specifico. I pochi che non ci lavorano, devono comunque essere iscritti al CRPS, che controlla scrupolosamente i loro redditi e la loro istruzione.»
«Cos'è il CRPS?» riprese Izuku, interdetto, «è un altro acronimo?»
«Si, sta per Comitato Riorganizzazione Priorità Sociali» continuò il biondo, «è il nuovo nome del governo. Pensavo te ne avessero parlato. Si tratta di un partito di egocentrici, megalomani e gente con quirk ordinari che si sono uniti sotto l'unico comando di un nazionalista del cazzo.»
«Dimentichi che io sono…»
Un analfabeta. Questo era, tuttavia non riuscì a dirlo. Aveva capito un quarto di ciò che Katsuki aveva detto, utilizzando quei paroloni che Izuku faticava anche solo a pronunciare.
«Cazzo, hai ragione» borbottò l'alpha tra i denti, «per fartela breve; esiste questo tizio, che ha raggruppato insieme un gruppo di persone con problemi di vario tipo, insieme hanno fatto un colpo di stato, salendo al governo. Da allora, i cittadini sono obbligati a comunicargli ogni mossa, ogni respiro, perfino quante volte vanno al cesso» spiegò Katsuki, stringendo più forte il volante, le sue nocche sbiancarono, tirando la carne.
Izuku annuì, sorpreso da quelle informazioni. Katsuki di solito, non gli parlava mai di quelle cose e ogni volta che provava a fare una domanda riguardante lo stato del loro paese, lui evitava di rispondergli, svincolando.
Oggi però, pareva di buon umore.
Più loquace, perfino più gentile.
«E se i cittadini si rifiutassero di andare a lavoro lì?» domandò, osservando il viso serio di Katsuki.
«Non possono farlo, Izuku» sancì, la voce che tradiva una punta di dolore, «il governo gli ucciderebbe la famiglia, li sterminerebbe uno ad uno, figli, mogli, mariti, donne, bambini…per loro non fa differenza. Non è il potere che fa gola alle persone, Izuku, quello che fa gola agli umani è essere temuti, è avere le carte adatte a far tremare anche il più vile degli uomini.»
Izuku capì dal viso dell'alpha che parlare di quello lo faceva innervosire. Immaginò che fosse perché non poteva fare nulla al riguardo, non poteva cambiare la situazione e la cosa lo frustava.
«E tu e gli altri come fate a non lavorare per il governo?» redarguì l'omega, inclinando il viso per guardalo meglio.
«Ma noi lavoriamo per il governo» asserì Katsuki, ingranando la marcia, «io, Kirishima, Mina, il Morto di Sonno, lavoriamo tutti per il governo, non possiamo non farlo, o ci ucciderebbero.»
«Che vuol dire? Allora perché mi hai liberato?!» cantalenò Izuku, balzando sul sedile.
Katsuki svoltò in una strada stretta.
«Noi facciamo parte della resistenza Izuku, noi siamo la resistenza» illustrò, per nulla turbato, proseguì su quella strada, «lavoriamo per quegli stronzi, ma non li appoggiamo. È come con gli scacchi, devi muovere un po' la tua pedina prima di poter mangiare quella del tuo avversario.»
«Kacchan, io non so giocare a scacchi.»
«Lo so, Izuku.»
«E allora per-»
«Era solo un esempio, 'Zuku.»
Voltò il viso, sorridendogli. La luce del sole gli rendeva i tratti più chiari, come pezzi di porcellana chiara e giovane.
Izuku annuì.
Katsuki aveva parcheggiato dinanzi ad un edificio altissimo. Al solo guardarlo, gli era girata la testa.
Il palazzo, al contrario di quelli che aveva visto prima, era quasi a pezzi. Le ringhiere dei balconi erano tutte arrugginite e sembravano sul punto di cadere in pezzi. Il tetto, tra le tegole mancanti, rassettava dei grandi, vasti, buchi qua e là.
«Questo…»
«Si, l'ultimo piano» proferì Katsuki.
Se lo ricordava. Ricordava che correva lungo le scale ogni volta che la madre lo andava a prendere da scuola, ricordava che si sporgeva sempre troppo dal balcone che dava sulla strada, ricordava che spesso la loro vicina bussava alla loro porta, portandogli dei dolci.
A quel tempo però, le pareti di quell'edificio erano rosse, e non come ora, di un rossastro quasi arancione, sbiadito e scrostato. Ricordava che il portone a quel tempo era di vetro, un bel vetro spesso e modellato, non come ora, non aveva crepe, non aveva spiragli.
Izuku ricordava che ci si specchiava ogni volta che tornavano a casa.
Per un attimo dovete chiudere gli occhi, stringendo i pugni.
Questo era diventata la società? Questo era il mondo che tanto voleva vedere?!
Non poteva immaginare che sua madre vivesse in quella catapecchia. Si disse, cercando di farsi coraggio, che forse dentro era meglio, che la casa, sarebbe stata ancora calda e accogliente come la ricordava, che sua madre sarebbe stata di nuovo lì, ad aspettarlo col sorriso sulle labbra.
Ricordava poco di lei, ma non avrebbe mai dimenticato i suoi occhioni verdi, identici ai suoi, le sue mani calde e gentili, il suo sorriso accennato.
«'Zuku, se non te la senti…»
La mano di Katsuki sfiorava la sua, i suoi polpastrelli gli accarezzavano il dorso della mano, sfiorandogli le dita.
Schiuse gli occhi.
«Sto bene» mormorò.
«Sai non devi dirlo sempre, se dici di star male qualche volta, nessuno se la prenderà» esclamò Katsuki, le sue iridi rosse gli lambivano ogni pensiero.
Izuku non poté reprimere un sorriso amaro.
«E a che servirebbe?» mormorò, poi, non gli diede il tempo di reagire, aprì lo sportello e scese dall'auto, facendogli cenno di seguirlo.
Mentre saliva le scale, Izuku pensò che un tempo quelle pareti gli erano sembrate familiari.
Ricordava il profumo del pane che sfornava la signora Dear, ricordava il viso paffuto del signor Richard, il suo cipiglio imbronciato ogni volta che leggendo il giornale veniva urtato dal piccolo Izuku.
Ricordava il vociare della signora che puliva le scale, ogni domenica mattina.
Ricordava quanto avesse pianto nel rammendare tutto nella stanza 366, ogni sera, ogni notte.
«Riesci a salire fino all'ultimo piano?» chiese a Katsuki, rivolgendo uno sguardo preoccupato alla ferita al fianco; il giorno seguente, aveva visto che non era ancora completamente guarita, ma Katsuki si sforzava comunque, ignorando la cosa.
«Si, cazzo, sto bene, non preoccuparti per me» asserì il biondo.
Izuku lo guardò critico, poi iniziarono a salire. A metà rampa aveva già il fiatone, Katsuki al contrario, sembrava molto più allenato di lui. Lo aveva già superato di qualche gradino, ma nel vederlo affaticato tornò indietro, affiancandolo.
«Puoi fermarti un po'?» gli chiese, poggiandogli la mano sulla spalla.
«No…sto bene» redarguì, tornando a salire.
Quando raggiunsero l'ultimo piano, Izuku non riusciva a riprendere fiato. Dovette poggiarsi contro il muro, respirando pesantemente.
Quando bussò alla porta, gli tremava la mano.
Non ebbero risposta, perciò, si voltò a guardare Katsuki.
«Bussa di nuovo» lo rassicurò.
Izuku lo fece.
Ci fu un altro minuto di silenzio, poi, la porta venne aperta.
«Che volete?»
Davanti alla porta però, non c'era il volto tondo e paffutello che ricordava appartenesse a sua madre, ma uno più piccolo, meno preciso.
I tratti fini, erano storti in una smorfia innervosita, le palpebre erano a metà calate, coprendo le iridi verde foglia.
Le guance diafane cosparse di piccole chiazze minuscole; efelidi chiare e tonde.
«Inko è in casa?»
Fu Katsuki a parlare, soprapponendosi tra Izuku e il ragazzo.
«Che vi serve? Vi deve dei soldi?»
Le parole di quel ragazzo gli risuonarono nelle orecchie, fino ad arrivare al suo cervello, che le macchinò dopo un po'.
Vi deve dei soldi?
Non riusciva a vedere in faccia nessuno dei due, riusciva a guardare solo le larghe e muscolose spalle di Katsuki, strette nella felpa nera che indossava.
«C'è si o no?» redarguì Katsuki, il tono severo.
«Che cazzo ti serve?»
Izuku quasi non se ne era reso conto; Katsuki lo aveva spinto via prima che il colpo potesse ferirlo. Aveva visto una lama luccicare, la mano di Katsuki era scattata, il polso bendato era entrato nella sua visuale.
Aveva sbattuto con la schiena contro il muro, quando aveva aperto gli occhi, aveva constatato il perché del gesto di Katsuki.
Il ragazzo teneva Katsuki premuto contro il muro, le scale alle sue spalle, il gomito sollevato, un coltello premuto contro la sua gola.
«Andatevene» sibilò il ragazzo, la presa stretta e stabile. Izuku si mosse, raggiungendoli.
«Per favore, non siamo qui per farvi del male…» mormorò, cercando di spostargli il braccio, ma come risultato ottenne solo una gomitata tra le costole.
Si rannicchiò a terra, il respiro mozzato, la mano premuta contro il ventre.
«Coglione del cazzo» aveva sentito urlare da Katsuki, non era riuscito a vedere cosa stese facendo, ma a giudicare dal rumore, il coltello doveva essere stato rilasciato a terra.
«Aspetta un bambino, vuoi per caso che ti uccida?!»
Al sentire quelle parole, il dolore si erano fatto meno acuto. Riusciva solo a pensare che Katsuki lo sapeva. Sapeva che aspettava un bambino… da quando? Quella domanda lo colpì come un dardo.
Sollevò lo sguardo, osservando Katsuki.
Si era liberato e aveva ribaltato la situazione. Ora, teneva quel ragazzo premuto contro la parete, l'avambraccio a stringergli la gola.
Il ragazzo non mostrava segni di debolezza, ma Izuku lo vide lanciare uno sguardo preoccupato alla porta. Sotto la luce della lampadina che pendeva dal soffitto basso, riuscì a carpire meglio il colore dei suoi capelli.
Lunghe lisce ciocche corvine, macchiate di un debole color smeraldo.
«'Ucien…'ucien…»
Sulla soglia della porta, un bambino con gli occhi verde smeraldo e riccioli corvini, si teneva il pollice tra le labbra, guardando preoccupato il ragazzo che Katsuki teneva contro la parete.
«Va…tutto…bene» borbottò il ragazzo, «Torna dentro...Millie…»
Izuku guardò perplesso il bambino.
La somiglianza al ragazzo era fin troppo esplicita; per un attimo pensò che era suo figlio, poi, capì che anche il ragazzo doveva essere molto giovane, perfino più piccolo di lui.
«'Ucien…» il bambino si avvicinò, ignorando gli avvertimenti dell'altro.
«Vai…dentro…!»
Il bambino non ascoltò, avvicinandosi alle gambe di Katsuki. Lo colpì con i suoi piccoli pugni, strillando di lasciarlo andare.
«Lasch-ia andare, 'Ucien!»
Katsuki chinò lo sguardo, guardando il piccolo tirargli contro i suoi pugni.
«Vai dentro…Millie!» gli ripeté il ragazzo, spazientito. Colpì Katsuki, cogliendolo di sorpresa.
Il biondo arrancò di lato, lasciandolo andare. Il ragazzo prese il bambino dalla mano, avvicinandosi scaltro alla porta, ma prima che potesse raggiungerla, Izuku si mise in mezzo.
«Aspetta, ti prego» sussurrò, sbarrandoli la strada, «vogliamo solo parlare con Inko…»
Il corvino non lo ascoltò, lo spinse via con un gesto brusco, ma quando la sua mano toccò la sua guancia, Izuku sgranò gli occhi.
Un lampo, un coltello affilato, le urla di un bambino, un paio di mani che lo afferrano, lo spingono via, lo gettano contro il muro. Vede un bambino piangere, vede delle mani che lo ghermiscono, sente il rumore di vetri infranti. Il sangue gli colora le dita.
Hai fatto la cosa giusta, Lucien, ti aiuterò io… vede un paio di occhi azzurri, vede il suo cipiglio serio, lo vede andarsene via.
Lo scenario cambia.
Vede un bambino, si sta coprendo la testa, mentre un paio di suoi compagni lo colpiscono con dei calci nel petto, sulla schiena, sulle braccia.
Lo vede sollevarsi da terra, asciugarsi le lacrime, zoppicare fino al bagno. Si aggiusta la divisa, si mette a posto i capelli verde giada. Esce dalla scuola e cammina finché non arriva ad un palazzo. Prima di entrare, lo vede abbozzare un sorriso ad una pozzanghera, spingersi gli angoli delle labbra all'insù con gli indici, lo vede soffocare un singhiozzo.
Sale le scale, sorride ad una signora seduta sulle scale, apre la porta più rotta delle altre. Un bambino gli corre, stringendogli le braccia attorno alle ginocchia. Sorride, i suoi occhietti gli scrutano il viso.
Lui ricambia il sorriso.
«Andiamo a mangiare» gli dice prendendogli la mano.
Il bambino lo segue.
Lo vede indulgiare con lo sguardo sul divano. Lì sopra, stesa tra i cuscini e le bottiglie di birra vuote, c'è una donna. Tiene gli occhi chiusi.
Sul viso ormai invecchiato ha un livido violaceo. Il suo vestito è strappato.
«La mamma starà meglio?» chiede il bambino, il ragazzo gli sorride, le labbra gli tremano, distoglie lo sguardo, sbianca.
«Certo.»
Izuku sporge la testa, curioso, guardando meglio quella donna. Sono i suoi capelli verdi che riconosce.
Si copre la bocca con le mani quando nota la sua gola. È livida. Un taglio lungo e profondo le solca la pelle vicino alle carotidi.
Lo scenario cambia.
Izuku trema e deve aggrapparsi a qualcosa che somiglia a un muro.
«Prenditi cura di lui, Lucien.»
Un uomo gli sta tenendo le mani sulle spalle magre, il ragazzo lo sta guardando.
Annuisce, gli occhi lucidi.
«Non te ne andare, papà» lo prega, trattenendo le lacrime.
L'uomo lo ignora.
«Devo andare, Lucien, prenditi cura di tuo fratello.»
L'uomo apre la porta, Lucien gli corre dietro, ma l'uomo non si ferma.
Quando rientra in casa, prende per mano suo fratello e lo ripulisce dal sangue.
«Andrà tutto bene, mi prenderò cura di te» gli promette, gli lascia un bacio sulla testa e lo abbraccia.
Lo scenario cambia di nuovo, stavolta, la puzza di acido suona come un rumore sordo. Izuku solleva gli occhi, guardandosi attorno.
Lucien è piegato in due su un marciapiede sudicio. Non piange, resta allungato a fissare una striscia di cielo, il corpo coperto di lividi, il sangue che gli imbratta i vestiti. Quando si solleva da terra, è ormai giorno. Fa una smorfia nel rimettersi in piedi, raggiunge una borsa da lavoro lanciata poco più avanti e se la rimette in spalla. Zoppica via da quel vicolo senza neppure guardare dove sta andando.
Izuku venne di nuovo trasportato via.
Nel guardasi attorno, si accorse di essere tornato al presente.
Katsuki lo stava guardando preoccupato, il ragazzo dinanzi a sé era confuso.
Fece a malapena in tempo a capire cosa stesse succedendo, che Lucien stava già rientrando in casa. Katsuki provò a bloccare la porta, ma Izuku sapeva che non avrebbe funzionato, così, mandò giù la bile che gli stava risalendo su per la gola e parlò.
«Lucien? Ti chiami così, vero?»
Il ragazzo si bloccò. Lo vide sollevare gli occhi verdi, guardarlo davvero per la prima volta.
«Come sai il mio nome?» gli chiese, l'espressione seria.
Izuku lo ignorò. Si fece più vicino.
«Quanti anni avevi quando ti ha tolto i pantaloni? Quando ti ha sussurrato che sarebbe andato tutto bene? Quando ti ha portato via l'unica cosa che-»
«Chi cazzo sei?!»
Lucien era scattato in avanti, ma Izuku non si era mosso. Se voleva colpirlo, lo avrebbe lasciato fare.
Ingoiò la poca saliva che gli inumidiva la bocca e socchiudendo gli occhi, si decise a mettere a fondo quel colpo.
«Sono Izuku, Izuku Midoriya, tuo fratello maggiore.»
🌼
Spazio autrice:
Diciamo che i colpi di scena e i drammi familiari sono proprio il mio forte hahah!
Comunque, che ve ne sembra? Vi siete già fatti un'idea di Lucien?
E soprattutto, cosa pensate farà ora Izuku?
Aspetto le vostre ipotesi, curiosa come sempre💜💜
P.S. che genere pensate sarà Lucien?
Alla prossima,
Lilla
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