16. A quello che eri

«Perché a coloro
a cui io voglio bene, sono proprio quelli
che mi fanno il male peggiore.»
Saffo

🌼

Durante la notte, Izuku gli si accostava.

Shoto lo aveva osservato senza riuscire a chiudere occhio, gli aveva scostato i riccioli che come seta gli erano scivolati sulla fronte, gli aveva accarezzato le lentiggini, le guance calde, le labbra.
Aveva osservato e ascoltato il battere lieve del suo cuore.

Aveva poggiato una mano sul suo fianco, stringendolo al suo petto. Il calore del suo corpo gli era parso come una fiaccola nel buio. Gli era mancato.

Lo aveva stretto come era solito fare in passato, aveva affondato il naso nei suoi capelli ricci, aveva respirato il suo odore selvatico.
Il profumo di Izuku, gli aveva ricordato i fiori, i laghi. Un mix micidiale e primaverile che gli dava al cervello molto più degli alcolici.

Non era riuscito a godersi a pieno il momento in passato, ma ora capiva quanto era stato sciocco a lasciarlo andare. Izuku non somigliava a nessuno e nessuno avrebbe mai potuto somigliare ad Izuku.
Il verdino, aveva qualcosa che negli altri omega non riusciva neppure ad immaginare; non era mai riuscito a capire cosa fosse, sapeva solo che a stento riusciva a tollerare la presenza di altri omega, specialmente se gli si avvicinavano troppo.
Ogni cosa gli ricordava Izuku, i primi tempi.

Ogni cosa non riusciva a fargli andare via la nostalgia che aveva di quel ragazzo.

Izuku sembrava aver scavato un tunnel nella sua anima, facendone da fondamenta e al tempo stesso da distruttore. Lo aveva spezzato sapere che quello che provava non era pienamente corrisposto, sapere che un altro alpha, un altro uomo avrebbe potuto avere il suo Izuku.

Lo aveva dovuto accettare.
E ci aveva provato, aveva cercato in ogni modo di lasciarlo andare, ma quando aveva scoperto chi era l'altro alpha, il suo istinto aveva preso il sopravvento.

Katsuki Bakugo gli aveva portato via tutto. Ogni cosa. Non gli avrebbe permesso di avere Izuku.
Non lo meritava, un mostro come lui non meritava neppure di sognarlo un omega, figuriamoci Izuku Midoriya.

Non aveva potuto farci nulla, però.
Non gli sembrava affatto giusto, ma Izuku lo voleva.
Izuku, il suo piccolo e gentile omega, il ragazzo che gli aveva rubato il cuore, il cervello e il fegato.
Era stato lui a scongiurarlo di lasciarli in pace, di lasciare che Katsuki lo amasse o lo distruggesse, senza interferire.

E Shoto aveva accettato.
Shoto lo aveva lasciato andare, piano piano, guardandolo da lontano, amandolo ogni giorno di più, ma precludendo quell'amore sempre più infondo, sempre più giù.
Dove non avrebbe fatto male ad Izuku, dove solo lui lo avrebbe potuto riacciuffare, nel buio della notte, nella sua stanza, quando i singhiozzi si mescolavano ai lamenti del suo alpha che lo reclamava.

E vederlo, ogni giorno, saperlo lontano, saperlo di un altro, lo aveva distrutto piano piano, pezzo a pezzo.
Lo aveva corrosso come acido, staccandogli la pelle minuziosamente, sbrandellandogli l'anima come un coltello che squarcia carta velina.

Izuku era rimasto imprigliato nel suo dna, come una cellula cancerosa, come un tratto distintivo del suo carattere.
Lo aveva assorbito e era entrato nel suo sangue, nelle sue arterie, nei polmoni, nella corteccia celebrale.

Vagava in cerca del suo sguardo tra le persone e della sua voce tra la folla.

Sognava di poterlo stringere, piangeva vedendo il suo sguardo felice, urlava quando sul suo viso compariva qualche lacrima.

Ma stringeva i pugni, respirava forte, si imponeva di rispettarlo. Di rispettare i desideri di Izuku, il suo volere.

E lo aveva fatto, lo aveva rispettato.
Finché, una sera non se lo era ritrovato sulla soglia di casa, con gli occhi rossi e gonfi e la voce tremante.
Gli era scivolato tra le braccia, mentre singhiozzando gli chiedeva di perdonarlo, mentre sussultando il suo corpo gli si stringeva contro, mentre quasi svenendo gli parlava di Katsuki, delle lacrime che gli aveva causato, del loro litigio.

Shoto avrebbe voluto distruggerlo.
Uscire di casa, raggiungerlo e iniziare a colpirlo. Avrebbe voluto colpirlo così forte che gli avrebbe spostato le ossa del viso, che gli avrebbe rotto gli zigomi e spaccato a metà il cranio. Avrebbe voluto colpirlo così forte che i suoi sentimenti sarebbero saltati tutti fuori e lui, avrebbe frugato tra tutti, ripescando l'amore.
Allora, lo avrebbe portato a Midoriya e glielo avrebbe poggiato sul cuore, come un cerotto, lo avrebbe protetto lui, gliene avrebbe dato quanto ne voleva.

Non avrebbe più pianto.
Sul suo bel viso pallido ci sarebbe stato sempre e solo quel suo sorriso dolce, timido. Nei suoi occhi verde foglia ci sarebbe stato solo il riflesso del suo viso, mentre lo guardava.

Shoto non avrebbe mai staccato gli occhi da lui, non avrebbe mai potuto lasciarlo andare. Lo aveva capito allora, lo aveva intuito, lo aveva accettato.

Aveva lasciato che Izuku si sfogasse, lo aveva fatto dormire nel suo letto, lo aveva abbracciato, come faceva ora, e Izuku, lo aveva stretto così forte che Shoto aveva dovuto mordersi la lingua per impedire che due paroline gli saltassero fuori dalla bocca, come un soffio d'aria.

Quando la mattina seguente era arrivato a casa di Katsuki, non aveva chiuso occhio.

Se ne era reso conto più avanti, quando in caserma gli avevano chiesto perché lo aveva fatto. Shoto ricordava il sangue, le urla, il rumore dei singhiozzi di Izuku, le sue mani che lo tiravano via, il suo viso arrossato.

Ricordava che gli aveva chiesto di non ucciderlo, di non far perdere a qualcuno di innocente, il padre. Inizialmente non aveva capito, si era limitato a spostarlo, a tornare alla carica, ma quando quelle parole gli erano arrivate al cervello e si erano connesse alle sue sinapsi, qualcosa gli si era illuminato dentro.
La parola brillava, come la risposta ad un'enigma particolarmente difficile.

Due più due.
Il suo cervello aveva smesso di dare comandi. Le braccia gli si erano afflosciate lungo i fianchi, le ginocchia avevano ceduto. Quando era tornato a respirare, ricordava che suo fratello gli teneva la mano.
Natsuo, con i suoi capelli argentati e gli occhi più blu dei laghi d'Alaska, aveva pianto. Aveva scioccamente pensato, che era la prima volta che lo vedeva piangere.

I medici gli avevano detto che aveva smesso di respirare per un po', che il suo cuore aveva smesso di pompare, i polmoni di incamerare aria, le vene di funzionare.

Continuava a rivedere il viso arrossato di Izuku, le sue lentiggini chiare.

Non importava se non lo amava più, non importava se non gli voleva più bene, andava bene comunque.
Lo avrebbe amato lui, gli avrebbe voluto bene lui.

Izuku non sarebbe mai stato un peso per lui, Izuku non sarebbe mai potuto essere di qualcun altro.

Aveva urlato, si era dimenato, aveva schiaffeggiato Natsuo.

I medici lo avevano sedato, l'ago gli aveva bucato la vena, un po' di sangue aveva intaccato il filtro trasparente delle medicine nella flebo.
Era filtrato fin su, mischiandosi a chissà quale sostanza.

Izuku.
A lui aveva pensato prima di lasciarsi scivolare sul lettino.

E ora, mentre lo aveva vicino, il suo cervello gli riportava a galla sempre più dettagli, come se stesse finalmente componendo un puzzle i cui pezzi si erano sparsi in tutto il suo corpo.
Ogni pezzo ora, tornava a galla, ogni pezzo si sottraeva ad un suo organo, gli tornava davanti al viso, come una pellicola che si ricomponeva.

Izuku, l'Izuku di adesso, non era più il suo Izuku. Non era un omega gentile e timido, ma un ragazzo spezzato, un bambino ferito, un omega che aveva sofferto pene innominabili.

Non riusciva a fare breccia in quella corazza armata, non riusciva a scovare il suo cuore; gli sembrava fatto a pezzi, gli sembrava che ne avesse un pezzo in ogni parte del corpo.
Riusciva a farglielo a ucciderlo ogni volta che sbagliava una parola, riusciva a ricongiungerlo ogni volta che gli sorrideva.

Izuku lo cuciva da dentro ad ogni suo respiro, lo riparava come un vetro rotto, lo riportava a prima, lo aggiustava come un pendolo rotto. Il suo cuore tornava a battere come le lancette di un orologio, solo quando le sue dita fragili lo toccavano.
Viveva solo quando gli sorrideva.

Il suo piccolo fragile Izuku era ancora lì, a volte, quando perdeva la speranza, lo guardava e infondo al verde dei suoi occhi trovava la scintilla più chiara della quale si era innamorato e ne restava stregato. Izuku, era la sua maledizione personale e la sua personale benedizione.

Izuku restava incastrato nella sua gola come un fiore che si artiglia ai rami di un albero.
Non riusciva a tirarlo fuori, non riusciva a deglutirlo, ma neppure a sputarlo. Restava nella sua gola, come un pezzo stesso del suo corpo.

Impigliato.

Lo scricchiolare della porta lo riportò alla realtà. Sollevò velocemente lo sguardo in direzione della figura che ne era emersa.

Il buio della stanza gli imoedeva di contraddistinguerne i tratti, ma avrebbe scommesso di sapere di chi si trattava solo dal suo odore.

Lo sentì avvicinarsi, il suono raschiante dei suoi passi solitari, il soffiare piano del suo respiro.

Aveva stretto di più il corpo di Izuku contro il suo.
Il viso affondato nella sua spalla.

Lui aveva allungato la mano, sfiorando le lentiggini di Izuku. Il verdino non si era ritratto, non si era svegliato, ma aveva mugolato.

Aveva scrutato il modo in cui i polpastrelli di lui gli avevano lisciato la pelle, soffermandosi sulle sue guance rosate.
Aveva corrugato le sopracciglia, infastidito.

Era di nuovo una lotta che lui, in passato, aveva già perso.

«Non stringerlo così forte, gli mozzi il respiro, cazzo» gli aveva ringhiato Katsuki.
Aveva allontanato il viso dalla spalla di Izuku, guardandolo.

«Che cazzo vuoi? Farlo piangere di nuovo?» aveva replicato, il tono acido, raschiato da una rabbia che non gli si addiceva.

Katsuki aveva rimosso la mano, gli occhi ancora fermi sul viso rilassato di Izuku.

«Non l'ho fatto piangere, stasera» redarguì, il tono asciutto.

Shoto sbuffò un risolino isterico, sprezzante.

«No, ci ha pensato il tuo ragazzo.»

Katsuki si irrigidì, le sue spalle si drizzarono, come se anche solo percepire quelle due parole fosse troppo per lui.

«Che stai dicendo?» chiese, il tono malfermo.

Shoto sorrise, aveva fatto centro; se giocava bene, avrebbe vinto questa mano.

«Izuku ha un cuore, e tu glielo calpesti senza ridegno» soffio, basso e sicuro, «Dominic non ha limiti, e tu lo sai. Il tuo comportamento non mette in pericolo solo te, ma anche lui. Devi smetterla, Bakugo, non lo meriti e non lo hai mai meritato, né in questo universo né in quell'altro.»

Katsuki ringhiò, un ululato profondo e adirato, qualcosa di simile ad odio mischiato a frustrazione, qualcosa di strisciante e rabbioso.

«Allenta quella fottuta presa, Bastardo, non respira bene.»

In effetti, si accorse Shoto con rammarico, Izuku respirava affannosamente.
Fece scivolare la presa, lasciando che l'omega tornasse a incamerare ossigeno normalmente.

«Vattene» soffiò in direzione del biondo.

«Cosa intendi con quello che hai detto? Che cosa gli ha fatto Dominic?» domandò Katsuki, ignorandolo.

«Intendevo esattamente ciò che ho detto; Dominic non fa altro che odiare Izuku, lo sai bene, ma ignori la cosa e lui, ne paga le conseguenze. Se, come continui a ripetere tanto, lo ami davvero, farai ciò che è meglio per lui.»

Katsuki non lo guardava più. Gli aveva voltato le spalle, colto da un fremito che non sfuggì agli occhi attenti di Shoto.

«E cosa sarebbe meglio per lui, eh stronzo? Lasciarlo a te?» sibilò, adirato, «se non sbaglio già una volta hai provato ad ucciderlo, e se non fosse stato per me, Izuku non sarebbe qui, ora» gli ricordò, il tono amaro.

Shoto socchiuse gli occhi.
Aveva fatto tanti, troppi errori, ma poteva rimediare, questa era la sua occasione per rimediare e non avrebbe consentito a Bakugo Katsuki, di portargliela via di nuovo.

«Sei intelligente, no? Applicati.»

«Izuku non è tuo» affermò Katsuki.

Shoto sorrise, un sorriso addolorato.

«Neppure tuo però, lo hai perso quando hai affermato di averlo, Katsuki.»

Il pugno del biondo colpì il muro, il cartongesso si crepò, l'intonaco rovinò per terra, cospargendo il pavimento di polvere.

Shoto non batté ciglio.
Midoriya mugolò qualcosa, facendosi più vicino al Todoroki.

«Kacchan…».
Il suo sospiro suonò lungo il perimetro della stanza, rimbalzando tra soffitto e pareti, fino a raggiungerlo gli uditi degli alpha.

Shoto si irrigidì.
Quel nomignolo… pensava che Midoriya lo avesse ormai dimenticato…

Il ghigno di Bakugo gli parve farsi infinitamente ampio.

«Non ho bisogno di giustificarmi, Bastardo» redarguì, il tono biascicante, gongolante, «il cuore conserva tutto» affermò, come se sapesse solo lui di che stava parlando.

Si voltò di nuovo, dandogli le spalle.

Shoto avrebbe voluto replicare, ma Bakugo mosse qualche passo verso la porta, aggiungendo:

«E per te, sono Bakugo, sempre

Quando Izuku si svegliò, ci mise un po' a mettere a fuoco la stanza. Non si trovava in camera sua e neppure in quella di Katsuki.
Si mise a sedere, sbadigliando.

Accanto a lui, il posto era vuoto.
Le lenzuola chiare erano fresche, la luce che filtrava dai vetri sottili, era opaca, grazie alle tende che ne facevano da scudo.

Si mise in piedi, mentre gli eventi della sera precedente gli tornavano in mente.

Il bacio, la fuga, i ricordi, Dominic, Shoto…

Shoto.
Quella doveva essere la sua stanza.
Capì con una punta d'imbarazzo che il ragazzo lo aveva fatto dormire lì, abbracciati.

Questo se lo ricordava.
A spezzoni, i ricordi gli tornavano sempre. Ricordava il calore confortevole della pelle morbida di Shoto, il suo respiro leggero sulla spalla, la sua voce chiara.

Socchiuse gli occhi, passandosi una mano sugli occhi. Nei suoi ricordi, c'era anche la voce di Katsuki, il suo tono raschiante, il suo profumo legnoso.

Ne ricordava i tratti, come se stesse percependo una sinfonia conosciuta, ma non riusciva a sentire le parole.
Doveva averlo sognato, si disse.

Si rimise in piedi, girovagando per la camera. Non c'era molto, e in più, si sentiva terribilmente in imbarazzo, perciò, raggiunse il bagno in corridoio, stranamente vuoto.

Mentre usciva dal bagno, percepì la voce peperina di Mina, perciò, si fermò, ascoltando da dietro la porta.

« …non penso che sia una buona idea, Katsuki» stava dicendo la giovane alpha, il tono rimproverante.

«E perché? Deve sapere, e questo è il modo migliore, via il dente, via il dolore» redarguì Katsuki, la voce seria, quasi gonfia di una frustazione che Izuku non comprese.

«Si certo, e poi cosa? Gli offriamo un bicchiere di Tequila e gli diciamo che è tutto ok?!» replicò Mina, la sfumatura sarcastica nella voce non passò inosservata.

Katsuki disse qualcosa che Izuku non riuscì a sentire, la voce bassissima.

«Senti, lo so che è difficile per te,» stava dicendo Mina, la voce intenerita, «però, Katsuki, devi capire che per lui è difficile, non riesce neanche a ricordare cosa ha fatto sua madre, come pensi che possa ricordare qualcuno che gli ha spezzato il cuore?»

Percepì attraverso la porta il sospiro teso rilasciato da Katsuki.

«Lo sai che non gli avrei mai fatto del male.»

«Si, io lo so, Katsuki» aveva detto Mina, «ma cosa pensi immaginerà lui quando glielo racconterai? Ricorda che è pur sempre qualcuno che ha sofferto, che non si fida, né potrà mai farlo così semplicemente.»

«E allora cosa diavolo devo fare?» il tono di Katsuki gli ricordo più una lamenta, una supplica, «perché ti giuro che non so più cosa fare. Non so come muovermi, non so come toccarlo, non so come parlargli, ho paura perfino di guardarlo… ti rendi conto, io, Katsuki Bakugo, non so cosa fare o dire!»

Mina sospirò.
Percepì lo scrocciare degli abiti che si toccavano, la voce bassa di Mina.

Oh, pensò Izuku, lo sta abbracciando.

Poi, percepì un singhiozzo.
Katsuki, sta…?

Non riuscì a pensare ad altro, però il suo cuore si strinse, come se fosse stato colpito da un dardo. Scivolò in avanti, senza che se ne rendesse conto, finì con il viso contro la porta, si aggrappò alla maniglia, ma riuscì solo a farla abbassare, aprendo la porta.

Immaginò di finire per terra, di rovinare contro il pavimento e procurarsi un bel livido sul viso, ma non fu così.

Vide un tratto del pavimento, poi, il suo sguardo venne attratto da un paio di braccia forti. I suoi fianchi vennero tirati all'indietro, riacquisì l'equilibrio.

«Che imbranato» sentì mormorare.

Sollevò lo sguardo, notando il viso perfetto di Katsuki. Le sue braccia lo tenevano saldamente, impedendogli di divincolarsi.

Mina anche lo stava guardando, trattenendo le risate.

«S-stavo…» provò a giustificarsi, ma non gli uscì nulla dalle labbra.

Già, cosa stava facendo?!
Sbuffò, percependo le risatine mal trattenute di Mina.

«G-grazie» bonficchiò in direzione di Katsuki, che lo aveva lasciato andare.

Il biondo distolse lo sguardo.
Provò a scrutare il suo viso, ma non riuscì a vederlo.

«Sta' attento la prossima volta che ti metti ad origliare, almeno» redarguì, il tono neutro.

«N-non stavo…»

Non riuscì a concludere, Katsuki si allontanò velocemente, gettando un'occhiataccia a Mina.

«T-tutto ok?» chiese l'alpha tra le risate, «s-scusami…ma stavo morendo…» bonficchiò, asciugandosi una lacrima.

Izuku avvampò, mortificato.

«Sto bene» mormorò.

Mina annuì.

«Ti va di andare in cucina?» gli chiese la ragazza, «ho bisogno di una mano per il pranzo.»

Izuku mosse la testa, annuendo.
Almeno, si disse, non doveva pensare a ciò che aveva sentito se teneva le mani occupate.

Non pensava che cucinare potesse essere così soddisfacente, però, mentre sfornava la torta ai mirtilli, dovette ricredersi.

Cucinare gli evitava che il cervello gli svagasse da altre parti. Se si teneva occupato sulle procedure da seguire, non sbagliava e non sbagliando riusciva a trovare il modo di non pensare.

Izuku, era un perfezionista.
Glielo aveva detto un cliente, accarezzandogli la testa, ma solo quando aveva chiesto a Mina aveva capito il significato di quel vocabolo.

Perfezionista.
Fare una cosa, essere, dire qualcosa, in modo impeccabile.
Izuku voleva, pretendeva di essere impeccabile, sempre.

Poggiò la teglia sul bancone della cucina, osservando soddisfatto la riuscita del suo dolce. Mina gli aveva dato gli ingredienti e la ricetta e lo aveva lasciato fare, lei, era in giardino con i bambini.

Izuku non era voluto uscire, aveva preferito tenere per sé il suo umore basso, sfogando il suo dispiacere sulla cucina. Aveva sporcato tutto, perciò, mentre lasciava raffreddare la torta, si mise a ripulire.

Avevano mangiato da poco, tuttavia, Kirishima, Shoto e Katsuki, erano andati a lavoro senza che lui li potesse salutare.
Certo, aveva visto Katsuki prima, ma non equivaleva proprio ad un incontro.

Sciacquò le scodelle utilizzate per l'impasto, i mestoli e i bicchieri, poi, ripulì il ripiano con la pezza di pelle gialla.

Non riusciva a tenere a freno le mani mentre si aggirava inquieto per la cucina, le sue dita tremavano e le braccia erano rigide.

Ripensava alle parole di Katsuki, a quelle di Mina, alle minacce di Dominic.

Non riusciva proprio a darsi una risposta; non riusciva a trovare un collegamento.

Tutto quello che diceva Katsuki, gli sembrava quasi fosse accaduto in un universo parallelo, di cui lui, non faceva parte, ma al contempo, la figura di Katsuki, il suo sogghigno ampio, le sue ciglia lunghe, gli erano in qualche modo familiari. Qualcosa che non riusciva a dimenticare ma neppure a ricordare, come un nodo incastrato nella sua testa.
Provava a scioglierlo, ma finiva solo per attorcigliare tutto, di nuovo.

Le dita di Katsuki, le sue parole, il suo viso che si sostituiva a quello di Matthew…gli sembrava tutto un sogno, un orrendo, piccolo, subdolo sogno.

Magari, si trovava ancora nella sua stanza 366, con le pareti lunghe e strette, con la febbre, oppure, con i lividi, magari, era solo un lungo sogno. Un lungo sogno.

A volte, durante la notte, Izuku doveva alzarsi. Andava in bagno, si guardava allo specchio e poggiando la mano contro il ventre, si chiedeva se fosse tutto vero.
A volte non riusciva a respirare, si diceva che tutto quello che era falso, che l'indomani avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe ritrovato nella stanza 366, con uno dei clienti che gli tappava la bocca e Garfield che gli parlava delle stelle.

Poi, però, si ricordava che era tutto vero, che Katsuki non poteva essere frutto della sua fantasia, che quella casa, quegli alberi, quel vento, non poteva esserselo immaginato. Non era poi così creativo.

Doveva farsi male, trovare un modo per dimostrare che tutto quello in cui viveva era reale, vero. Così, utilizzava tutto quello che poteva dimostrarglielo.

Si graffiava, si bruciava, si tagliava.
Tutto, pur di sentire dolore, pur di provare qualcosa che non fosse apatia.
Piangeva e ringraziava.

E non si era fatto problemi quando aveva afferrato la teglia, a mani nude. I suoi palmi si erano gonfiati, arrossendosi.
Li sentiva bruciare come carboni, mentre le lacrime gli scivolavano sulle gote.

Era vero.
Se lo doveva ripetere ogni volta che la fantasia rischiava di farlo affogare. Gli toglieva il respiro, finché una fitta di dolore non glielo ridonava.

Era stata Mina a togliergli le mani dalla taglia, a fasciargliele con delle bende, a scuoterlo. Gli aveva chiesto se stesse bene, lo aveva accarezzato, aveva urlato, Izuku non era riuscito a guardarla negli occhi.

Aveva mormorato uno 'scusa', poi si era limitato a lasciarsi gridare addosso, mentre tirava su col naso.

Nella sua stanza, Izuku pensava che forse il cielo era così azzurro perché qualcuno aveva versato troppe lacrime.

Non riusciva a trovare una soluzione all'enigma che lo affliggeva e non riusciva a capire come lui, un ragazzo analfabeta avesse fatto a scrivere e tenere dei diari.

Probabilmente, doveva aver sognato le parole di Matthew, forse, si sentiva in colpa, forse non era altro che un sogno.

Steso sul letto della camera, ripensava a quello che era stato, a quello che sarebbe stato e a quello che sarebbe potuto essere. Riusciva persino ad immaginare quello che avrebbe voluto essere.

Quando si sentiva perso, Matthew gli diceva sempre che doveva porsi tre domande.

Chi sei?
Deku. Sono un omega, un ragazzo, la mamma del figlio di Matthew.

Che cosa ami?
Mio figlio. Rispose quasi istintivamente, il mio Matthew.

In che cosa credi?
Non lo so. Non aveva mai creduto a Dio, non credeva negli dei e neppure nelle persone. Credevi in Matthew, gli soffio il suo subconscio. Già.

Forse, si disse, doveva continuare a credere in Matthew, finché non andrà tutto bene.

Già, ma quando? Quando sarebbe andato tutto bene?

A distoglierlo dai suoi pensieri fu il rumore della porta che si apriva.

Spostò lo sguardo dal soffitto, portandolo in direzione dell'alpha appena entrato.

«Come ti senti?» gli chiese Katsuki, vedendolo sdraiato.

«Sto bene.»

Si mise a sedere, osservandolo.

«Mina mi ha detto che ti sei sentito poco bene oggi» redarguì, la voce tradiva una nota di preoccupazione.

Izuku scrollò le spalle.

«Un attimo di debolezza» mormorò.

«Stai mangiando, perciò non dire cazzate» lo riprese il biondo, ma più che un rimprovero gli parve un'affermazione.

«Ora sto bene» si affrettò ad esclamare, «hai bisogno di qualcosa?»

Katsuki mosse qualche passo, raggiungendolo.

Izuku nascose istintivamente le mani.

«Ho una sorpresa per te» proferì, un sorrisetto compiaciuto ad adornargli la bocca.

Izuku corruggò la fronte.

«Che sorpresa?» chiese, scandendo quella parola, incuriosito.

«Non posso dirtelo, altrimenti non sarebbe più una sorpresa» gli fece notare Katsuki, invitandolo ad alzarsi.

Gli porse una mano, ma Izuku rifiutò. Lui sembrò non darci peso, ma l'omega notò come il suo sguardo si incupì.

Lo ignorò, ingoiando assieme alla saliva, quella fitta che gli scosse le membra.

«Non mi piacciono le sorprese» bonficchiò Izuku, preoccupato.

Quelle parole, in passato, presagivano nulla di buono. Anche Katsuki sembrò intuire i suoi pensieri.

«Vedrai, questa ti piacerà.»

Raggiunsero la cucina, le luci accese, riflettevano ombre su tutti i mobili. La notte era calata sul mondo come un'ombra scura.

Izuku si guardò attorno, aspettando di scoprire quella 'famosa' sorpresa.
Pareva tutto statico.

Si stava per voltare verso Katsuki, chiedendogli cosa ci fosse, quando sentì la porta aprirsi.

Istintivamente sobbalzò, ma si rilassò immediatamente quando riconobbe l'odore dolce dei feromoni di Mina.

L'alpha dai capelli rosa, spuntò nella stanza, i figli con la mano intrecciata alle sue e il sorriso sulle labbra.

Seguirono a lei, altre figure.
Kirishima, anche lui sorridente, con le occhiaie un po' più evidenti, Shoto, Shinsou e altri tre ragazzi.

Izuku, li riconobbe uno ad uno.
Quello che sorrideva timido, vicino a Kirishima, Denki Kaminari.
I suoi capelli biondo sole erano sporchi di terriccio, il suo viso pareva stanco, ma felice.

Ricordava le sue urla, la sua pelle che come pasta frolla si staccava dalle sue ossa.

Poi, un'altra figura, un ragazzo più basso, le iridi verdissime, il viso bellissimo.
Inizialmente Izuku non capì, fu solo quando lo sentì parlare, pronunciare il suo nome che lo riconobbe.

«Deku, l'hai visto un temporale?»

Solo un ragazzo gli aveva confessato una cosa del genere. Solo un omega profumava così.

«Xander?» mormorò. Lui annuì.

Prima che potesse dire altro, Izuku gli aveva già lanciato le braccia al collo, stringendolo a sé.

«Xander…m-mi dispiace così tanto…» aveva singhiozzato sulla sua spalla, spingendolo contro il suo corpo.

«Va tutto bene, hai fatto bene, Deku.»

Xander non lo stava sgridando, non lo stava rimproverando, non gli urlava addosso, anzi, lo stringeva come avrebbe fatto con qualcuno che non voleva lasciar andare.

«S-scusa…scusa, ti giuro…»
«Ti credo, Deku. Ti credo.»

Izuku lo strinse finché non riuscì a smettere di singhiozzare.

Non ci credeva. Non riusciva a credere di averlo lì, accanto a sé, sano e salvo.

«Chi…-»
«Loro, i tuoi amici» rispose Xander con un sorriso, prima che riuscisse a finire di formulare la domanda.

«Oh Xander, sono così felice che tu stia bene…»

Lo abbracciò ancora, respirando il suo profumo di bergamotto.

«Anch'io, Deku. Sono così contento di rivederti!»

Così assorto, quasi non fece caso all'altro uomo accanto a Xander, avrebbe potuto tranquillamente passare inosservato, però, il suo odore lo tradì.

Izuku conosceva quell'odore, lo ricordava.
Si allontanò un po' da Xander, voltandosi.

Oh.
Quel viso.
Non lo si scordava. Izuku, ricordò che lo aveva trovato bello e dovette ammettere che si sbagliava; non era bello, era perfetto.

Stupendo e assolutamente impeccabile.

I capelli corvini, lunghi, le palpebre stanche, il suo profumo alla pesca.

Mosse istintivamente un passo indietro, il cuore che batteva così forte che temeva gli sarebbe fuggito dal petto, rotolandogli ai piedi.

Non riuscì a distogliere lo sguardo, neppure quando anche lui lo guardò.

Ricordava quell'uomo, ricordava il suo corpo.

Ricordava il suo nome.
Aizawa.


🌼

Spazio autrice:
Volevo darvi un pov diverso, il punto di vista iniziale di Shoto da un po' di indizi, quindi per i più attenti,  quadro si sta facendo sempre più completo.

Izuku ha di nuovo questi dubbi. Sta male e probabilmente non tutti capiranno questo suo atteggiamento autolesionista, però ricordatevi sempre che Izuku in questa storia è un ragazzo che ha sofferto, che non aveva nessuno e che è stato trattato come un nulla, come uno schiavo.
È (passatemi il termine) normale che Izuku non sappia cosa fare, né come affrontare il dolore e le altre emozioni.
Voi che ne pensate?
Che vi sembra del passato di Izuku? Di Matthew e di Katsuki?
E soprattutto cosa pensate farà Izuku ora che ha rivisto Aizawa?

Sono molto curiosa di sapere che ve ne sembra💜

P.S. c'è una citazione del 'Cavaliere d'inverno' a chi la riconosce lascio un premio ;)

Alla prossima,

Lilla
















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