1. Se fossi una stella

Il primo che gli fece visita, fu Aizawa.

Quella notte Izuku aveva dormito male. Era rimasto a letto per tutto il giorno e aveva dato la colpa degli incubi al fatto che avesse cambiato ambiente, invece che alla minaccia del signor Shigaraki.

Aveva sognato di essere una stella, di essere una splendida stella brillante, che splendeva nel cielo, libera, ma che improvvisamente veniva catturata, con un retino - simile a quello che usavano i pescatori - e intrappolato in una stanza fredda e misteriosa. Non c'era niente attorno a lui, solo vuoto e desolazione, i suoi pensieri cattivi e le ombre che provavano ad afferrarlo con i loro artigli affilati.

Piangeva. Singhiozzava forte, il suo intero corpo veniva scosso dai gemiti, ma dai suoi occhi non usciva nulla.

Così aveva iniziato a strillare. Chiamava aiuto, scalciava, urlava e urlava, ma il suono della sua voce era così basso che poteva percepirlo a malapena lui. Era un raschiare simile a vento estivo contro le margherite appena spuntate.

Alla fine aveva riaperto gli occhi.
Il buio soffocante della stanza lo aveva rapito. Il respiro gli era uscito a rantoli, la testa gli si era fatta pesante come un macigno di cemento.

Nel sollevarsi dal letto si era portato istintivamente una mano al ventre, dove cresceva una vita, quella di suo figlio. Il bambino che custodiva con bramosia e una punta di melanconia nel suo ventre, il piccolo fagiolino che gli teneva compagnia e gli faceva sperare che ci fosse ancora qualcosa degno di nota fuori di lì.

Aveva passato il resto della mattinata cercando di non tremare e rannicchiandosi nel suo letto, con le ginocchia strette al petto e gli occhi sbarrati, canticchiando una canzoncina che gli aveva insegnato sua madre. Era difficile non cadere preda degli attacchi di panico quando lasciava libero accesso ai demoni, nella sua testa. Era come spalancare una porta in cui si tiene sotto chiave un tesoro prezioso e fuori ci sono dei pirati pronti a saccheggiarlo. Solo che i suoi pensieri non erano preziosi e i pirati erano molto più demoni potenti e infami, pronti a sbranarlo vivo al minimo accenno di debolezza.

Non potersi concedere neppure un secondo di debolezza equivaleva ad essere perennemente in attacco, perennemente sull'attenti, e il suo sonno ne risentiva. Quando non dormiva per giorni, il suo cervello iniziava a giocargli brutti scherzi e lui ne aveva paura. Temeva quello che la sua stessa testa gli avrebbe suggerito, temeva il buio perché i volti erano sempre lì pronti a fissarlo senza limiti, temeva il silenzio perché era lì che i mostri potevano urlare meglio.

Capì che era mezzogiorno o giù di lì quando gli fu servito il pranzo; un vassoio sul quale erano poggiati un piatto di brodo giallastro, simile ad una poltiglia appiccicosa e sudicia e una fettina di pane bruschettata. Izuku mangiò tutto e poi bevve dalla bottiglietta di plastica che gli era stata fornita. Stette ben attento a non finirla tutta, visto che non sapeva quando gliene avrebbero portata un'altra e non sapeva cosa fare in tal caso.

Sapeva però che aveva bisogno di essere idratato anche per il bambino, ma non capiva come fare a sapere che suo figlio stesse bene.

Finito di mangiare si era steso di nuovo sul letto, lo sguardo rivolto al soffitto bianco e vuoto. Aveva allungato una mano e chiuso gli occhi. Le sue dita si erano mosse lente in direzione del soffitto e aveva iniziato a muoverle attentamente. Conosceva a memoria la costellazione del Carro Maggiore, di quello Minore, di Orione, di Rigel, l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore e non perché aveva potuto studiarle, ma perché gliene aveva parlato uno dei suoi clienti, Garfield.

Garfield era un appassionato, un signore di mezza età, con i capelli brizzolati e le guance paffute. Izuku adorava quando dopo aver fatto sesso, Garfield gli si stendeva accanto e gli parlava di lui, della sua famiglia, dei suoi due figli, Alex e Felix, del suo lavoro dove doveva dirigere un'industria di razzi aerospaziali, ma soprattutto adorava quando gli parlava delle stelle e della luna.
Gli aveva raccontato che le stelle non sono così come le si vengono viste, che ogni stella ha un colore diverso, che dopo molti anni muoiono, esplodendo.
"Creano una magnifica esplosione in cielo" gli aveva detto, le sue labbra erano tirate su in un sorriso stanco e gli occhi color caramello gli brillavano come poche volte Izuku aveva potuto vederli. Gli aveva detto che ci sono miliardi e miliardi di stelle e che non le si può contare tutte neppure se uno ci si mette per tutta la vita, ed era scoppiato a ridere quando gli aveva chiesto perché non fosse possibile toccare il cielo o una stella con le dita.

Erano piccole cose come queste a cui Izuku poteva aspirare, cose interessanti e banali per altri, preziose per lui. Lui che l'unica cosa che conosceva a memoria erano le pareti della stanza 366, il loro colorito grigiastro come se ci stata spalmata sopra della cenere, il numero di passi che dividevano il suo letto dall'altra parete della stanza e quelli che dividevano la parete centrale dalla porta di ferro.

Conosceva a memoria i rattoppi del suo materasso, le parti in cui le molle sporgevano troppo, i punti in cui il tessuto celeste era macchiato di sangue - il suo sangue. - Conosceva a memoria il numero delle piccole stelline luminose che erano appiccicate sul soffitto, quelle che gli aveva regalato Garfield e che avevano attaccato insieme.

Qui, però, si rese conto mentre sollevava le palpebre, non c'era alcuna stella, né tantomeno un cielo per immaginarle. Qui di notte, non poteva far altro se non tremare.

Si ridestò nel sentire aprire la porta.

La maniglia era scivolata di lato e la spessa porta di acciaio si era aperta, rivelando per qualche secondo una lunga striscia buia, la quale, immaginò Izuku, doveva essere il corridoio.
Si chiese, nel breve istante in cui poté osservare quel lembo di mura e pavimento, se anche lì come alla stanza 366 ci fossero altre camere e altri omega, nonostante la notte non avesse percepito alcun lamento o singhiozzo.

Quando la porta si richiuse, Izuku ormai era balzato a sedere, la schiena poggiata contro il muro freddo dietro di sé, le mani strette in grembo. Il pollice che era scivolato insidiosamente sul ventre, in un gesto istintivo.

Riuscì a intravedere come prima cosa i suoi lunghi capelli color inchiostro, stretti in una coda bassa, alcuni ciuffi saltavano fuori ribelli, la frangia gli sferzava gli occhi, ugualmente neri. Uno schizzo di barba gli rendeva i tratti più mascolini, la mascella squadrata e gli zigomi alti gli conferivano un qualcosa di diverso, e al contempo gli occhi stanchi e il naso diritto, lo assomigliavano a un ritratto conosciuto.

Mentre si muoveva in sua direzione, Izuku poté studiare anche il suo corpo.
Forme longinee, gambe lunghe e fasciate da pantaloni cargo, ugualmente color alabastro, il busto atletico messo in risalto da una t-shirt che gli lasciava scoperti i bicipiti gonfi e tesi. Dallo scollo rotondo sbucavano come radici stese su un terreno, le sue clavicole bianche, che finivano all'attaccatura del collo, bianco perlaceo.

«Non ho intenzione di farti male» mormorò l'uomo incrociando le braccia al petto, i bicipiti a quel gesto parvero farsi, se possibile, più gonfi.

Izuku non rispose. Deglutì, mandando giù quel poco di saliva che gli era rimasta in bocca.

«Faremo ciò che dobbiamo e poi me ne andrò» asserì, tuttavia al contrario degli altri clienti, c'era qualcosa di doloroso nella sua voce, come se si stesse obbligando a mantenere quel tono inflessibile proprio per nascondere quello che non poteva rivelare. «Okay?» chiese poi, come se si aspettasse che Izuku potesse dire di no.

Quello era quello che doveva fare, che gli piacesse o meno.

«C-certo, padrone» bonficchiò il ragazzo, chinando rispettosamente lo sguardo in avanti, tuttavia non gli passò inosservata la smorfia di fastidio che a quelle parole storse le labbra del corvino.

«Non sono il tuo padrone.» asserì, avvicinandosi silenziosamente al letto.

Izuku corrugò le sopracciglia confuso; con tutti gli uomini con cui era stato, a nessuno era mai dispiaciuto sentirsi chiamare padrone, anzi, alcuni usavano termini ancor peggiori. Quell'uomo, però, aveva l'espressione ferita, come se chiamandolo così, Izuku lo avesse gravemente offeso.

«Mi dispiace pad- signore» si corresse, mantenendo la testa bassa. Le molle del letto cigolarono appena quando il corvino si sedette accanto a lui.

«Mi chiamo Aizawa» proferì, il tono lento e costante, perennemente liscio, «e vorrei che tu mi chiamassi così.»

Izuku sollevò la testa, annuendo debolmente. Pochi clienti erano stati disposti ad essere chiamati per nome e spesso, quelli che gli davano più confidenza erano i peggiori. A volte, dopo che avevano finito, non riusciva a muovere un muscolo, per ore.

«Come ti chiami?»

«Deku.» asserì il ragazzo. Uno sbuffo di fiato appena percepibile, come gli aveva insegnato Garaki.

"Agli uomini piace il potere," gli aveva spiegato, "e gli piace comandare, più ti mostri debole ed indifeso, più saranno propensi a montarti per bene ed io incasserò dei bei soldoni, ti è chiaro puttana di un omega?"

Izuku aveva annuito.

Aizawa si era sfilato la maglietta, i muscoli tonici risaltavano come montagnole sul suo petto liscio. Lo stava osservando, un ciuffo della frangia incastrato tra gli occhi.
In un movimento felino e gentile si chinò accanto al suo orecchio e Izuku dovette reprimere l'istinto che lo induceva a tirarsi indietro, il più lontano possibile.

«Cercherò di non farti male» sussurrò il tono incrinato da un sentimento che non conosceva.

Aizawa si stese nel letto, qualche molla prese a cigolare di protesta, nell'accogliere sia il suo peso che quello dell'uomo.

Il corvino lo aiutò a sfilarsi la lunga maglietta che indossava, sotto alla quale non aveva neppure l'intimo.
Lui non lo fissò. Si limitò a fargli scivolare una mano lungo la coscia, sfiorandogli la carne morbida. Izuku sussultò quando la presa si strinse un poco e i lividi recenti gli pizzicarono.

Le dita di Aizawa erano spesse ma sottili. Cercarono un suo assenso prima di poterlo toccare.

Izuku annuì, sorpreso. Strinse i denti mentre l'indice dell'uomo si faceva spazio nella sua carne, spingendo piano a sciogliere la sua naturale resistenza.

Nessuno, lo aveva mai toccato un po', prima di prenderlo.

All'indice seguì il medio, le dita che si muovevano lente dentro di lui, come a volergli permettere di abituarsi a quella presenza. Aizawa non lo stava forzando, si stava dimostrando gentile, eppure Izuku non riusciva a rimuovere quel tarlo che gli mangiava i pensieri.

Quando qualche minuto dopo, Aizawa sfilò le dita, si irrigidì. Conosceva e ricordava fin troppo bene il dolore che lo avrebbe invaso quando gli si sarebbe spinto dentro. E puntuale, come lo aveva immaginato e ancor di più, quello arrivò. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulla sensazione delle unghie che affondavano nei suoi palmi, nella morsa dei suoi denti che serrarono la loro presa gli uni sugli altri, facendolo attraversare da una fitta acuta, simile a corrente elettrica. Lo percepì farsi spazio nella sua carne, graffiare e scavare come fosse stato un cartoncino da allargare e rimodellare a fuoco.

Aizawa mormorò qualcosa che percepì come uno "scusa". Lo riempì interamente, rimanendo immobile.

Sentì la lacrima percorrergli il familiare sentiero, scendendo fino al mento. Non era paragonabile ad alcun dolore avesse mai provato. Ogni volta era un nuovo capillare rotto, ogni volta era uno schiocco di frusta su una parte della sua anima illesa. Ogni volta era una coltellata tra le sue carni fragili, uno sgualcire la sua pelle fino a ridurlo in piccole briciole di dolore e fiato.

«Per favore... s-si muova» lo pregò, cercando di reprimere il fremito che gli attraversò la voce mentre parlava.

Il signor Aizawa aveva inarcato la fronte. Lo guardava da sopra di lui, tenendo gli occhi scuri aperti. «Sei sicuro?» gli chiese, chinò la testa in direzione della sua spalla, la frangia morbida ciondolava in avanti solleticandogli la pelle.

«S-si» proruppe.

La mascella si strinse di colpo. Avvertì la fitta attraversargli i muscoli come una spada. Le sue pareti ferite si strinsero istintivamente attorno al membro di lui, cercando di sopportare quel dolore che gli spezzava il fiato.

La seconda spinta arrivò e la seguì la terza, quando assieme alle molle del letto, Izuku poté avvertire anche un sospiro del corvino.

"Gli alpha sono tutti uguali, Izuku," gli aveva detto una volta il suo compagno di cella, "possono essere anche i più dolci del mondo nel coccolarti, ma quando fanno sesso pensano solo a venire il prima possibile, e a come andare più veloce e più forte, ricordatelo." Gli tornarono in mente quelle parole, il tono rassegnato con il quale Sam glielo aveva spiegato, i suoi occhi spenti mentre un uomo lo possedeva.

Era esattamente questo.

No, si disse Izuku, per quanto Aizawa fosse stato gentile, non stava provando niente di diverso. Sempre il solito, petulante, insopportabile, dolore. Simile a una lama che gli lacerava lo stomaco ad ogni mossa, simile a fuoco che lo ardeva da dentro, che lo prendeva con i suoi artigli e lo intrappolava in uno stato catatonico.

Chiuse gli occhi, stringendo i denti.
Le spinte di Aizawa si erano fatte più ponderose, come i gemiti più rochi, ansimati nel suo collo.

Nella mente buia di Izuku, si fecero spazio le sue amate stelle, i loro colori differenti in base alla temperatura, la loro lucentezza, i loro nomi. Ne sapeva pochi a memoria, ma conosceva anche alcuni passaggi della loro vita. Amava in particolare il termine Supernovae che indicava quando una stella esplodeva, surriscaldandosi, causava una grande confusione, ma era uno spettacolo meraviglioso.

Le spinte di Aizawa ora erano più ponderose, rigide.

Izuku si aggrappò con la mano al cuscino, stringendo tra le dita il tessuto morbido. Immaginò ancora di potersi trasformare, fino a diventare una stella, una piccola, splendida stella, da poter osservare da sopra il cielo tutto ciò che avveniva giù, di brillare di notte e nascondersi, - quasi a volersi riposare - sotto il manto azzurro del cielo.

Immaginò come fosse non essere più solo, ma accanto a miliardi di fratelli e sorelle, che simili a lui, brillavano, facendogli compagnia. Sarebbe stato felice lì su, non importava se avrebbe potuto solo guardare, sarebbe stato contento.

Le ultime spinte furono più violente, gli ansimi di Aizawa gli si riversarono direttamente dentro l'orecchio, il suo fiato bollente gli fece tremare la pelle.
Un brivido gli attraversò il corpo, costringendolo a irrigidirsi quando lui si arrese al piacere, fuori dal suo corpo, gli occhi chiusi e le labbra aperte.

«Scusa» mormorò ancora Aizawa, mentre afferrava un pacchetto di fazzoletti dalla tasca dei suoi pantaloni e lo aiutava a pulire il liquido bianco dalle lenzuola.

«Non fa niente» soffiò Izuku, «Aizawa.» Le parole suonarono strane nel lasciargli le labbra.

«Sono abituato» aggiunse poi e non seppe perché lo avesse fatto. Solitamente stava zitto e non si faceva vedere dispiaciuto o dolorante, perché sapeva bene che il suo compito era fingere che gli piacesse tutto quello, ma percepiva che Aizawa sarebbe stato molto più contento nel sentirgli dire la verità.

Di tutta risposta, l'uomo, si bloccò. Con le mani sospese a mezz'aria, nell'atto di aggiustarsi i pantaloni, si volse a guardarlo. C'era qualcosa di infinitamente doloroso in quelle iridi scure.

«Deku, mi dispiace tanto» biascicò, un raschiare ruvido, il volto addolorato. «Davvero... sto facendo tutto il possibile... devi solo-»

«Ora basta.»

Dall'altoparlante presente nella stanza risuonò una voce minacciosa. Aizawa si ammutolì di colpo, reclinando la testa, come avrebbe fatto un colpevole.

«Arrivederci, Deku» soffiò, tornato di nuovo cinico ed inespressivo.

Si sistemò sul letto, osservando l'altro uscire dalla stanza, lo guardò senza batter ciglio. Percepiva ancora i muscoli tirare doloranti, le lacrime raggrumate contro le guance, il groppo che gli annodava lo stomaco in una morsa strittola-fiato.

«Arrivederci, Aizawa.»


🍂

Alcune notti ad Izuku mancava l'aria.

Si alzava a sedere, il fiato che gli esplodeva in gola e il cuore che batteva così forte da causargli dei tremiti. Aveva iniziato a soffrire di attacchi di panico dopo la prima volta in cui era stato violentato. Ricordava bene l'espressione atterrita di Sam nello stringerlo a sé, imponendogli di respirare forte, assieme a lui.

Alcune notti però, Izuku non aveva nessuno con sé e semplicemente, i mostri lo afferravano. Quelle notti, Izuku aveva paura. Aveva paura e riusciva solo a piangere, piangere e soffocare i singhiozzi nel cuscino, sperando che qualcuno lo potesse aiutare, sperando che almeno il Cielo scendesse ad aiutarlo; i sogni di uno sciocco, pensava, quelli di un ottimista, lo rassicurava Sam.

Avrebbe voluto rimuovere la parte nera e segregarla in un buco nascosto, in una delle più recondite profondità del suo essere. Quell'abominevole sensazione che gli strizzava le budella come fosse stato un frullatore, quella spaventosa ansia che gli premeva contro la gola e gli rapiva il respiro.

Nonostante non glielo avesse mai chiesto, Izuku, sapeva che anche Sam non stava bene. Negli ultimi mesi, il suo colorito si era fatto più chiaro, di un bianco quasi latteo, i suoi occhi scuri erano perennemente lucidi e ogni notte sentiva chiaramente i suoi singhiozzi, mentre uomo di turno si impossessava di uno di loro due.

Izuku aveva sempre saputo che ci sono cose sbagliate, cose brutte da fare o dire, nonostante nessuno glielo avesse insegnato. È un istinto primordiale, gli aveva risposto l'altro sé, quello che cercava sempre di dare risposte alle sue domande. Un istinto che lo spingeva nonostante tutto a trovare nuovi modi per sopportare quella tortura. Sam ce li aveva già e Izuku voleva solo avere i suoi di modi per superare quel dolore.

Aveva iniziato conficcandosi le unghie nei palmi della mano; stringeva la mano a pugno e lasciava affondare le unghie nella carne. Non era difficile, ma spesso, dopo un po', perdeva sensibilità alle dita. I primi tempi era stato facile accettare quel dolore lo aiutava, si diceva, ma col passare del tempo per scaricare il male che aveva dentro non bastava più quel semplice giochino.

Così aveva iniziato a graffiarsi il braccio. Bastava poco per stare meglio.

Erano piccoli graffietti all'inizio, a volte inferti con le unghie, a volte con qualcosa di più tagliente, come l'angolo del piatto di plastica sul quale gli servivano da mangiare, altre volte un pezzo della forchetta, altre volte ancora, un pezzo del letto più sporgente. Variava l'intensità del graffio in base a come si sentiva; se stava poco male, si limitava a incidere la carne appena il necessario, se stava davvero male, il graffio restava per giorni. Non ne andava fiero, anzi spesso dopo averlo fatto si chinava sul water e rimettava tutto quello che aveva ingerito.

A volte, pensava stupidamente di poter vomitare perfino l'anima e lasciare che almeno essa potesse volare libera sino al cielo.

Quella sera Izuku, dopo aver fatto sesso con Aizawa lasciò che le unghie scavassero la pelle, fino a solcarla di lunghe striscie rosse e sanguinanti e il dolore, si trasformò in un palloncino che lo cullava via. Non riusciva a prendere sonno, pensava e ripensava alle parole di Aizawa mentre se ne stava per andare.

«Deku, mi dispiace tanto
«Davvero... sto facendo tutto il possibile... devi solo

Cosa? Cosa doveva fare? Stare in silenzio? Urlare? Ribellarsi? Piangere? Aspettare? Non riusciva a darsi una risposta. Ci pensava e ripensava, rigirandosi tra le lenzuola stropicciate, la testa confusa e il sonno scomparso.

Percepiva di nuovo quel peso sul petto. Quello pesante, quello che gli impediva perfino di respirare decentemente, come a non volerlo farlo volare via, imponendogli di restare obbligatoriamente a terra, in quel mondo dove anche solo sopravvivere faceva male.

Non faceva altro che chiedersi perché Aizawa sembrasse così dispiaciuto, così colpevole.

Izuku non aveva mai avuto un padre.
Non ricordava altro se non cose cattive di suo padre e di sua madre, Inko. Lei si era presa cura di lui nel modo in cui era riuscita, lo aveva allevato e cresciuto, poi un giorno lo aveva lasciato.

Si chiedeva spesso come sarebbe potuta andare se sua madre fosse morta, se avessero avuto qualcuno accanto che non pensava unicamente al sesso e al denaro. Si chiedeva spesso cosa c'era oltre le quattro mura in cui era stato prigioniero per tutta la sua vita. Si chiedeva se c'erano davvero così tante stelle in cielo da non riuscire a contarle tutte, o se Garfield gli aveva detto una bugia solo per mostrarsi colto ai suoi occhi.

Si chiedeva se un giorno avrebbe potuto andare in uno di quei negozi, dove Garfield gli aveva raccontato si può comprare un cibo chiamato gelato. Gli aveva detto che si faceva con il latte e altri ingredienti e che poteva essere di tantissimi gusti diversi.

Sospirò, mettendosi a sedere.

Lo stomaco gli bruciava tantissimo e i muscoli dolevano. Quel materasso era, se possibile, ancor più scomodo di quello della stanza 366 però, si ricordò con gioia, aveva ancora con sé il suo pupazzetto.

Certo, era vecchio, mezzo rotto e con metà dell'imbottitura persa, però lui lo adorava. Se lo stringeva al petto e sentiva che sua madre gli era ancora vicina. Aveva perso ormai da anni il suo aroma, ma se chiudeva gli occhi, poteva immaginarlo e pensare che al posto del suo peluche ci fosse la sua mamma e che quel posto non fosse altro che una squallida camera d'hotel che presto, avrebbero lasciato.

Si, presto sarebbe andato via di lì, doveva andarsene per forza, perché mai avrebbe permesso che suo figlio crescesse in quel luogo o che peggio, dovesse patisse ciò che lui stesso aveva dovuto subire.

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