CAPITOLO 4


GLI ORTI DI LAS VEGAS


Gli orti erano soltanto un fazzoletto di terra che poteva avere un'estensione di un chilometro quadrato, a voler esagerare. Stranamente, erano proprio quelle avare dimensioni a renderli speciali ai miei occhi: quello scherzo di terra procurava sostentamento a tutta la città e anche oltre.

Mentre entravamo in quella sorta di serra, le cui lastre sapevo essere legate insieme da sbarre di magnetite, tutti si girarono a guardare Matilda con gioia reverenziale, sorprendendomi: non mi ero ancora reso conto di quanto un Giocatore, soprattutto un Giocatore che vinceva sempre, potesse essere oggetto di adorazione, ma in fondo era logico. Assicuravano la sopravvivenza del mondo più di chiunque altro.

Matilda marciò attraverso i vialetti lastricati con sobria praticità come se fosse lei la padrona del posto, attirandosi soltanto sguardi benevolmente divertiti anziché indignati. "Le perdono sempre tutto" aveva detto Aletis. Evidentemente non era la sola.

Io la seguivo a debita distanza, sentendo la piastrina di metallo che ci avevano dato all'ingresso rimbalzare contro il mio petto ad ogni passo. Il mio pensiero non arrivava neppure al desiderio di togliermela, perché era una cosa che non si doveva fare, ma se fosse dipeso dalla mia ambizione l'avrei fatto più che volentieri: morivo dalla voglia di levarmela e godere appieno della libertà offerta dalla magnetite, ma quello non era un privilegio riservato a me, anche se, ne ero sicuro, sarebbe stato così ancora per poco.

Matilda si diresse verso una figura piegata a raccogliere fragole.

«Juàn?» lo chiamò, per attirare la sua attenzione, dal momento che era stato l'unico a non voltarsi al suo passaggio.

L'uomo si alzò con lentezza e ci guardò.

Era un vecchio contro il quale gli anni non avevano cospirato abbastanza. La bassa statura era compensata da muscoli possenti che un tempo lo dovevano essere stati ancora di più, e l'espressione era vitale e attenta.

A curarsi di denunciare la sua reale età era il volto arato dalle rughe e più scuro di quello della maggior parte degli abitanti di Terra: poiché i vetri ci rifiutano non solo l'aria aperta, ma anche i raggi solari, siamo quasi tutti molto pallidi.

«Ciao, Matilda. È un po' che non ti fai vedere, eh?» lo disse come se stesse parlando ad una persona qualunque, ma nel suo sguardo c'era più affetto che in tutti gli altri messi assieme «Hai portato un amico?»

«Si chiama Quis» mi presentò lei «e non ha mai visto una sala di magnetite. Gli puoi mostrare come fai crescere la frutta?» gli chiese, scoccandogli il suo sorriso fiducioso.

L'uomo mi guardò come se si aspettasse qualcosa da me.

«Quis Chimici.» dissi, tendendogli la mano.

Lui la strinse con forza: «Il figlio di Arrigo Chimici? Ma pensa...»

Io rimasi lì a dondolarmi sui piedi, senza sapere che altro aggiungere.

«Vieni qui, ragazzo.» mi invitò il vecchio «Non hai mai visto come opera la Parola, dunque?»

Scossi la testa.

«Osserva.»

Si chinò verso una delle piante che aveva appena rapinato come se stesse per confidarle il segreto dell'esistenza umana.

«Germoglia. Matura. Da' frutti.» le ordinò.

Fu una magia. Non c'è altra parola che possa raccontare quello che io vidi, anzi, raccontare quello che provai. La magia è un sentimento, da quel giorno ne sono persuaso.

All'inizio sembrò non dovesse succedere niente, poi le foglie della pianta iniziarono a bisbigliare, mosse dal riverbero della frase dell'uomo che frusciava su di loro come una carezza.

Un movimento creatore le percorse tutte, finché non si trasformò in un'onda di verde mai usato, che sbocciò in piccoli fiori candidi.

Sarei rimasto a guardare quei piccoli miracoli per tutta la durata del mio sbalordimento, se non fosse stato che, dal loro interno, iniziò a farsi strada qualcosa: dei figli succosi e ancora immaturi.

Non ci avevo mai riflettuto su, ma in quel momento, partecipando io stesso di quel fantastico attimo, trovai sublime il sacrificio dei fiori, che muoiono mandati in pezzi dalle loro stesse creature, in loro nome.

I frutti, da smunti che erano, crebbero e divennero scarlatti, quasi che si vergognassero per aver compiuto un atto così crudele e così terribilmente bello.

«Come ci sei riuscito?» domandai, strabiliato.

«Oh, può farlo chiunque, a patto che il Dio glielo conceda. Potrebbe accadere qualunque cosa, grazie alle nostre parole, ma in realtà avviene soltanto quello che Logos ritiene giusto per il mondo. E adatto alla persona che pronuncia la frase, ovviamente. Le persone che vedi qui sono tutti coltivatori per vocazione: è un dono del Dio.»

Avevo un milione di domande sulla punta della lingua, ma ne feci solo una, la più irrilevante: «C'è una cosa che non riesco a capire: questi sono frutti primaverili, ed è la stagione giusta per coltivarli. Perché laggiù invece stanno mietendo il grano?» indicai delle persone che, dall'altra parte della serra, stavano falciando delle spighe con una mezzaluna.

Nessuno utilizzava macchinari di alcun genere: la natura offre i propri frutti, l'uomo come minimo ha il dovere di contare solo sulle proprie forze per trarne profitto, è un segno di rispetto.

«Quando si comanda ad una pianta di crescere» rispose Juàn «si creano subito le condizioni perché questa possa farlo, indipendentemente dalla stagione: così abbiamo sempre una grande varietà di alimenti, perché possiamo curare diverse colture contemporaneamente. Avanti, prova tu.»

«Sì, Quis, prova tu!» mi incalzò Matilda, copiando l'uomo.

Juàn la guardò come se stesse cercando di decidersi, poi prese con entrambe le mani la catenella della mia medaglietta e disse quello che si diceva di solito in questi casi: «Che la tua Parola sia legge.»

Io sorrisi. Il mio momento era arrivato.

«È meglio se cominci con qualcosa di semplice.» mi consigliò Juàn, forse sentendo di dovermi ammonire per l'eccessiva sicurezza in me stesso «Prova a far crescere una foglia di ciliegio.»

Mi avvicinai ad uno degli alberi che ci circondavano, diviso tra la certezza di fare una figuraccia e la smania di tentare. Non fu difficile, grazie alla mia statura, trovare un ramo che fosse alla portata della mia testa.

Ne trovai uno che mi ispirava simpatia, perché mi pareva un po' rachitico.

«Cresci.» gli intimai, diviso tra la certezza delle mie capacità e la strana, inspiegabile insicurezza che gli occhi di Matilda gettavano su di me.

Una foglia, anzi, tante foglie iniziarono a spuntare dal legno, evocate dal suo interno tramite una qualche potenza che ancora non riuscivo ad identificare.

In un attimo, sorprendentemente, il ramo divenne turgido e crebbe, formando un arabesco completamente sproporzionato rispetto al resto dell'albero.

In quel momento mi resi conto che le foglie che avevo fatto nascere erano molto più grosse di quelle dei ciliegi, e come se non bastasse queste continuavano ad aumentare le loro dimensioni, tanto che dovetti allontanarmi in tutta fretta, prima che quella prorompente vegetazione decidesse che i miei occhi ci vedevano troppo bene.

Indietreggiai fino ad arrivare al fianco di Matilda, che guardava la scena stupefatta ed interdetta.

Juàn invece osservava materializzarsi quei petali grandi quanto fogli di giornale senza fare una piega, immobile.

Soltanto quando iniziarono a spuntare colossali frutti rossi si decise a paralizzare la crescita del ramo con uno sguardo di sfida.

«Fermati.» scandì con decisione.

La pianta si fermò, solo che ormai non si poteva più definirla pianta: era diventata una struttura dall'aspetto contorto e grottesco, completamente contro natura.

La fronda sovrasviluppata era ormai delle stesse dimensioni del tronco del ciliegio, cosicché l'albero era costretto a piegarsi da una parte, impossibilitato a reggerne il peso, e quelle mostruose ciliegie toccavano terra con tracotanza, circondate da petali degni di loro che, cadendo, avevano preparato loro un perfetto giaciglio.

Per qualche istante il silenzio parve essere un obbligo, mentre osservavamo quella conformazione bizzarra, altre persone che fino a quel momento avevano badato ai fatti propri si avvicinavano a noi, ed io diventavo dello stesso colore dei frutti che maldestramente avevo creato.

Poi Juàn richiamò l'albero all'ordine: «Torna come prima.»

La folle vegetazione si ritirò remissiva in un battibaleno. Le ciliegie e le foglie si rimpicciolirono, come se tutta la sostanza di cui erano gonfie venisse pretesa nuovamente dall'albero a mo' di indennizzo, e i petali sparirono, inghiottiti dalla terra che li reclamava.

Quel giorno imparai due cose: che la natura non va provocata e che dentro un innocuo ramoscello rinsecchito può esserci una forza più spaventosa di quanto si osi immaginare.

Mi aspettavo rimproveri, sgridate, magari di essere cacciato, o come minimo di essere additato da tutti come un povero disgraziato che neppure sapeva far spuntare una foglia su un ramo senza causare un disastro. Mi aspettavo tutto, tranne le congratulazioni emozionate di Matilda.

«Uao!» esclamò lei saltellando «Non ho mai visto una cosa simile!»

Grazie a questa frase sarei schizzato nell'iperuranio, se Juàn, con un'espressione indecifrabile, non mi avesse freddato: «Non l'hai mai vista perché è sbagliata.»

«Quello l'avevo intuito.» replicò lei, ironica «Io intendevo dire che è stato stupefacente!»

Juàn scosse la testa benevolo, poi si rivolse a me con durezza: «Quando chiedi qualcosa, devi sempre essere estremamente specifico, o possono capitare spiacevoli incidenti. Del resto, se Logos lo vuole...»

«Tu però ti sei limitato a dire "torna come prima", non hai specificato proprio niente.» osservai io, confuso.

«Perché l'importante è avere ben chiaro nella testa cosa si vuole fare: la nostra volontà passa attraverso la Parola ma, se sei incerto sul risultato che vuoi raggiungere, l'unica cosa che potrai ottenere, se sei fortunato, è esattamente quello che hai detto. Non fosse così, al posto di un albero ci saremmo ritrovati davanti un seme.»

Annuii, comprendendo il mio errore. Mi chiesi se bastava pronunciare la frase con un tono particolare per causare qualsiasi effetto si volesse, ma era solo un pensiero ozioso: sapevo perfettamente che non era così, avevo studiato che ognuno aveva affinità con parole che riguardavano un campo ben preciso. Era il Dio a destinarti a ciò che era meglio per te.

«Detto questo, ragazzo» continuò Juàn «devo ammettere che hai talento. Cerca solo di incanalarlo un po' meglio, la prossima volta: l'altra faccia del dono è la maledizione.»

«Sta a vedere che anziché il Teorico del Gioco devi fare l'ortolano!» commentò Matilda, ridendo.

«O forse è solo nelle grazie di Logos.» borbottò Juàn a bassa voce, come se parlasse fra sé e sé.

Quello sì che era un mondo alla rovescia: sbagliavo e scoprivo di essere bravo a sbagliare!

Se avessi potuto prevedere lo sguardo ammirato di Matilda, avrei trasformato l'intera serra in una foresta pluviale.

«Beh, magari è meglio andare, adesso, prima che tu faccia altri danni.» suggerì Matilda, anche se, come sua abitudine, aveva un tono di comando «E poi, è quasi ora di pranzo ed inizio ad aver fame.»

Annuii docile e mi preparai a seguirla, mentre lei imboccava il vialetto dicendo: «Ciao Juàn!»

«Ciao Matilda, torna presto!» la salutò il vecchio con un sorriso.

Mi avviai anch'io, ma subito venni fermato da Juàn, che mi trattenne per un braccio.

«Ferma un attimo, biondino.» mi disse, facendomi voltare «Devo dirti un paio di cose: Matilda non ha mai conosciuto qualcuno della sua età, e sicuramente non sa come comportarsi con te, sa a mala pena come comportarsi con gli adulti. Forse ti sembrerà una tipa bizzarra, ma è una ragazzina d'oro. Sii per lei un buon amico.» il modo in cui sottolineò la parola amico mi fece sentire vagamente come se avessi fatto qualcosa di scorretto.

Mi sentii in dovere di mettermi sull'attenti e dire: «Sissignore!»

L'uomo sbuffò una risata.

«Hai dei soldi?» mi domandò.

«Sì...» risposi, perplesso.

«Bene. Ti serviranno, se andate a mangiare in un ristorante: Matilda mangia quanto tre persone messe assieme.»

Pensai che mi stesse prendendo in giro; le abitudini alimentari di Matilda mi parevano piuttosto quelle di un'anoressica, a giudicare dal suo aspetto.


Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top