CAPITOLO 18
FRAMMENTI
Quando riaprii gli occhi io e Matilda eravamo in un corridoio le cui pareti erano fatte di vetri e specchi. Ci guardammo, e la nostra espressione scioccata ci venne restituita infinite volte.
«Quel...» Matilda boccheggiò alla ricerca di un vocabolo che andasse bene, e non lo trovò, ma capii ugualmente che si riferiva al canto delle tre sorelle «È stato...migliore!»
Avrei potuto usare una quantità sbalorditiva di attributi: magnifico, stupendo, sublime, terrificante. Ma che cavolo significava "migliore"?
«Migliore di che cosa?»
«Boh» Matilda fece spallucce «di tutto, credo: non mi è venuto in mente aggettivo più adatto.»
Ora si trattava di capire dove eravamo finiti adesso.
«Un altro posto bizzarro, vero?» sospirò mesta Matilda, come se mi stesse leggendo nel pensiero.
C'era una sola cosa da fare: andare avanti, dato che stare fermi in un corridoio fatto di specchi con addosso dei cenci che un tempo dovevano essere state tuniche bianche sembrava non avere il minimo senso.
Era difficile orientarsi in un posto fatto di pareti che riflettevano il corridoio in cui stavi camminando con dentro un altro corridoio che a sua volta aveva in sé il riflesso di un terzo corridoio.
«Oh!» esclamò Matilda, che non sembrava affatto essere stata turbata da tutte le cose che ci stavano succedendo, ma anzi sembrava deliziata dal poter vedere così tante volte la propria immagine rifratta «Aletis mi ha raccontato che una volta, da bambina, è stata in un posto del genere. Io pensavo che sarebbe stato bello perdersi in un luogo simile e rimanere lì tutta la vita, ma lei mi ha detto che per uscire bastava guardare il soffitto.»
In effetti il soffitto di quella sorta di labirinto era grigio, ma non era uno specchio, perciò seguire il percorso diventò relativamente facile.
Svoltammo in un altro corridoio, e bisogna dire che era tutto molto tranquillo.
A parte i due uomini che ci fissavano con due strani oggetti scuri puntati contro di noi che avevano un buco al centro, come se su di loro fosse stata montata una grossa cannuccia. Qualunque cosa fossero, non mi piacevano.
«Ehi! Chi va là?» urlò uno di loro.
Io e Matilda ci arrestammo, ed io ero perfettamente conscio di avere sul viso un aria colpevole. Lei invece con la sua solita arrogante sicurezza fece un passo avanti e aprì la bocca per parlare, ma l'altro uomo la prevenne.
«Sono ribelli, non vedi come sono vestiti?»
«Li portiamo al comandante?»
«Un viaggio dal comandante per due così? Liberiamoci di loro: sono straccioni e non sono nemmeno armati.»
Gli uomini trafficarono con i loro arnesi, e premettero una levetta. Nello stesso istante percepii il pericolo, come una coltellata nel petto.
Mi gettai contro Matilda per spingerla via, ed entrambi perdemmo l'equilibrio.
Lo specchio accanto a noi si infranse non appena lo toccammo, come se non aspettasse altro, e continuammo a cadere, mentre il vetro mi tagliava ed un rumore martellante assaltava le mie orecchie ed insisteva contro i miei timpani, assordante.
Vidi l'espressione di Matilda spezzata a metà da un urlo, più di sorpresa che di dolore, mentre un fiore di sangue si apriva sul suo fianco e i frammenti della lastra si tingevano di rosso, rigati da lacrime del colore sbagliato.
E poi ci fu quella caduta infinita, nel buio o nel vuoto, con la sensazione di essere solo ed avere come compagno soltanto il luccichio triste del vetro.
Forse, veleggiando nel buio, avrei dovuto sentirmi spaventato, invece dopo un po' iniziai a sentirmi solo annoiato; mi pareva di diventare vecchio in quella caduta. Da quanto tempo ero lì?
Non sentivo bisogno alcuno, tranne quello imposto dalla forza di gravità, sempre ammesso che stessi davvero cadendo: la sensazione era quella, ma non c'erano punti di riferimento per poterlo affermare con certezza.
Dopo i primi istanti di panico cieco, ero riuscito ad afferrare la mano inerte di Matilda, poi era arrivato il terrore che quello che le era accaduto fosse irreparabile, mentre in un angolo remoto, in qualche castello solitario dentro alla mia testa, si agitavano pensieri oziosi e confusi, di tutti i tipi, razionali e non.
Per un po' riflettei su quello che avevano detto le sirene e sul fatto che con tutte le parole che avevamo detto, così, all'aria aperta, Logos avrebbe dovuto far accadere qualcosa di sicuro, ma mi risolsi a pensare che il motivo era semplicissimo: mi ero dimenticato che Dio ce l'aveva con Matilda, ovvio che non facesse avverare quello che dicevano due fuorilegge, per non parlare delle tre donne che neppure credevano in lui.
Dopo le domande "Chi siamo?", "Da dove veniamo?", "Dove andiamo?" il mio cervello finì gli argomenti, e si ritrovò a vagare nello spazio siderale, aggrappato solo all'incognita sulla sorte di Matilda. Sembravo incapace di soffermarmi stabilmente su un pensiero che non fosse quello, perciò mi ci ancorai con tutte le forze, perché altrimenti sentivo che avrei cessato di esistere: ero anestetizzato, insensibilizzato, un pazzo completamente privo di ogni emozione e con un chiodo fisso in testa. Era come se avessi la febbre.
Ad un tratto vidi una luce, e pensai che si avvicinasse la fine. Non la fine della caduta, ma la fine della mia vita, la famosa luce in fondo al tunnel, invece era solo un gigantesco frammento di vetro luminescente che veniva verso di noi. O forse eravamo noi ad andare verso di lui, ma la cosa più importante è che era grosso, troppo grosso per essere un semplice coccio di vetro.
Ero relativamente poco allarmato, considerato il fatto che i bordi di quel coso sarebbero bastati a tagliarmi la testa di netto.
Vi atterrammo sopra e, a parte l'incontro ravvicinato tra la mia faccia e quella superficie dura, l'impatto non fu violento. Evidentemente cadevamo con più lentezza di quanto credessi. La luce emanata dal vetro non si spandeva oltre i suoi confini, così che noi continuavamo a rimanere al buio, anche se riuscivo a vedere le sagome dei nostri corpi in controluce. Mi artigliai con una mano a quell'unico oggetto sicuro in quel tremendo vuoto, come se si fosse trattato di una zattera, mentre con l'altra trattenevo Matilda e cercavo di avvicinarla a me.
Approfittando di quella che sembrava una momentanea stabilità del nostro salvagente, mi staccai dal vetro e le sentii il polso. Era forte e regolare.
Cercai a tentoni la sua ferita, pensando che forse avrei potuto utilizzare la stoffa della mia maglia per fermare l'emorragia e non la trovai. Mi bloccai, stupito: ero certo che fosse stata colpita, l'avevo visto con i miei occhi! Ma era tutto a posto, il suo fianco non aveva un graffio.
E allora perché era ancora priva di sensi?
Ma non ebbi il tempo di farmi altre domande, perché sotto ai miei occhi accadde qualcosa di spettacolare: la luce del vetro divenne immagine. Era pazzesco come restasse semplice luce, ma io fossi in grado di vederci un quadro ben definito, con un senso proprio. Era come se tutto quello che vedevo accadesse nella mia testa, ma a darmi quella visione era senza dubbio l'enorme coccio di vetro. Ero diventato lo specchio dello specchio, il materiale grazie al quale ciò che vi era contenuto acquistava un significato.
Vedevo tutto dall'alto come se volassi sulla scena che si srotolava davanti ai miei occhi.
Una strada sovrappopolata, con la corsia delle auto più trafficata del solito. Era la città, non c'erano dubbi. I suoni che rendevano viva quella situazione arrivavano da tutto intorno a me, come se fossi davvero immerso nella scena.
Le immagini si muovevano, io mi muovevo, finchè scorsi, in fondo al viale, una grosso spazio annunciato da una targa su uno dei muri che lo circondava: "Piazza di Cuori". Non era una città, era Las Vegas.
Le persone brulicavano anche lì come sardine inscatolate vive, e i loro spostamenti per compiere questo o quell'acquisto sembravano piuttosto spasimi convulsi. Era giorno di mercato, anzi, forse addirittura di svendita.
I tendoni bianchi che proteggevano le mercanzie erano lì più per rappresentanza che a causa del sole: il cielo era grigio e le nuvole minacciavano pioggia.
La piazza si sviluppava su due livelli, collegati tra loro da una scalinata, e quella fu l'ultima cosa di cui riuscii a rendermi conto prima che il vetro si inclinasse.
Annaspai alla ricerca di un sostegno a cui potessi appigliarmi, e quando finalmente riuscii a raggiungere il bordo della lastra era troppo tardi: eravamo praticamente sospesi nel vuoto, o lasciavo andare Matilda o mollavo la presa sul vetro.
Pur sapendo questo, resistetti ancora qualche attimo, più per ostinazione che per una reale speranza. La mano iniziò a farmi male, e dal mio palmo un rivolo caldo si fece strada verso il polso. Il coccio affilato mi stava lacerando la carne, e, quasi che la luce facesse bruciare ancora di più il mio dolore, lottare per mantenere quella precaria posizione mi sembrò insostenibile.
Deliberatamente, molto prima di arrivare allo stremo, mi lasciai andare. Dopotutto, il peggio che ci potesse succedere era continuare a cadere come avevamo fatto fino a poco prima.
Ma la storia continuava, attorno a noi c'erano centinaia, migliaia di frammenti di vetro che rilucevano di immagini. La stessa storia spezzata, riprodotta all'infinito come in un gigantesco caleidoscopio, dovunque.
Il buio brulicava di persone.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top