CAPITOLO 13
IL FUOCO SACRO
Il Tempio di Logos era una grande costruzione quadrata, rifinita con ricca sobrietà: il marmo ed il granito che decoravano l'ambiente non si mettevano in mostra, ma costavano un mucchio di soldi.
Tutto preso dal mio spirito d'avventura, che infantilmente sopravviveva sotto la tensione, fui in procinto di entrare con la torcia accesa, salvo accorgermi in tempo di quanto sarebbe stato stupido e sospetto.
Davanti a me, oltre le doppie file di colonne nere, c'era il naos, il vero e proprio luogo di culto, dove solo pochi eletti potevano entrare.
I semplici fedeli dovevano pregare inginocchiati sui cuscini scarlatti, mentre l'officiante, nella cella interna, scandiva le preghiere.
Ai lati dell'ingresso del naos ardevano due enormi fiaccole: il simbolo di Logos è il fuoco, l'elemento primordiale, e quelle fiamme non vengono mai spente.
Non era difficile abbracciare tutta la sala ed assicurarsi che non ci fosse nessun altro, perciò, senza esitare un secondo di più, mi avvicinai al pannello descritto da Donnie.
Io non mi intendevo di arti figurative, ma anche così pensai che il grifone era bello da mozzare il fiato; si ergeva fiero sulle zampe, i muscoli contratti, pronto a spiccare il volo per portare all'inferno la sua prossima vittima.
Individuai i quattro piccoli nei della pietra e li feci scivolare, guidandoli col mio dito. Erano stranamente difficili da spostare, ma alla fine ognuno scorreva verso il centro con un suono secco che, sebbene mi desse soddisfazione, mi costringeva a guardarmi intorno per paura di aver destato l'allarme di qualcuno.
La cosa che mi faceva più paura era che non sapevo come mio padre o chiunque altro avrei incontrato sul mio cammino avrebbe reagito, né come dovevo spiegare le mie ragioni, né cosa dire a Matilda, ma non era una paura paralizzante, semmai una sorta di adrenalina che mi incitava a fare tutto ad una velocità incredibile, percorso da un tremito inquieto.
Dopo aver seguito tutte le istruzioni che Donnie mi aveva dato mi fermai. E adesso? La porta restava solida e non sembrava cambiata per nulla.
La spinsi con tutta la forza che avevo, dato che non sembravano esserci appigli per tirarla, ma l'unica cosa che ottenni fu di farla rientrare di qualche centimetro rispetto al muro, posizione dalla quale non si mosse più. Alla fine compresi che funzionava come qualsiasi porta senza serratura: scorreva di lato.
Il corridoio che avevo davanti era buio, e la fioca luce serale del Tempio non riusciva di illuminarlo per più di qualche metro.
Accesi la torcia e, chiedendomi per l'ennesima volta che diavolo ci facevo lì, armeggiai con la lastra di marmo per farla ritornare al suo posto, chiudendola con le pietre che, viste da quel lato, non erano altro che semplici chiavistelli.
Quello che era stato l'occhio del grifone dall'interno appariva come una piccola lastra di vetro che consentiva di guardare fuori per essere certi di avere via libera. Era fatto dello stesso materiale del Cubo, colorato su una faccia, trasparente sull'altra.
Improvvisamente sentii dei passi rimbombare nel tunnel e, preso dal panico, spensi la pila e cercai a tentoni un riparo nel buio.
Il passaggio era piuttosto largo e più che sufficiente perché io sperassi di non essere trovato: è a questo che serve il Mister X, lo sport nazionale, che consiste appunto nello scorazzare in vie prestabilite della città o del villaggio, possibilmente senza farsi catturare dalla squadra avversaria. Dunque io ero perfettamente in grado di non farmi trovare, grazie ad una serie di accorgimenti imparati negli anni, come ridurre al minimo i propri movimenti o buttare aria dentro e fuori così gradualmente che persino l'aria doveva chiedersi se davvero respiravo.
Gli altri ospiti del condotto, al contrario, dovevano essere piuttosto goffi, perché avanzando continuavano ad inciampare nei loro piedi.
«Ti avevo detto di portare una torcia o sbaglio?» stava dicendo uno di loro. Conoscevo quella voce, era...
«Infatti io l'ho portata, è solo scarica e al buio non riesco a trovare le batterie.» il secondo uomo, con la sua voce di carta velina, doveva essere più vecchio.
«Forse allora dovremmo tornare indietro a ricaricarla, che ne dici?»
...mio padre!
«Ma questo tunnel lo conosciamo a menadito, non mi sembra il caso. Facciamo questa cosa e facciamola in fretta, sai bene quanto dolore mi provoca!» avevo riconosciuto anche la voce dell'altro, pur non avendola mai sentita prima: il capo della Gilda di Matilda. Era identica a quella del sogno.
«Ringrazia il sacro fuoco che io ti ho appoggiato con la faccenda dell'esilio.» ribatté mio padre aspramente «C'era qualcuno che voleva la pena di morte.» la sua voce tremò «Pazzesco, per un attimo ho temuto davvero che... Santo Logos, sarebbe stato orribile!»
«Già, avresti avuto parecchi pesi sulla coscienza.» borbottò l'altro, con rabbia lamentosa «Eppure non dovresti stupirti più di tanto: la legge dice chiaramente che per una cosa del genere è prevista la pena capitale.»
Rischiai di morire di infarto miocardico ad appena diciott'anni: stavano dicendo che Matilda aveva rischiato di essere giustiziata?!
«Ma è un provvedimento obsoleto, non pensavo che qualcuno lo avrebbe tenuto ancora in considerazione.»
«È obsoleto perché un caso del genere non si verifica da secoli, ma avresti dovuto prevedere che i membri più conservatori del Consiglio avrebbero votato per un'applicazione letterale della norma.»
«Beh, in fondo tutto è andato bene, alla fine.» si affrettò a dire mio padre, minimizzando.
«Ricordati che il tiro alla fune non è sempre un gioco facile: se la corda si spezza finisci a gambe all'aria.» replicò il vecchio. La sua voce decrepita non riusciva a sembrare del tutto minacciosa «Anche se devo riconoscere, in qualità di tuo amico di vecchia data, che questa volta mi hai gabbato proprio per bene. Non so come farò senza di lei, adesso, e certe fortune, come certe persone, capitano una sola volta nella vita, ma ormai la mia epoca è passata, ed è più importante la protezione di...certe cose.»
«Come sempre ci intendiamo alla perfezione, vecchio mio.»
Mi chiesi a cosa si riferisse, ma al momento ero più interessato al terzo rumore di passi che avevo individuato. Doveva esserci una terza persona, più esile, con loro, ma non diceva niente.
Erano ormai prossimi al luogo dove mi trovavo io, li sentivo.
Proprio mentre mi passavano davanti, uno dei due - mio padre, a giudicare dalla corpulenta massa che avvertivo spostarsi - perse l'equilibrio, barcollò e fu costretto ad appoggiarsi al muro, col braccio a pochi centimetri da me.
Nonostante ciò, riuscii a mantenere il mio sangue freddo e non mi mossi, controllando con la forza di volontà i battiti del mio cuore perché rallentassero e si accordassero con quelli degli altri occupanti del corridoio, cosa che, naturalmente, fra tutte le tecniche di mimetizzazione è la più difficile.
Per fortuna non mi notarono e proseguirono ancora per pochi metri, prima di arrivare alla porta di marmo. Mentre la aprivano, presi a scivolare con estrema lentezza rasente al muro, inoltrandomi ulteriormente nel passaggio per non finire nel cono di luce che proveniva dal Tempio.
Quando il gruppo si stagliò finalmente contro il chiarore delle torce, vidi che il terzo componente era un'esile figura ammantata di rosso. Il manto di coloro che erano stati condannati dal Consiglio.
Il fatto di aver già capito chi fosse non mi impedì di sussultare quando si voltò un'ultima volta verso il passaggio e fui in grado di vedere parte del viso nascosto dal cappuccio: un volto inconfondibile, due guance rigate di lacrime.
Per un attimo pensai che mi avesse visto, ma non feci in tempo a confermare la mia impressione perché il vecchio le mise una mano sulla spalla con fare grave, mormorando: «Vieni, Matilda.»
Lei si voltò e sparì dalla mia visuale, mentre mio padre chiudeva la porta alle sue spalle.
Dove la stavano portando?
Li osservai dallo spioncino attraversare il tempio ed entrare nel naos, e compresi: avevano intenzione di passare per la porticina di cui mi aveva parlato Matilda, che era sicuramente l'unica via d'uscita che fosse presente nella cella.
Non ne conoscevo lo scopo, ma sapevo di doverli seguire, anche se non avevo un piano ben preciso. Forse potevo semplicemente aggregarmi a loro, dovunque stessero andando, sperando che non facessero troppe storie e mi lasciassero parlare con Matilda.
Ma il problema principale era un altro: qualunque pena dovesse scontare Matilda doveva essere orribile, se l'alternativa era la condanna a morte.
La cosa migliore che potevo fare era farmi dire da lei quale fosse la sua colpa e, se l'avessi trovata sproporzionata alla pena, cosa di cui, conoscendomi, ero matematicamente sicuro, cercare di intercedere presso mio padre, anche se dubitavo che sarebbe servito a qualcosa.
Attesi qualche minuto, immobile, poi, con la relativa sicurezza che le guardie li avessero già fatti passare, uscii allo scoperto.
Ora si trattava di cancellare le tracce del mio passaggio e trovare il modo di convincere le guardie a farmi entrare.
Per prima cosa cercai di chiudere la porta e di riportare la parete al suo aspetto originario: qualsiasi cosa facessi la porta rimaneva perfettamente evidente, dato che disegnava una rientranza nel muro.
Alla fine, esasperato, tirai un pugno al battente, che, grazie alla pressione, prima arretrò leggermente, poi tornò al suo posto.
Soddisfatto entrai nella cella, col comportamento di chi sa perfettamente cosa sta facendo e che è proprio dove dovrebbe essere.
«Altolà!» mi intimò una delle due guardie.
Dal momento che erano lì più per rappresentanza che per combattere con chi si fosse presentato al loro cospetto, erano bardate con un'uniforme sicuramente bella ma poco pratica, con tutti quegli alamari d'oro che condivano le tuniche nere e rosse e le armature leggere dall'apparenza scomoda, che rilucevano alla luce del grande fuoco sull'altare.
Era da lì che arrivava la voce di Logos: saliva dalle viscere della terra e irrompeva nel suo tempio, pronta per essere ascoltata quando avesse deciso di palare o per essere interrogata dai Teorici del Gioco, se c'era bisogno che fosse formulato un responso per qualche questione riguardante lo Stato. Chiesi perdono al Dio, in silenzio, ma in fondo ero convinto di quello che stavo facendo: anche se io avessi commesso un peccato, avrei sbagliato il doppio limitandomi a non fare niente. Mi ripetevo questo, anche se sapevo che era solo una litania per alleviare i miei sensi di colpa.
«Sono il figlio di Arrigo Chimici. Mio padre ha dimenticato una cosa importante, devo andare a cercarlo.»
«Siamo spiacenti, ma nessuno può entrare qui dentro.» replicò uno dei due con rispettosa fermezza.
«Devo solo vedere mio padre.»
«Questo non cambia le cose, sono desolato.»
Nonostante il rifiuto mi mantenni sicuro di me, e feci bene, perché subito dopo mi venne un'idea.
«Tenga la sua desolazione per un'altra volta: dal momento che mio padre è entrato qui dentro, il capo della Gilda adesso sono io, e ho il diritto di entrare.»
Donnie passava la maggior parte del tempo in compagnia delle sue letture, dunque non aveva molti conoscenti. Potevo sperare solo che quelle guardie non sapessero chi fosse, proprio come non lo aveva saputo Matilda.
Senza attendere una replica, comportandomi da vero spocchioso, cosa che mi riusciva benissimo, mi diressi verso il cancello che chiudeva l'apertura, invitandoli con un cenno imperioso ad aprirmi.
«Non così in fretta.» mi redarguì uno dei due uomini.
«Signorino» disse l'altro più blandamente, mettendo le mani avanti «Non vogliamo mettere in dubbio le sue parole, ma deve mostrarci i documenti.»
«Certo, eccoli.» per fortuna mi ero portato dietro il portafoglio. Sulla carta di identificazione, oltre alla mia foto, c'era anche quella dei miei genitori, cosicché era impossibile da parte loro avere ancora dei sospetti circa la mia identità.
Il fatto che io fossi in realtà il figlio cadetto era un particolare del tutto irrilevante.
Le guardie annuirono, esaminando la carta «Può passare, non è in nostro potere trattenerla, ma a meno che non sia una cosa urgente, le converrebbe aspettare. Nemmeno noi sappiamo com'è là sotto. D'altronde, suo padre è appena passato...»
Non rimasi a sentire il resto del discorso.
«Non è urgente, è urgentissimo!»
Mentre correvo giù per le scalette e mi inoltravo nel buio, sentii una delle due guardie dire, rivolgendosi al Fuoco: «O Logos, avremmo fatto bene?»
Ma il Dio non disse niente. Ogni tanto taceva.
N.d.A: E con questo siamo giunti a poco meno della metà di questo romanzo! Cos'ha in serbo per Quis e Matilda questo strano Dio? E qual è il piano di Arrigo? Ok, scusate, volevo farvi tornare bambini simulando la voce fuori campo dei Pokémon alla fine delle puntate... Ad ogni modo e maniera, questo è quanto! Volevo anche cogliere l'occasione di ringraziare i magnifici autori delle immagini che corredano ogni capitolo, purtroppo spesso non riesco a rintracciarne i proprietari, sappiate comunque che non sono mie (com'è intuitivo) ma degli artisti di Deviantart. Grazie a tutti e (spero) alla prossima.
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