Capitolo 3


-Il passato-

Ve la faccio breve perché da quella specie di conversazione avvenuta sulle scale dello studio passarono molti mesi. Non lo rividi più. Eravamo a Febbraio, e un progetto di scuola mi riportò a lui. Non ricordo neanche bene lo scopo di questa cosa, ma il destino mi portò a lavorare in quello studio per circa un mesetto e mezzo. Ovviamente mi affidarono ad un altro ingegnere, dato che Armand era tipo un Dio greco che non si curava degli umani. Continuavo ad osservarlo da lontano, sperando che mi notasse; anche se non lo avevo mai ammesso a me stessa, mi attirava da morire quell'uomo, anche se dalla sua parte probabilmente neanche si ricordava come mi chiamassi e chi fossi. Andavo il pomeriggio, subito dopo scuola, e prima delle otto e mezza non ero fuori da lì. Le prime due settimane passarono tutte lisce come l'olio, poi arrivò quel giorno da cui tutto prese una piega diversa.

Avevo finito in anticipo il mio lavoro, ed ero nel punto ristoro a prendere qualcosa da mangiare e un caffè. I miei genitori erano sempre così impegnati che raramente mangiavamo insieme, e un po' questa cosa mi è sempre mancata. A livello affettivo non sono mai stata coccolata, materialmente non mi hanno mai fatto mancare niente, ma ho sempre imparato a rivedermela da sola. E da sola, intendo sempre da sola. Mi circondavo di amiche che non sapevano niente di me, e prima mi andava bene, solo dopo avrei iniziato a capire che in alcuni momenti necessiti di un supporto.

"Potrei iniziare a pensare che intendi trasferirti qui". Armand entrò nella stanza chiudendosi alle spalle la porta. Aveva la cravatta allentata e il primo bottone della camicia sbottonato, un'eresia per lui.

Non sapevo cosa rispondere. Aveva sempre quel modo di fare che sembrava ti stesse prendendo per il culo. "Mi piace avere un po' di pace"

Lui andò verso uno scaffale rosso, prese delle lasagne surgelate e le mise in microonde. Mi chiesi come mai un uomo di tale spessore cenasse in ufficio. Ebbi la sfacciataggine di chiederglielo. "E tu ceni sempre qui?"

"Sei giorni su sette sì, mi fermo sempre a lavorare fino a tarda serata. A casa non ho nessuno a cui rendere conto", disse prendendo un bicchiere e delle posate.

Io iniziai a mangiare a fatica il panino che avevo comprato al bar di sotto. "Più o meno anche io"

"Cosa sei un'indipendent woman?", domandò sorridendo.

"Una sorta", risposi fuggitiva. "A casa mia non si mangia quasi mai tutti insieme"

"E' il prezzo da pagare, purtroppo". Il campanello del microonde scoccò, e lui estrasse la sua porzione di lasagne. Si sedette al tavolo, e iniziò a tagliarle meticolosamente. "Non mangi?", mi chiese guardando me con in mano il panino da tempo.

Mi si era chiuso lo stomaco. "Me la prendo con calma". Arrivai dopo alla spiegazione: mi imbarazzava che lui potesse vedermi mangiare. Era così pieno di perfezione che mi faceva sentire a disagio anche solo quando respiravo.

Controllava il telefono e rispondeva a messaggi senza sosta, non curandosi neanche della mia risposta, come se mi parlasse giusto per educazione. "E' sabato sera, non esci?"

Scossi la testa "Le mie amiche mi hanno dato buca stasera"

Annuì "E il tuo ragazzo?"

Io avevo un ragazzo? Scossi la testa, di nuovo. "Non ho un ragazzo"

Tolse lo sguardo dal cellulare e mi fissò per qualche secondo, per poi dire "Meglio così. Le relazioni sono una gran rottura"

Non sapevo come interpretarla. Era un'incoraggiamento?

Aggiunse. "Sei anche giovane per impegnarti". Avevo appurato che mi vedeva solo come una ragazzina. Bene..

"In realtà sto bene così", decretai io. Ed era vero. In realtà nessuno aveva attirato mai la mia attenzione tanto da spingermi a provarci.

Sorrise "Siamo uomini, siamo egoisti, e le relazioni sono un'ipocrisia per fingere che l'uno è il sostegno dell'altro. Quando invece si sta insieme per passatempo, e quando trovi qualcuno di migliore o qualcos'altro che ti attrae di più, non ci pensi due volte a disconoscere chi dicevi di amare". Pensai che quest'uomo avesse avuto una qualche delusione tragica. O magari era solo così incentrato su se stesso da essere totalmente incapace di amare qualcuno all'infuori di sé.

Non sapevo cosa rispondere. Incartai il panino e lo misi in borsa. Non riuscivo a mangiare con lui davanti, era più forte di me. Mi alzai.

"Te ne vai?", mi chiese guardandomi.

"E' sabato sera, non posso rinchiudermi in questo studio"

E così uscii, e da quel giorno, iniziai a condividere il tavolo con lui ogni sera. Io cercavo di arrivare sempre un po' prima in modo da essere sulla fine quando lui si sedeva. Iniziammo a parlare del più e del meno ogni sera, così per circa tutta la fine delle altre settimane che dovevo frequentare. Mi affascinava sempre di più. Aveva un modo di fare che ti incantava, che ti poteva convincere di tutto. Iniziai anche a mettermi delle scarpe con il tacco, per sembrare un po' più adulta. Il mio stile era sempre stato più adulto delle mie coetanee, ma c'era qualcosa che mi spingeva a volermi far guardare da lui, e magari sentirmi anche apprezzata. Gli stavo simpatica, se ogni sera si premurava di cenare con me e di raccontarmi sommariamente la sua giornata.

Una sera pioveva a dirotto, e i cinquecento metri per arrivare alla fermata della metro sembravano interminabili, anche con l'ombrello e il cappotto lungo fino ai piedi. Guardai dalla finestra i lampi, e mi venne in mente l'idea di chiamare un taxi per farmi portare a casa.

"Ti accompagno io". Sussultai. Lui sembrava avermi letto nel pensiero. "Dammi mezzo secondo che l'autista mi porta la macchina qui davanti, e andiamo"

Certo, l'autista. Parcheggiava davanti allo studio, e poi il ragazzo gliela portava al coperto.

Accettai quella sera, anche se ero un po' imbarazzata. Avrei preferito farmi la strada sotto la pioggia piuttosto che accettare un passaggio da lui.. Ma il temporale sembrava essere giusto all'inizio.

Arrivammo davanti casa mia dopo 30 minuti di silenzio imbarazzante. Anzi non proprio silenzio, c'era la musica. Lui provava a dire qualcosa, io rispondevo, e poi tornava il silenzio. Guidava un SUV della Maserati, ed era così curato e pulito che mi faceva sentire di troppo. Come se lui fosse qualcosa di irraggiungibile. Al di sopra di tutti. Picchiettava l'indice affusolato sul volante di pelle rivestito, e quando ci fermammo a pochi metri dal mio cancello, non spense il motore così da non spegnere il riscaldamento. "Grazie mille, per il passaggio", dissi io realmente grata.

Guardava davanti a sé impassibile. "E' ciò che andava fatto"

"Non eri obbligato"

Mi guardò. "Ti avrei avuto sulla coscienza"

"Stavo per chiamare un taxi"

Scosse la testa "Non sono così stronzo da lasciar andare una ragazza in un taxi quando posso benissimo riaccompagnarla io"

"Non ricapiterà più, la prossima settimana sarà l'ultima". Dissi io con un filo di malinconia.

Rise "Beh se vuoi il microonde è sempre al tuo servizio"

Risi anche io. Quando voleva aveva del senso dell'umorismo. Lo guardai. "Non sei così malvagio dai"

"Pensavi che lo fossi?", mi chiese lui.

"No, malvagio no, però freddo magari sì"

Alzò gli occhi al cielo. "Sono educato, è diverso"

Non sapevo già cosa rispondere. "Beh, ad ogni modo grazie"

Mi sistemai la sciarpa, e toccai involontariamente le dita della sua mano posizionata sul cambio. Mi ritrassi come se avessi preso la scossa, ma al tempo stesso non ero pronta a scendere. Lui mi continuava a guardare senza tregua, e tutto ciò mi metteva ancora più in imbarazzo. Mi fermai a guardarlo anche io per prendere fiato, e scendere dalla macchina sotto la pioggia, ma non arrivai a dire come, lui prese il mio viso e mi baciò. Posò solo le sue labbra sulle mie, senza pretese. Io non avevo idea di cosa cazzo fare. Non risposi, e lui si tolse immediatamente, scosso. "Senti, mi dispiace, è meglio se vai"

Guardò fuori dal suo finestrino, come se si sentisse in colpa. Io non sapevo cosa dire, né cosa fare. Come ci si comporta in queste situazioni?

Continuai a guardarlo. "Armand".

Lui si voltò verso di me e mi disse "Ti vengo a prendere con l'ombrello, aspettami". Scese dalla macchina e mi aprì la portiera, io scesi e lo guardai. camminammo fino a davanti la porta di casa, sotto la veranda, e ci fermammo a scrollare l'acqua dai cappotti che bene o male ci era andata. Mi fermai a guardarlo, ancora leggermente scossa da prima. E a quel punto gli misi le mani intorno al collo e lo baciai, io. Lui fece cadere l'ombrello dalla sua mano, e mi mise una mano tra i capelli e una attorno alla vita. Il bacio divenne appena più passionale, e durò per qualche secondo. Si staccò lui per primo guardandomi come a chiedere spiegazioni. Spiegazioni che neanche io sapevo dare. "Evidentemente lo volevamo entrambi", dissi io dopo un po'.

A quel punto lui mi spinse contro il muro, e riprese a baciarmi, e stavolta non si fermò. A pochi metri la pioggia continuava a scendere, e ogni tanto si illuminava tutto di bianco, ma noi eravamo al riparo. Mi schiacciava con il suo corpo, mi prese le mani immobilizzandole: io mi liberai in pochi secondi mettendogli le braccia attorno al collo e accarezzandogli i capelli pettinati alla perfezione. Mi morse il labbro, e mi mise una mano sotto il cappotto, sopra la camicetta, e mi strinse a sé. Prese a baciarmi il collo e a strusciarsi su di me. Ci volevamo. In quel momento la tensione era alta. Poteva scoppiare in altro da un momento all'altro. Andammo avanti così qualche altro minuto, poi lui rallentò, e iniziò a darmi baci sempre più dolci. Si fermò del tutto e mi guardò negli occhi. "Mi dispiace"

"Dovrei dirlo io", cercai di giustificarmi.

Si staccò. "E' meglio che vada"

E se ne andò, scosso, che sembrava appena uscito dal cinema dopo aver visto un film horror. Mi chiesi se avessi fatto qualcosa che non andava, e ricordo che rimasi tutta la sera rigirandomi nel letto a chiedermi cosa avessi di sbagliato.

Ero sicura che fossi io quella sbagliata, quella che voleva cose impossibili. Mi aveva lasciato lì in veranda al freddo senza neanche dirmi buonanotte. I miei pensieri furono molteplici. Avevo sbagliato qualcosa? Si era reso conto del fatto che io fossi una bambina e lo aveva realizzato solo adesso?

Perché non ero abbastanza?

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