ATTO XV II Era I TRE GENERALI
Per parecchie ore Rayman, solitario, restò in allerta timoroso che quell’essere di cui aveva scorto solo una fuggente immagine fosse in attesa di un suo passo falso, ma gli unici rumori che poteva udire erano creati dalle gocce di condensa che quel luogo umido e buio faceva cadere dal soffitto; il ticchettio scandiva lento e inesorabile il tempo che passava, come a ricordargli quanto di questo lo avesse passato nel terrore di far capolino, anche solo con il volto, all’esterno. Ma le sue sensazioni ed il suo istinto lo guardavano bene dallo sfidare un qualcosa che non conosceva, e di cui nessuno aveva mai parlato. La sua metodica calcolatrice da generale lo allontanava dall’idea di affrontare un nemico del quale non conosceva il punto debole, ma una fiamma dentro sé, d’altro canto, gli imponeva di non fossilizzarsi lì, ovvero era il pensiero che la sua figlioccia fosse in balia di quell’ostile posto in cui avevano trovato rifugio; nonostante l’idea che Darwin stesse pensando alla sua Alea lo tranquillizzava, ma non sufficientemente. Era ormai una settimana che mancava da Hellvestone, e la speranza con la quale era partito per quel solitario viaggio fu demolita una volta raggiunta la foresta che un tempo chiamava casa. Doveva tornare dall’unica che gli avrebbe potuto sollevare il morale, l’unica elfa per cui ora poteva combattere.
Con molta cautela il generale Stormwind prese un grande respiro che riempì il suo animo di coraggio, tirò la leva che permetteva all’altare di aprire il passaggio e si preparò per una corsa rapida; non aveva la benché minima intenzione di incrociare le sue scimitarre con quello scempio, l’unica opzione era la fuga.
Il marchingegno sferragliò e con un lento movimento, che non fece altro che far alzare il suo stato d’ansia e timore, i primi, pallidi raggi solari filtrarono dalla feritoia che via via diveniva sempre più grande. I suoi occhi blu si socchiusero essendosi abituati al buio di quel rifugio, e l’odore di morte prese il sopravvento su quello dell’umidità, con cautela si apprestò a fare i primi scalini. La sua testa era ormai oltre la superficie, che con fare quasi maniacale scrutava l’intera aera della zona di fuga. Ora era sicuro, per quanto aveva visto, che lo spazio era libero. Si apprestò a fare gli ultimi scalini, e non appena il piede d’appoggio fu sul marmoreo pavimento del vecchio tempio di Taal, scattò verso la via che lo avrebbe condotto alla sua nuova casa.
Alea fece fatica a riprendersi da quello strano formicolio che le opprimeva le braccia, era esausta e la sete e la fame non le permettevano di riflettere abbastanza lucidamente. Provando a migliorare la condizione dei suoi polsi tentò di scuoterli, ma la sensibilità era talmente smorzata che quasi si chiese se davvero li stesse muovendo o se fosse un semplice pensiero. Lo sferragliare del ferro gelido che le cingeva i polsi la riportò alla realtà. Era da una settimana o forse più che si trovava in quel luogo freddo ed umido, i suoi occhi stanchi si erano talmente abituati al buio, che la luce tenue di una torcia in fondo al corridoio quasi l’accecò. La sensibilità agli arti sembrava esser migliorata, ma più muoveva le mani in cerca di una posizione migliore, più i polsi le dolevano.
Al di là delle sbarre nella quale era prigioniera due ombre si stavano avvicinando, quei punti arancioni che dal buio la stavano raggiungendo riflessero le fiamme delle torce che ora erano alle loro spalle; sollevando lievemente le palpebre la ragazza poté contarne quattro in totale, e questi ormai erano quasi al limitare della sua cella.
Il suono sordo dei passi di quei due orchi non fece altro che causarle ancora più malessere, in fattispecie, un mal di testa martellante l’aveva assalita, forse a causa della mancanza di liquidi così prolungata, ma non si era arresa nemmeno una volta nell’arco dei giorni del suo imprigionamento, tanto che quella, sarebbe stata l’ultima tortura che quegli assassini ed invasori le avrebbero inferto e ne era consapevole, ma una voce rauca e profonda non fece altro che confermare i suoi pensieri, uno dei due energumeni dalla pelle verde aprì bocca e dopo aver causato un gran rumore facendo tentennare il pomo della sua spada sulle sbarre disse: «Sveglia principessa, è un grande giorno per te, preparati a dovere, sei attesa per l’ultima scena sul palco che ti abbiamo preparato.» Un ghigno sadico seguì quelle parole sarcastiche che tentavano, senza riuscirci, di ferire la ragazza.
Gli orchi entrarono nella cella e aprirono le catene dalla parte in cui erano state inchiodate a quelle sudicie mura che fino a quel momento erano state uno scomodo giaciglio per l’elfa.
I due possenti orchi, la trascinarono per le catene su per la tromba delle scale che portavano all’esterno delle prigioni; non appena fuori a loro si aggiunsero altri dieci soldati dell’armata nera, la strada era gremita di gente e creature che rimasero allibite al vedere una così giovane donna essere trattata in tal modo, o forse con più probabilità, il popolo vessato rimase impietrito quando vide che la rivoluzionaria era stata presa. La gente al passaggio della scorta si apriva lungo i lati della strada principale che portava al palazzo più imponente di tutti, lì, con molta probabilità, il “viscido” stava attendendo la sua ospite.
Dopo circa una ventina di minuti di cammino giunsero al cospetto di un palazzo candido, il marmo lucido rifletteva quella tenue luce che il sole stava emanando finendo per sembrare, a causa della nebbia, ancor più bianco di quanto non fosse in realtà. I bassorilievi che un tempo rappresentavano i vari guardiani minori con in calce Notechis sulle due grandi porte che dell’entrata, erano stati rovinati a suon di colpi di scalpello dalle sudice mani di chi ora pretendeva di governare con la forza un popolo come quello di Helvestone. Loro che per anni erano riusciti a convivere in pace con ogni singola forza appartenente a Mythir, si ritrovavano schiavi dello stesso essere che millenni prima avevano ripudiato e nonostante non ne accettassero i comportamenti e il suo irrispettoso metodo per giungere al potere, erano stati sopraffatti dagli stessi fratelli che ora li stavano torturando, togliendo loro il futuro dalle mani.
Le due enormi porte si spalancarono rivelando al loro interno un individuo girato di spalle “molto esile” pensò nel buio del suo silenzio Alea. Questo, poco dopo, fece cadere sulle spalle il cappuccio nero che gli copriva il glabro e pallido capo e infine, si girò. Non aveva segni particolari sul volto, il quale era pressoché quello di una persona qualunque, se non fosse stato per gli occhi violacei che entravano in gran contrasto con la carnagione lattiginosa dell’uomo. Gli orchi attorno alla giovane Alea si chinarono in segno di riverenza davanti all’essere, ed uno prese parola dicendo: «Generale Morn, come da voi richiesto ecco la prigioniera, siete sicuro signore che ve la sentiate di badare a lei senza l’ausilio di qualche guardia?» Lo strambo individuo tutt’ossa si girò verso la guardia fulminandola con gli occhi e poi con fare teatrale e dosando alla perfezione la sua voce gelida le rispose per le rime: «Assolutamente, ignobile orco, non dovevate neanche provare a supporre che io avessi bisogno del vostro aiuto, e solo che …» prese una breve pausa e quando lo fece, il suo interlocutore deglutì preoccupato vedendo che l’uomo non aveva ancora terminato il suo soliloquio, poi Morn riprese a parlare, «Abbiamo raggiunto tutti questi obiettivi grazie ai miei calcoli e le mie tattiche, mi spiacerebbe non usufruire dei vostri servigi per terminare coloro i ci hanno causato non pochi problemi, ma il Nostro Signore ha detto di smetterla di prendermi gioco delle vostre inutili vite, per cui per questa volta, la tua insolenza non avrà la morte come punizione.» Si avvicinò alla guardia puntandogli un dito accusatorio, fino a che, questo, affusolato e rigonfio nei punti in cui le falangi sono solite piegarsi, si posò sulla fronte dell’orco. La creatura, successivamente al tocco, iniziò a contorcersi in dolori inspiegabili ed un piccolo marchio si incise sulla sua fronte alta, l’individuo glabro poi schioccò le dita e come per incanto l’orco dapprima dolorante si rialzò non commettendo più l’errore di parlare sopra a Morn.
Alea rimase basita vedendo la scena, ed ora anche lei temeva di dover sopportare quelle stesse torture fino a che non avrebbe riferito al “viscido” ciò che egli voleva sentirsi dire; sapeva bene cosa Morn stesse cercando, e erano informazioni.
Come avrebbe potuto resistere a quello strano maleficio se anche una creatura delle dimensioni doppie alle sue si era contorta a dolori indicibili davanti ai suoi occhi, questo non lo sapeva, ma era certa che ben presto ne sarebbe venuta a conoscenza.
I due nerboruti orchi lasciarono così Alea nelle mani di Morn, e si dileguarono.
Rayman riuscì a fuggire dalla folta vegetazione dell’Herrendil, lasciando dietro di sé il rimorso per non essere riuscito a concludere nulla. ora doveva affrettarsi a raggiungere Helvestone, in quanto, una settimana prima con Darwin, avevano già preparato le basi del piano per la liberazione della città. I rivoluzionari erano entrati nel cuore e nelle speranze di ogni singolo prigioniero, dovevano però alimentare quella scintilla con un gesto concreto che avrebbe portato alla liberazione della maggior parte degli orchi rimasti in ostaggio nelle mani delle armate nere.
Ora quel pensiero ardeva dentro di lui con una foga inaudita, sapeva che i tempi erano ormai maturi e pronti affinché anche i prigionieri partecipassero attivamente a quell’ultimo scontro.
Due giorni di marcia e l’obiettivo sarebbe stato portato a termine, a costo della sua stessa vita. Le promesse fatte dal generale degli elfi venivano sempre mantenute e chi ormai aveva imparato a conoscerlo, sapeva bene, Darwin per primo.
Le nubi tetre e nere avevano ormai conquistato terreno, queste, accompagnarono il viaggio di ritorno di Stormwind senza mai allontanarsi da lui; anzi, quasi sembrava che fosse lui stesso il nucleo della tempesta che da lì a qualche ora di viaggio si sarebbe abbattuta sulla città di marmo. I suoi passi solitari, ma decisi, sembravano cavalcare i tuoni che rombavano nella stessa, ed i suoi occhi sicuri e pieni di odio per i soprusi che fin lì aveva visto sopportare, sarebbero caduti come fulmini, su chi, fino a quel momento, aveva giovato nel vedere la sofferenza sul volto di quelle pacifiche creature che aveva imparato a supportare.
Darwin una volta fuggito grazie all’aiuto di Alea aveva già architettato tattiche con l’aiuto dei molteplici rivoluzionari che gli erano attorno. Quella notte nessuno chiuse occhio, studiarono per filo e per segno il movimento delle settecento guardie che controllavano i punti strategici di tutta la città, e questo, nonostante la minoranza numerica con la quale partivano non poteva che essere un bene. La loro strategia aveva una sola occasione per funzionare, qualora avessero fallito probabilmente la risposta sarebbe giunta in poco tempo, la resa dei conti e la liberazione erano ormai sull’uscio.
Nei vari giorni passati a valutare le eventuali tattiche di battaglia Darwin non poté darsi pace pensando alla giovane ragazza, che per Stormwind valeva più di ogni cosa al mondo ora era nelle mani del nemico; questa eventualità non l’avevano nemmeno immaginata, e per quanto potessero combattere per la libertà l’orda di nemici aveva una leva con la quale potevano tenerli in pugno.
Nella bacheca delle affissioni pubbliche iniziavano a essere presenti pergamene che incitavano il popolo ad accorrere a quello che secondo Morn sarebbe stato un magnifico e lieto evento, incoraggiando tutti ad essere presenti tra tre giorni a quella parte nella piazza centrale di Helvestone. La cosa suonava strana a tal punto che Darwin ed i suoi uomini fecero di tutto per estrapolare informazioni ulteriori su quello strano evento, mai prima di quel giorno si erano visti annunci simili, una cortina di ferro fu alzata attorno alle novità che riguardavano quell’avviso pubblico e nessuno poté capirne di più.
Alea venne torturata dalle scheletriche mani di Morn a tal punto che la sua memoria ed i suoi ricordi della vita prima di quelle infauste notti, quasi sembrarono sfumare, mangiate da un’insolita sensazione alla quale la ragazza non seppe dare risposta. Ciò di cui era sicura ormai era che Morn non era umano, lo aveva visto maneggiare l’oscura magia negromantica con fin troppa facilità, per poi alla fine di ogni seduta di tortura, pretendere che la ragazza cenasse con lui; diceva di volerla in forze per l’evento che da lì a poco l’avrebbe resa protagonista, senza mai capire, a cosa quell’essere che incarnava il male puro si stesse riferendo. Anche se le prime due volte l’elfa si rifiutò di toccare anche solo un torso di pane presente in quei lauti banchetti a cui partecipava, alla fine dovette cedere, più cercava di resistere e più quel mostro la faceva soffrire, ben presto però divenne consapevole del fatto che nessuno sarebbe giunto ad aiutarla o anche solo a provare a liberarla da quelle viscide mani che la sfioravano di volta in volta. La sua resilienza dovette gettare in terra le armi della quale era composta, volente o nolente quel pallido viso che era obbligata a vedere ormai da tre giorni riuscì ad avere le informazioni che richiedeva, facendo sentire la ragazza dai capelli rossi colpevole di tradimento. Sperò con tutta sé stessa che la resistenza cambiasse il luogo di aggregazione poiché in caso contrario la mattanza che ne sarebbe conseguita dopo il suo cedimento avrebbe mandato in fumo tutto il complesso piano che il suo mentore e l’altro generale avevano architettato.
La notte era vicina e Morn come di consueto fece visita nelle stanze che aveva adibito ad ospitare Alea. Bussò alla porta e la ragazza fu obbligata a rispondere per la maniacale attenzione all’educazione che il suo carceriere le aveva imposto durante la permanenza lì.
«Sì, avanti prego.» L’essere viscido come il peggiore tra i serpenti, si apprestò ad entrare nei suoi alloggi. Non appena mise piede all’interno della lussureggiante stanza piena di arazzi e tappeti di grande valore si avvicinò al letto a baldacchino che era stato riservato all’elfa, senza emettere una singola parola, il mostro si chinò mostrando il collo scoperto, dove la giovane, aveva intravisto esserci un paio di insenature simili per certi versi delle branchie; subito dopo l’essere rialzò il capo e fissò gli occhi della giovane che mostravano ormai un animo affranto e distrutto; «Bene, giovane Alea, spero sia stata di tuo gradimento la permanenza nella mia umile dimora…» disse sarcasticamente, «ma ahimè, per quanto io apprezzi infinitamente la presenza di una donna, a maggior ragione se bella come te, tutte le cose migliori hanno una fine.» Lo sguardo furibondo di Alea lo avrebbe ucciso se solo avesse avuto modo di farlo, e subito a quell’odio si aggiunse il dubbio e l’incertezza per le parole che l’essere pallido le stava dicendo. Alzò anche una mano e quel suo indice maledetto che tanta sofferenza aveva causato alla giovane venne nuovamente utilizzato per imprimere una leggera pressione sulla fronte della ragazza e continuò, «la tua permanenza nelle mie stanze si conclude oggi mia cara, domani è il tuo grande giorno, e vedrai che faremo un figurone in piazza davanti a quei debosciati dei tuoi amici.»
Non appena il viscido terminò di parlare la vista dell’elfa si offuscò ed un martellante dolore alle tempie iniziò a causarle immani sofferenze, provò a percepire altro con le sue attente orecchie, ma più tentava di concentrarsi più quel dolore perpetuava non solo nella sua mente ma anche nel suo corpo; si sentì comprimere come avvolta da una cella a misura della sua sagoma e perse i sensi, dimenticando tutto ciò che da lì a una settimana era accaduto.
Rayman era riuscito a sgattaiolare sotto le disattente guardie dei cancelli confondendosi tra i molteplici orchi schiavizzati che facevano ritorno dal lungo viaggio agli scavi che, si erano allargati fino a raggiungere le rovine dello squarcio. Una volta varcate le possenti porte di ferro e legno che accoglievano la spedizione, aspettò il momento più adatto per fuggire ancora una volta sotto il naso degli orchi delle armate nere, correndo tra le strette vie periferiche di Helvestone riuscì in poco a tornare al suo vecchio rifugio, ma ciò che si trovò davanti fu l’intera locanda bruciata.
Alcuni tizzoni emanavano ancora calore, nello stesso istante in cui il suo sguardo incrociò le rovine un tuono rimbombò, come se il tempo stesso avesse risposto allo spezzarsi del suo cuore. La fiamma che stava iniziando ad ardere in lui si estinse, cadde sulle ginocchia ed in preda alla disperazione il suo volto si rigò di lacrime amare che esse finirono per estinguere anche quell’ultima scintilla nel suo animo.
I suoi piani erano saltati.
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