Prologo
1 Luglio 1993
Trenta gradi o giù di lì, tasso d'umidità elevatissimo e giacca e cravatta non andavano decisamente d'accordo, dovetti constatare.
Attraverso la camicia bianchissima che indossavo, solo poche ore prima linda e fresca di ammorbidente, si intravedevano, cupi, degli aloni di sudore.
<< Martini Edoardo >>.
<< Eccomi >> alzai la mano, voltandomi verso i professori.
Era il fatidico giorno dell'esame orale della maturità.
<< Vedo che ha scelto un argomento molto interessante >> osservò il presidente della commissione, sfogliando la mia tesina. << "La follia o manifestazione del diverso". Cosa vuol dire? >>.
Mi schiarii la gola, piuttosto imbarazzato, e cominciai a parlare.
<< Inconfondibile sintomo di possessione demoniaca (dal greco "daimon", termine ambiguo che indica la manifestazione empirica del soprannaturale, positiva o negativa che sia), la follia ha da sempre affascinato e, a un tempo, intimorito, nei secoli, l'uomo. Un po' come il "sublime" teorizzato da Edmund Burke: un "orrore dilettevole". Già l'etimologia del lemma ha un che di particolare e "bizzarro": la parola latina "follis", infatti, significa letteralmente "vescica, soffietto, sacca, pallone", ma, a partire dal VI secolo d.C., iniziò ad essere utilizzata nell'accezione che a noi tutti oggi è nota. Sostanzialmente, "folle" è colui che manca di "coscienza", di "senno", ma anche, in effetti, colui che è privo di "habitus", di "identità", di "appartenenza". Di dimora. E proprio per questo il folle è un estraneo, "diverso" rispetto all'ordine conformato della società. Non a caso, proprio con la definizione di "alienus" i Padri della Chiesa designarono per primi l'angelo caduto, l'essere ripudiato addirittura da Dio, dalla dimora celeste. Rifacendoci alla dottrina freudiana, folle è colui nel quale si ha uno squilibrio tra il dionisiaco e l'apollineo, tra l'Es, frazione più selvaggia e primitiva del cervello, e il Super-Io, frazione più razionale e logica. Sorge spontaneo, però, soprattutto alla luce di quanto accaduto nei secoli scorsi, porci un quesito: può, in realtà, la follia essere espressione dell'irrinunciabile necessità che l'uomo ha di sentirsi "normale", proprio additando in essa l'astrusità, la diversità, ora accolta con latente sentimento di preminenza intellettuale, ora ricusata con disprezzo e noncuranza? Mi viene da pensare a Medea, per esempio: personaggio folle per eccellenza, sì, visto il brutale omicidio dei suoi figli, perpetrato solo per desiderio di vendetta. Eppure non posso fare a meno di notare come, sin da Euripide e Apollonio Rodio e poi in Seneca, la donna sia malvista dai concittadini di Giasone ab initio, prima ancora di palesare il suo "Io" (lei stessa dice "crevit ingenium mali", cioè "maturato nel male"), e perché, poi? Proprio perché "diversa", straniera, abissalmente distante dalle convenzioni del mondo greco. Sarà Pasolini a cogliere questo pretesto per ridisegnare la maga in chiave neo-colonialista. E se ha ragione Pirandello a definire la nostra vita come un teatro, una messinscena, in cui ognuno di noi non è altro che un "pupazzo appeso al muro", in attesa che qualcuno lo prenda e lo animi, appare lampante come, nello spettacolo tragicomico dell'esistenza umana, spetti al folle l'onore (od onere) di addossarsi, come un moderno Atlante, il mastodontico peso di una diversità asserita più che concreta. Ruolo fondamentale nell'omeostasi di un sistema, come il nostro, in cui urge l'ansia di certezze e punti di riferimento, in cui nessuno ha il coraggio di esporre il suo vero io, di togliersi la maschera della normalità. Insomma, per dirla come Vitangelo Moscarda, nessuno ha il coraggio di morire, attimo per attimo, e di rinascere, nuovi e senza ricordi, così da poter vivere, finalmente, "non più in sé, ma in ogni cosa fuori di sé" >>.
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