Capitolo 5 - Impotenza

Si stava facendo tardi.

Diedi un'occhiata all'orologio: erano le due e un quarto del pomeriggio. Caspita, ma che fine avevano fatto Davide e Melissa? Possibile che non fossero ancora arrivati?

Mi diedi un'occhiata intorno: era proprio grande la mia nuova cucina. Nell'attesa, avevo iniziato a personalizzare la stanza: sui muri, prima vuoti, adesso erano appesi diversi quadri, tutti rigorosamente di Van Gogh (ovviamente delle riproduzioni). Amavo quel pittore. Alla mia destra, "La notte stellata", a sinistra, poco più avanti nella cucina, diverse copie dei suoi famosissimi girasoli. Sui mobili, invece, avevo collocato con cura diverse fotografie della nostra famiglia: dal nostro matrimonio all'evento più recente, i diciotto anni di Melissa. Era stata proprio una bella festa. Ripensai con nostalgia allo stupore della mia bambina quando, entrando in casa, si era ritrovata tutti i suoi amici e la sua famiglia ad aspettarla per celebrare la maggiore età. Lei aveva deciso di non festeggiare, vista la recente morte del nonno paterno, al quale era molto legata, e ci aveva letteralmente supplicati di destinare il denaro messo da parte a qualche associazione di beneficienza. Ma non potevamo non organizzare nulla per lei. Così, io ed Edoardo decidemmo di farle quantomeno una piccola festicciola in casa, riservando la quota rimanente ad una federazione gestita dall'ex collega di università di Edo, la dottoressa Ferrero.

La suoneria del cellulare mi riportò bruscamente alla realtà.

«Pronto? Edo, sei tu?».

Ovvio che era lui: il suo bel viso mi sorrideva sullo schermo del telefonino.

«Sì, Ely ... Sono arrivati i ragazzi?».

«No, non ancora. Strano che non siano già qui. A che ora è andata a prenderli la signora Dorotea?» chiesi, turbata.

Non era da loro ritardare. O meglio, non era da Melissa.

«Oh ... strano» si limitò a dire Edoardo. Era chiaramente preoccupato.

«La vicina aveva detto che sarebbe andata a prenderli intorno alle tredici» proseguì.

Sembrava quasi che volesse essere rassicurato da me. Tipico degli uomini.

«Non so cosa dirti, Edo ... Hai provato a chiamare Mely?» gli domandai.

«Giusto, non ci avevo pensato ... Ma sai che per lei il cellulare diventa un optional quando a chiamare siamo noi due. E' sempre scarico ... » rispose.

«Dai, provo a chiamarla io. Ci sentiamo dopo».

Interruppi repentinamente la conversazione; non volevo che mio marito si accorgesse di quanto fossi angosciata. Composi subito il numero di Melissa, ad una velocità olimpionica - Davide ne sarebbe stato fiero, dal momento che di norma avrei impiegato qualche secondo solo per sbloccare il dispositivo-.

"Risponde la segreteria telefonica del numero 338 ..."

Cavolo. Mio marito aveva ragione, aveva il cellulare spento. Maledii me stessa per il senso di impotenza che provavo in quel momento: non potevo andare in nessun posto, senza patente. Dopo la morte di mio padre e di mio fratello avevo giurato a me stessa che mai e poi mai avrei guidato un'auto, talmente forte era stato il trauma. Edoardo aveva provato a convincermi più volte, a partire dal nostro primo appuntamento, ma io mi ero sempre fermamente rifiutata. Provai a comporre il numero di Davide, e questa volta a rispondermi fu la sua strampalata segreteria fai-da-te: "In questo momento non posso rispondervi, e forse sapete anche perché. Quindi, evitate di richiamare".

Feci un profondo respiro, e mi imposi di mantenere la calma. Dopotutto, come diceva spesso mio padre, era inutile "fasciarsi la gamba prima di rompersela". Pensa, mi dissi. Pensa, pensa ...

A un tratto mi venne un'idea: i vicini. Probabilmente avevano il numero di quella Dorotea, o come diavolo si chiamava. Presi borsa e chiavi di casa e uscii di fretta. Il quartiere pullulava di villette, una più bella e maestosa dell'altra. Decisi di suonare al citofono più vicino, quello di un certo signor Ariosto.

«Sì, chi è?».

«Ehm ... buongiorno, signor Ariosto, mi chiamo Elena Di Giorgio. Ho appena affittato la casa accanto alla sua e ci stiamo trasferendo qui con la mia famiglia. Avrei bisogno di un favore ... mi può aprire?» dissi, dubitando che l'avrebbe fatto. Vivevo lì da meno di mezza giornata e già mi avevano fatto visita diversi testimoni di Geova: presumibilmente avrebbe pensato che fossi una di loro. E invece mi aprì, senza dire nulla.

Mi feci strada attraverso le erbacce del giardino: a quanto pare il giardinaggio non era il suo forte. Bree Van de Kamp non avrebbe approvato.

Arrivata davanti al portone della villa, mi trovai di fronte un uomo di circa cinquanta anni. Tutto in lui stonava con l'ambiente residenziale che lo circondava: dai quattro tatuaggi (uno, in particolare, sul braccio sinistro riportava le iniziali G. & L.) alla barba incolta. Indossava un paio di boxer neri ed esibiva un - bel - paio di pettorali sotto una maglietta blu aderente, che non lasciava molto spazio all'immaginazione. Mi sentivo piuttosto in imbarazzo.

«Allora, cosa vuole?» chiese bruscamente.

Mi colpirono i suoi occhi azzurri, che si accostavano perfettamente ai capelli scuri.

«Come le stavo dicendo, giusto oggi ci stiamo trasferendo nella villetta qui accanto. Aspettavo i miei figli per l'una e un quarto, ma sono quasi le tre e ancora non è arrivato nessuno ... forse le sembrerò esagerata, ma sono abbastanza preoccupata per loro» dissi tutto d'un fiato.

«In effetti sì, mi sembra esagerata. I ragazzi sono così ... quanti anni hanno i suoi figli?» domandò.

«Diciotto e tredici» risposi. Non capivo cosa c'entrasse la loro età.

«Allora non si preoccupi, saranno andati a pranzare in qualche locale e ci avranno impiegato più tempo del previsto» dichiarò.

Stava per chiudermi la porta in faccia, ma non potevo permetterglielo.

«Lo sa che parla proprio come un poliziotto?» annunciai, forse a voce un po' troppo alta.

Sembrò più divertito che infastidito dalla mia affermazione.

«Questa poi mi è proprio nuova» disse. «Prego, entri pure e mi dica come pensa che possa aiutarla».

Fece quello che forse riteneva essere un inchino e spalancò la porta di casa.

Entrando, non potei fare a meno di notare l'estremo disordine che vi regnava: cianfrusaglie a destra e a manca, foto gettate sui gradini delle scale, persino un reggiseno sul divano in salotto. Evidentemente, era o era stato in compagnia femminile. O era sposato, ma non sembrava il tipo da matrimonio o relazione stabile.

«Prego, si accomodi».

Indicò il divano. La mia germofobia mi impediva anche solo di avvicinarmi, viste le numerose macchie e i peli di gatto di cui era colmo.

«No, grazie, preferisco stare in piedi» dissi, cercando di non far trasparire dalle mie parole il ribrezzo che provavo.

«Forse ha un DOC?» chiese lui, ridacchiando. «Un Disturbo Ossessivo-Compulsivo?».

«Così è pure uno psichiatra, oltre che un poliziotto?» ribattei io.

Quel tipo iniziava ad infastidirmi, perché non si faceva gli affari suoi?

«No, non sono uno psichiatra. Però ne ho conosciuti molti» rispose in tono eloquente.

«Visto che non è uno psichiatra, non ho intenzione di farmi psicanalizzare. Volevo solo chiederle se per caso ha il numero della signora che abita qui di fronte» domandai sbrigativamente io. Sapevo di essere stata scortese, ma quella casa mi inquietava, e non volevo trascorrervi dentro più del tempo necessario. O meglio, quel tipo mi inquietava.

«La signora Dorotea?».

«Sì, credo si chiami così».

«Uhm, è da un po' di tempo che non la sento. Sa, non siamo esattamente in buoni rapporti ... però dovrei avere il suo numero. A cosa le serve, di grazia?» volle sapere.

Avevo la fastidiosa impressione che mi prendesse in giro.

«Si era offerta di dare un passaggio ai miei figli fino alla nuova casa» risposi, usando il tono più dolce che in quel momento mi riusciva.

«Eh sì, è proprio da lei aiutare i ragazzi» dichiarò con malcelato sarcasmo.

«Cosa vuole insinuare? Che dovrei preoccuparmi?» chiesi, senza riuscire a trattenermi.

Mi voltò le spalle e si diresse verso la cucina. Dopo pochi minuti tornò in salotto con in mano la rubrica telefonica.

«Ecco, qui c'è il numero di mia madre».

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