- 2: Edoardo


Edoardo

Varcai finalmente la porta dell'ufficio. Mi diressi verso la sala delle conferenze dove era già iniziata la riunione per la nuova collezione estiva, entrai e tutti mi guardarono con aria stupita.

«Sig. Angeli che le è successo?» disse Manuela, la mia segretaria. Non capivo a cosa si riferisse e probabilmente se ne accorse dalla mia faccia dubbiosa.

«Ha l'abito strappato e impolverato, ha avuto un incidente? Si sente bene?». Mi guardai intorno e notai le facce preoccupate dei miei colleghi. Effettivamente avevo un taglio sui pantaloni neri all'altezza della gamba destra e la polvere sparsa ovunque ma ero più arrabbiato perché si era sciupato l'abito nuovo che per altro in realtà.

«Non preoccupatevi, sto bene. Manuela mi può portare un caffè per favore mentre vado a cambiarmi?».

«Certo, le serve altro, signore?».

«No grazie, è tutto» le risposi uscendo dalla stanza.

Andai di corsa nel mio ufficio. Menomale che tenevo sempre un abito di scorta nell'armadietto. Aprii la porta e mi toccò spostare lo sguardo da quanta luce entrava dalla finestra, era quasi accecante. Le tende grigie erano spostate da una parte e scoprivano in buona parte le vetrate che davano sul giardino. La scrivania in legno era perfettamente in ordine, il computer già acceso. C'era un leggero odore di lavanda che proveniva da una candela accesa posta sul tavolino di fronte al divano in pelle bianco. Dalla parte opposta la porta del bagno era chiusa e sulla parete il dipinto che raffigurava la città di Firenze era leggermente spostato verso sinistra. Lo raddrizzai. Adoravo quel quadro, lo avevo comprato un anno prima da una pittrice del luogo mentre passeggiavo in città, ne rimasi subito colpito. Presi l'abito dall'armadietto del bagno, mi sciacquai e cambiai in fretta e furia e tornai in sala conferenze.

«Allora? Cosa mi sono perso?» dissi mentre prendevo posto intorno al tavolo in vetro della stanza.

Non riuscivo a rimanere serio quella mattina, mi facevano ridere i miei colleghi. Se ne stavano tutti e cinque seduti di fronte a me con le gambe incrociate, una pila di fogli sotto al naso, la tazza del caffè fumante in mano e il viso crucciato. Dentro quella stanza bianca, piena solo di quadri raffiguranti arte contemporanea, erano pesci fuor d'acqua. Non so perché mi dessero la sensazione che fossero lì ma non ci volessero essere sul serio, persi in chissà quali pensieri.

«Stavamo valutando l'opzione di creare una linea di costumi da bagno da far uscire a fine Luglio» disse finalmente Alessio, mio socio della società nonché mio ex migliore amico, dopo minuti di silenzio.

«Interessante. Informiamo Elena così ci prepara dei bozzetti e valutiamo con lei se l'idea può essere valida e quanto tempo ci vorrebbe a realizzarla. Due mesi passano velocemente» dissi.

«In realtà Edo ho chiesto a Giulia di prepararli, sai per avere già un'idea oggi. I suoi lavori ti sono sempre piaciuti e poi è una brava stilista, ho pensato fosse giusto chiedere a lei. Ecco tieni» disse Alessio passandomi cinque fogli su cui erano disegnati a mano i modelli. «Lei crede che possa funzionare. Se puntiamo su questi modelli ognuno pensato in tre colori diversi, dovrebbero essere pronti a inizio Luglio, quindi anche prima della scadenza che abbiamo prefissato. Ha detto che seguirebbe lei il processo di creazione in caso ci vadano bene».

Ovviamente doveva coinvolgerla. Anzi, avrei anche giurato che l'idea fosse partita proprio da lei. Avrebbe fatto di tutto pur di mettermi in conflitto con Alessio, come se già non le fosse bastato tutto quello che mi avevano combinato. Poteva avere almeno la decenza di non mettersi in mezzo. E lui poi, continuava a farle da zerbino, non capiva che il suo unico scopo era impadronirsi dell'azienda. Arrampicatrice sociale che non era altra. Tra l'altro giurerei anche, da come mi guardava quelle poche volte che ci eravamo incontrati, che mi sarebbe bastato schioccare le dita per farla tornare da me in men che non si dica. Poverina. Non capiva che non la volevo più tra i piedi. Due mesi a lavorare a stretto contatto non li potevo sopportare. Mi erano già bastati quattro anni insieme, meno la vedevo e meglio era. Con che faccia tosta poi Alessio me lo diceva così, senza confrontarci prima, davanti a tutti. Sapeva che non potevo obiettare più di tanto. Così come immaginava che gli altri ne sarebbero stati entusiasti. La adoravano.

«Ripeto: la migliore opzione, a mio avviso, è Elena. È un'ottima stilista e le sue idee sono sempre vincenti» dissi spezzettando la gomma da cancellare che si trovava sul tavolo di fronte a me. Lo guardai in cagnesco sperando capisse che sarebbe stato meglio per entrambi lasciare la sua fidanzatina fuori da questa storia.

«Direi di guardare i bozzetti pronti, poi decidiamo. Se alla maggioranza piaceranno almeno un po' di quanto piacciono a me andiamo avanti con Giulia senza mettere nel mezzo altre stiliste, che senza dubbio sono brave ma non quanto lei e lo sai, ne siamo tutti consapevoli» mi rispose con un sorriso beffardo stampato sul volto. Bastardo.

Gli altri tre soci si passarono i fogli e li osservarono entusiasti, sapevo già che gli sarebbero piaciuti. Alessio aveva ragione, poteva essere la stronza più stronza di questo mondo ma nel suo lavoro era brava, e i costumi che aveva disegnato erano senza dubbio molto belli, sfortunatamente. Così fu, vinse lui per maggioranza, anzi, erano tutti d'accordo eccetto me. Mi dovetti rassegnare.

«Va bene allora, così è deciso. Voglio il primo modello pronto sulla mia scrivania lunedì mattina. Ora devo andare, se avete bisogno di qualcosa cercatemi al cellulare» dissi e uscii dalla stanza sbattendo la porta. Andai nel mio ufficio ma ero così nervoso che non riuscivo neanche a concentrarmi, mi avevano intrappolato. Avevano raggiunto il loro scopo. Dovevo stare a stretto contatto con l'ultima persona che avrei voluto accanto. Un tempo avrei gioito, i migliori capi che abbiamo prodotto lo abbiamo fatto insieme, ma le cose erano cambiate, un tempo ci amavamo, ora mi veniva l'orticaria al solo pensiero di stare nella stessa stanza. Era un disastro annunciato.

Mentre ero preso dal lavoro, la tasca dei pantaloni vibrò all'improvviso. Un SMS:

"Vieni a cena con noi stasera? Pensavamo di andare a mangiare in centro e poi di fare una giratina nei pub". Era Matteo, uno dei miei migliori amici.

''No Matte stasera non posso, ho promesso alla mamma di tornare a Borgo e cenare con loro, non posso rimandare''.

''Va bene, allora risentiamoci per domani, organizziamo qualcosa almeno ci vediamo! È una vita che non metti il naso fuori casa, tra un po' non riuscirò neanche a riconoscerti se ti incontro per strada''.

''Esagerato!!Ti scrivo domattina, così fissiamo. E non combinare guai stasera ahahah''.

''Non posso promettere niente lo sai!! A domani'' rispose.

Che testa matta Matteo. Per lui ogni scusa era buona per fare serata. Ero sicuro che non avrebbe mai messo la testa a posto però era un amico come pochi, sempre disponibile e pronto ad aiutarti. Eravamo un bel trio, io, lui e Alessio. Sempre insieme. Quando, però, aveva saputo quello che era successo tra Alessio e Giulia aveva preso le mie difese e si era arrabbiato tantissimo, li aveva mandati a fanculo entrambi e aveva troncato i rapporti. Mi aveva sostenuto nei mesi dopo la rottura, mi aveva fatto svagare, mi rendeva partecipe di ogni suo impegno e non mi aveva mai lasciato solo, andavamo a tutte le feste a Firenze e rientravamo all'alba senza sapere neanche più dove fosse casa mia. Per fortuna ormai era acqua passata. Il bene che volevo a Matteo, però, non sarebbe mai cambiato.

La sera passai a prendere i miei genitori e mia nonna, mi dissero che avevano prenotato da ''Da Marco'', un buonissimo ristorante sopra la collina di Vicchio. Lì si mangiava prettamente cacciagione, cacciata dal proprietario il giorno stesso, e prodotti a chilometro zero fatti sempre da loro. Tutta roba di ottima qualità insomma. Non era facile trovarlo se non c'eri mai stato, la difficoltà della strada, però, era pienamente appagata dalla bontà dei piatti.

Arrivati lì l'atmosfera era ancora più bella di come ricordavo. Il ristorante era una vecchia villa ristrutturata e tutt'intorno era circondato da prati e campi. A destra c'erano le stalle dei cavalli e i recinti per gli animali i cui rumori ti davano la sensazione di stare in mezzo alla natura e in tranquillità. I piccoli lampioni creavano un gioco di luci sulla facciata rivestita a tratti dall'edera a dir poco fantastico. Nel loggiato erano disposti una decina di tavoli in legno con al centro dei fiori di campo sicuramente raccolti al mattino. Quel posto era un'oasi di pace e io adoravo cenare lì. Non era la prima volta che andavo ma dall'ultima era passato veramente tanto tempo. In effetti, se ci pensavo, era stato l'anno prima in occasione del compleanno di Giulia. Pazzesco.

La cameriera ci mostrò il nostro tavolo e ci lasciò i menù. Avevo l'acquolina in bocca da quanta roba buona ci fosse descritta sopra, avevo l'imbarazzo della scelta. Optai per la battuta di carne tagliata al coltello all'olio come antipasto, i tortelli al ragù d'anatra come primo e per finire bistecca alla fiorentina con patate al forno. Volevo uscire di lì rotolando praticamente.

Si avvicinò una ragazza al tavolo con un taccuino in mano «Buonasera, io sono Rebecca e stasera seguirò il vostro tavolo, siete già pronti per ordinare? ».

«Sì, allora io prenderei...» alzai lo sguardo per dirle quello che volevo e guardandola negli occhi la riconobbi. Era la ragazza che mi aveva tamponato con la macchina la mattina.

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