-18: La mia Arya


Rebecca

Tre anni prima.


«Signorina Martini, lei è incinta» disse la ginecologa a cui mi ero rivolta. Erano due mesi che sentivo fitte alla pancia, vomitavo, non riuscivo a tenere niente nello stomaco. Ero sempre stanca, nervosa, assonnata. Pensavo fosse per il trauma subito, in fin dei conti erano passati solo un paio di mesi scarsi, era normale stare ancora male e non avere appetito. Almeno così credevo. L'avevo tenuto nascosto a mio padre ma il giorno prima mi aveva beccato mentre rigettavo la colazione e così aveva chiamato subito la dottoressa per farmi fare un controllo.

Lei me lo disse così, senza un briciolo di tatto. Forse non conosceva la mia situazione o forse non le importava. Forse credeva che l'avessi voluto, che ne fossi felice. Invece mi sentivo soffocare. Il mio cuore perse un battito non appena pronunciò quella frase, lacrime amare e rabbiose cominciarono a bagnarmi le guance, caddi in uno stato profondo di trance. Non sentivo più nulla. Il vuoto intorno a me. Sentivo freddo e non avevo neanche la forza per trovare una via d'uscita. Non la volevo trovare.

Incinta...

Incinta del mio aguzzino...

Com'era possibile? Perché Dio mi puniva così?

Che cazzo avevo fatto di male per meritarmi questo?

Era un dannatissimo bambino cazzo. Il figlio del mio carnefice.

Incinta...

Non potevo crederci. Non volevo crederci. Avevo dentro di me un bambino creato da quell'essere, con le sue fattezze, con il suo DNA, con il suo carattere probabilmente. Stava crescendo nel mio ventre e io gli stavo dando la vita. Non era vero. Non doveva essere vero.

«Signorina, si sente...» la dottoressa si avvicinò cautamente e mi sfiorò il braccio. Quel leggero tocco mi risvegliò dall'incubo che stavo vivendo a occhi aperti.

«Non mi tocchi!» le dissi senza lasciare che terminasse la frase. Mi ritrassi alla svelta, indietreggiai comprendo la pancia e come una furia la guardai dritta negli occhi.

«Mi tolga subito questo coso dalla mia pancia! Non lo voglio. Non voglio niente di lui, men che meno un figlio. Non basta quello che mi ha fatto, ora devo anche sorbirmi questo?» iniziai a ridere nervosamente «Qualcuno probabilmente si starà prendendo gioco di me lassù» dissi indicando il cielo. «Mi porti subito in sala e si sbarazzi di questo bambino o giuro che troverò il modo di farlo da sola» finii di dirle con gli occhi rossi iniettati di sangue. Sentivo la rabbia scorrermi nelle vene, il cuore che pompava sempre di più e la furia irruenta propagarsi in ogni parte del mio corpo. Avrei potuto spaccare il mondo in quel momento e avrei tanto voluto poterlo fare. Avrei voluto uccidermi. Farla finita in quell'istante esatto, cancellare tutto il dolore che stavo provando, dimenticarmi di tutto il male che la vita mi aveva donato indesideratamente. Volevo morire con il figlio del mostro che si evolveva al mio interno.

«Facciamo così, posso darle del tu?» mi chiese a bassa voce mentre se ne stava di fronte a me con le mani alzate, come per difendersi da un mio imminente attacco. La guardai e annuii.

«Bene, ora ti metti un attimo qui seduta,» disse avvicinando una sedia in mia direzione «io vado a chiamare tuo padre e ne parliamo tutti e tre insieme, ok?». Annui di nuovo, mi sedetti e la vidi sparire dietro una porta. Tornò dopo vari minuti con lui appresso. Gliel'aveva già detto, ne ero sicura. Lo capii dal suo sguardo e dal suo volto rigato di lacrime che aveva cercato invano di far sparire. Si sedette accanto a me e mi prese per mano. Il suo tocco era l'unico che riuscivo a sopportare, l'unico che riusciva a calmarmi, l'unico che potevo accettare. Scoppiai a piangere sulla sua spalla.

«Papà... un figlio suo. Non posso,» dissi singhiozzando «non credo di potercela fare».

Mio padre mi accarezzò dolcemente la testa, rimaneva in silenzio, mi lasciava parlare senza emettere fiato. Così io continuai.

«Ti rendi conto? Io non sono abbastanza forte per sopportare anche questa. Dopo tutto quello che è successo non riuscirei neanche a guardarlo negli occhi questo bambino. Ti prego... di qualcosa». Era una supplica. Doveva decidere lui cosa fare, io non ne ero in grado. Come potevo esserlo? Ero solo una bambina. Una bambina che avrebbe dovuto crescere un bambino. Che idiozia.

Mi prese il viso tra le sue mani calde e vellutate, appoggiò la sua fronte sulla mia e sottovoce mi disse: «Amore mio, so che è difficile ma io non posso decidere per te. Posso dirti solo che ti starò accanto qualsiasi cosa deciderai. Se non vorrai tenerlo ti accompagnerò in sala e sarò lì a tenerti la mano, in caso contrario ti prometto che sarò un nonno presente e ti aiuterò in qualsiasi momento.» mi dette un bacio e una dolce carezza, sfoggiò un timido sorriso e continuò «Prenditi un paio di giorni per decidere, non essere precipitosa».

Guardai la dottoressa e anche lei fù d'accordo con le parole di mio padre, mi dette appuntamento alla settimana dopo e mi consigliò di pensarci seriamente. A detta sua c'erano infinite possibilità che dovevo considerare. Nella mia testa però ormai non la ascoltavo neanche più. Avevo sette giorni per decidere. Tenerlo o non tenerlo. Amarlo o non amarlo. Ucciderlo o dargli la vita. Crescerlo o darlo via...

Questi dubbi mi rimasero in testa per l'intera settimana. Non mi mossi dal letto neanche per andare a mangiare o per lavarmi. Puzzavo. Indossavo le stesse mutande da chissà quanto tempo. Non avevo mai toccato il fondo come in quei giorni. Mio padre era sempre più preoccupato, aveva paura che potessi fare una sciocchezza ma non aveva capito che ormai ero diventata un'ameba. Me ne stavo ferma lì, tra pianti disperati, dolori e incazzature, tra oggetti rotti e calmanti, tra nausee e lacrime. Non riuscivo a decidere. Lo amavo e lo odiavo. Che madre avrei potuto essere? Non ero in grado di accudire me stessa, figurarsi un bambino. Fu così che decisi di abortire.

Il giorno programmato per il raschiamento arrivò. Mio padre come aveva promesso era lì accanto al mio letto, piangeva, non riusciva a contenersi, in cuor suo forse sperava che non l'avrei fatto. Mi fecero un'ecografia di controllo prima di procedere, fu allora che lo vidi per la prima volta. Sul monitor vidi apparire un immagine strana, sembrava un alieno più che un bambino sinceramente. Se ne stava lì, appollaiato attaccato al cordone, noncurante di quello che sarebbe successo. Non poteva saperlo che da lì a poco sarebbe... morto. Sembrava sereno. Stupidamente cercavo una qualche somiglianza con il mio aguzzino. Era troppo presto per vederlo, però volevo trovare un qualcosa che non andasse, per giustificare ciò che stavo per fare. Il mio vecchio di fianco a me osservava quell'immagine, non so a cosa stesse pensando ma negli occhi aveva una luce particolare, come se fosse felice. Ero confusa. Sapevo di essere convinta di volerlo fare e anche lui ne era al corrente, perché lo guardava in quel modo? Sarebbe stato solo più difficile lasciarlo andare. Ad un certo punto però nella stanza iniziò a rimbombare un suono. Era un cuore. Andava velocissimo, sembrava impazzito. Era il suo, quello del mio bambino. Sorrisi. In quel momento mi resi conto di stare respirando, erano giorni che mi sentivo come se fossi in apnea in ogni attimo, ma non in quell'istante. Sentivo aria fresca entrare nei miei polmoni e scorrermi dentro, arrivare in ogni mio organo, passare nel mio corpo. Fu lì che capii. Quel bambino era la mia aria. Fresca, pulita e innocente. Non potevo abbandonarlo. Senza di lui non avrei respirato mai più.


Oggi.


Cretina. Idiota. Stupida. Polla. Credulona. Imbecille.

Cretina. Idiota. Stupida. Polla. Credulona. Imbecille.

Cretina. Idiota. Stupida. Polla. Credulona. Imbecille.

Cretina. Idiota. Stupida. Polla. Credulona. Imbecille.

Cretina. Idiota. Stupida. Polla. Credulona. Imbecille.

Queste erano le sole parole che mi venivano in mente per descrivermi. Ero in macchina e piangevo come una cretina nel parcheggio del supermercato. Mi fermai lì perché non ero in grado di guidare oltre, quello era il primo spiazzo libero che ero riuscita a trovare mentre tornavo verso casa. Le mani mi tremavano, il cuore mi batteva a mille e la rabbia si faceva sempre più intensa. Ero stata una cretina, idiota, stupida polla credulona e oltretutto imbecille. Ma come avevo fatto a cascarci con tutte e scarpe? Ma dai. Come avevo creduto anche solo per un momento che un uomo come lui fosse realmente interessato a me? Specialmente dopo aver visto Giulia. Non c'era neanche paragone con me, al limite avrei potuto pulirle le scarpe. Pensavo di aver conosciuto un uomo e invece era solo un ragazzino. Mi aveva sicuramente usata per farla ingelosire visto e considerato che lei l'aveva tradito. Un modo per vendicarsi insomma.

La mia mano iniziò a sanguinare dopo l'ennesimo pugno tirato al volante e non avevo nulla per pulirmi. Utilizzai una maglia di Arya che avevo nel sedile posteriore e me la legai intorno a mo' di fasciatura. Guardai l'ora e mi resi conto che mancava poco all'uscita di mia figlia dall'asilo. Avevo chiesto a mio padre di andare a prenderla ma avevo bisogno di stare con lei, di sentirla ridere tra le mie braccia, di respirare il suo profumo. L'avevo trascurata in quei giorni e mi sentivo una pessima madre per averlo fatto. Per cosa poi? Per uno stupido uomo che mi aveva solo presa per il culo. Il giorno in cui avevo deciso di tenerla mi ero ripromessa di metterla sempre al primo posto in tutto e invece non l'avevo fatto. Lei non se lo meritava, proprio lei che era l'unica ragione di vita per me.

Ingranai la prima e iniziai a correre verso Borgo. Per mia fortuna arrivai appena in tempo per l'apertura dei cancelli. Quella giornata l'avrei passata con lei, mi sarei fatta perdonare per la mia assenza, anche se era troppo piccola per capire. La portai al parco a giocare con le papere del laghetto, la portai a mangiare un gelato e a giocare con i gonfiabili. Rientrammo solo a ora di cena. Mio padre aveva già preparato tutto, così ci sedemmo a mangiare.

«Sai nonno abbiamo vitto le papere? Hanno mangiato il nostro pane. Poi la mamma mi ha comprato il gelato e io mi sono spoccata tutta la maglia» a modo suo gli raccontava il nostro pomeriggio intenso.

Era così felice. Anche io lo ero. Non avevo bisogno di un uomo qualunque per essere serena, avevo solo bisogno di lei. La mia Arya. Il mio ossigeno puro. Le detti un bacio con le lacrime agli occhi e guardai mio padre, ci capimmo con un solo sguardo. Lui mi sorrise. Sapevo che valeva la stessa cosa anche per lui, lei era l'unica di cui avessimo bisogno. Il resto non contava più niente né per lui né tanto meno per me. 

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