-17: Piacere, Giulia.
Edoardo
Sentii il suono del citofono rimbombare al piano di sotto. Una. Due. Tre. Quattro volte. Quel maledetto mi aveva appena strappato dal mio sonno profondo. Non avevo la forza di alzarmi dal letto, né tanto meno di aprire gli occhi e vedere che ore fossero. Nella testa un dolore pulsante piano piano si faceva strada, in bocca avevo il sapore amaro dell'alcol, il mio olfatto sentiva un odore acre di vomito, un senso di nausea mi attanagliava le viscere ed ero completamente nudo sotto le coperte del letto. Stavo morendo di freddo nonostante fosse piena estate. Dio, non ricordavo nulla di ciò che avessi fatto la sera prima. Che diavolo avevo combinato? L'ultima cosa che ricordavo era la litigata con Rebecca, il giro in centro a Firenze e poi niente. Vuoto totale.
Incapace di compiere qualsiasi movimento senza che il senso di vomito tornasse alla riscossa, rimasi immobile nella posizione in cui mi trovavo e mi addormentai nuovamente.
Mi risvegliai che era notte fonda. Mi alzai e dondolai verso la cucina, al piano di sotto, in cerca di una bottiglia d'acqua fresca che calmasse l'arsura che mi si era propagata in gola. Nonostante avessi dormito praticamente per l'intera giornata, il mal di testa era sempre presente, pronto a farmi scontare la pena per essermi ubriacato al punto da avere un blackout sulla serata post Rebecca.
Afferrai il cellulare e, mentre sorseggiavo una tazza di tè fumante, lo accesi. Arrivarono migliaia di notifiche sulla schermata del display, tra cui messaggi e chiamate. Purtroppo però non potevo sapere da chi provenissero queste ultime ma immaginai che fossero di Manuela, la mia segretaria. Una risata impetuosa si fece strada sul mio viso quando realizzai di aver fatto ''forca'' a lavoro. Non mi era mai successo in tutta la mia carriera lavorativa, ci voleva giusto una certa ragazza per farmi perdere la testa del tutto. Mi sentivo uno stupido. Se qualcuno mi avesse detto che avrei incontrato la donna giusta e mi sarei ridotto così a causa sua gli avrei fatto una bella risata davanti. Era troppo chiedere una gioia anche per me ogni tanto? Mi sembrava come se gran parte della mia vita fosse una barzelletta, come se qualcuno se la spassasse alla grande a vedere me districarmi tra tutti quegli scherzi del destino che mi si paravano davanti continuamente.
Mandai un messaggio a Matteo chiedendogli di fare colazione insieme la mattina seguente, ovviamente non mi aspettavo una risposta data l'ora ma sapevo che lo avrebbe letto appena sveglio e che sarebbe venuto senza alcun dubbio.
Dato che avevo dormito tutto il giorno non avevo per niente sonno, lo stomaco continuava a gorgogliare e la testa, nonostante l'aspirina presa, non smetteva di pulsare. Mi misi sul divano a guardare ''How i meet your mother'' alla televisione anche se in realtà ero talmente in trance che non riuscivo a seguire mezza parola di ciò che dicevano, tuttavia non volevo tornare a letto e fissare il soffitto per il resto della notte. Alla fine, come prevedibile, mi addormentai lì e mi risvegliai che era mattina presto. La luce del sole entrava dalle tapparelle e mi batteva precisa sugli occhi, mi sentivo meglio anche se avevo dormito a malapena un paio d'ore ma a quanto pare dopo il coma del giorno precedente erano più che sufficienti. Mi gettai sotto l'acqua bollente della doccia e mi sentii rinascere, i muscoli si distesero, il tocco del bagno schiuma mi donò un senso di pace, tanto da credere per qualche momento che gli ultimi due giorni fossero stati un'allucinazione. Almeno fino a quando non pensai a Rebecca. Eh no, era tutto vero, purtroppo.
Matteo come previsto mi dette appuntamento alle otto al solito bar dove eravamo soliti ritrovarci, distava qualche minuto a piedi da casa mia, così mi vestii, indossai un paio di occhiali da sole per coprire le occhiaie e uscii.
Era una giornata bellissima, faceva già molto caldo, gli uccelli cantavano a squarciagola, il sole brillava in cielo e il suo riflesso si incastonava nell'acqua dell'Arno. Le persone intorno a me, per le vie di Firenze, mi sembravano come delle formiche impazzite poiché correvano come matte chi per portare a scuola i figli, chi per andare a lavorare, non si rendevano neanche conto della bellezza che le circondava. Poi c'ero io invece che con tutta la mia tranquillità me la prendevo comoda. Tenevo una mano nella tasca dei jeans, l'altra era impegnata ad avvertire Manuela che non ero morto ma che mi sarei presentato in ufficio dopo un paio d'ore, i capelli sbarazzini mossi dal vento e fischiettavo un motivetto che avevo sentito alla radio quella mattina. Probabilmente gli altri mi stavano odiando, come dargli torto. Io amavo il mio lavoro anche perché potevo gestirmi gli orari come meglio credevo, senza rendere di conto a nessuno e soprattutto senza corse mattutine.
Quando arrivai nel luogo dell'appuntamento il mio migliore amico era già lì ad aspettarmi.
«Che diavolo hai fatto? Hai un aspetto pietoso?» disse Matteo sghignazzando sotto i baffi.
«Carino come sempre eh!» Risi. «Dovevi vedere com'ero prima della doccia».
«Posso immaginare!» mi rispose ridendo anche lui.
Ci sedemmo a un tavolino e ordinammo la colazione a Clarissa, una nostra vecchia compagna di scuola nonché la mia prima cotta segreta. Lei non mi aveva neanche mai guardato. Ai tempi ero paffutello e con gli occhiali, la mia passione erano i libri, la playstation e non uscivo mai di casa. Uno sfigatello insomma. Da un paio d'anni però, sarà perché mi ero messo in forma, sarà perché aveva scoperto che l'Edale era mia, mi faceva continuamente gli occhioni dolci. Non sarebbe stata neanche male come ragazza, anzi era molto bella, nel mio cuore però c'era solo lei. Rebecca.
Raccontai a Matteo cosa fosse successo nelle ultime quarantotto ore e lui, come prevedibile, rimase scioccato dalla scoperta di Arya. Non ero l'unico quindi che non se lo aspettava. Il problema, se così si poteva chiamare, non persisteva dato che dubitavo fortemente che dopo la litigata furiosa l'avrei più rivista. Era l'ora che mi mettessi il cuore in pace.
Rise come un pazzo per il fatto che non ricordassi il continuo della serata e soprattutto che mi fossi risvegliato nudo nel letto.
«Oh, ma non ti sarai mica portato una a casa e non vuoi dirmelo?» continuava a ridere mentre mangiava la brioche e sputacchiava pezzi di quest'ultima tra una risata e l'altra.
«Sei disgustoso, lasciatelo dire! Non potrei mai andare a letto con un'altra. In questo momento ho in testa solo lei, penso solo a lei, la sogno di notte, mi immagino il suono della sua voce e della sua risata, mi passa continuamente davanti agli occhi anche se non c'è. Ti dirò di più, mi farebbe quasi schifo toccare il corpo di un'altra donna che non sia lei» gli dissi guardando il vuoto sognante.
«Mi sta venendo il diabete amico. Che hai fatto al mio migliore amico? Non sei tu. Rendimelo subito indietro!» fece cenno con le mani a mo' di X contro qualche spirito malvagio che secondo lui si era impossessato del mio corpo.
«Sii serio per una volta, cretino!» gli risposti ridendo e lanciandogli un fazzoletto di carta che avevo trasformato in pallina per l'occasione.
«Palloso. Va bene, quindi? Che farai ora?» mi disse questa volta con tono serio.
«Credo che aspetterò che sia lei a farsi sentire questa volta, non posso sempre essere io a correrle dietro». Era esattamente quello che avrei fatto, avrei aspettato che tornasse da me. Come diceva Jim Morrison: «Se ami qualcosa lasciala libera di andare via, solo se torna sarà veramente tua».
Ciò che non sapevo in quell'istante era che non avrei dovuto aspettare poi chissà quanto in realtà.
Un paio d'ore più tardi, in ufficio, mentre sbrigavo alcune pratiche per l'uscita dei modelli di bikini e sorseggiavo un caffè, sentii bussare alla porta. Con il cuore in gola e illudendomi che potesse essere Rebecca detti il permesso di entrare, rimanendoci male nell'istante dopo l'ingresso del mio ospite. Era Giulia. La scocciatrice di prima categoria nonché ex fidanzata non riusciva a lasciarmi per una giornata intera in pace.
«Che vuoi?» le risposi secco senza alzare neanche la testa nella sua direzione.
«Bene, vedo che siamo tornati alla normale acidità» mi rispose sorridendo.
«Che vuol dire? Non capisco». Aveva una strana espressione in viso, come di vittoria. Non ne intuivo il motivo in realtà. Quando mai non ero stato acido con lei dopo ciò che aveva fatto? Mai. Di cosa si stupiva?
«Perché ieri non sei venuto in ufficio? È per caso successo qualcosa di particolare?» mi chiese girando intorno al tavolo e avvicinandosi a me anche fin troppo per i miei gusti. Mi appoggiò la mano sulla spalla per girarmi nella sua direzione e un luccichio malefico passò tra i suoi occhi.
«Nulla che ti riguardi, puoi stare tranquilla» le dissi allontanandola da me. Contemporaneamente sentii nuovamente bussare alla porta e il cuore fece un sobbalzo. Dovevo cercare di stare calmo, non potevo stare continuamente sugli attenti.
«Scusi il disturbo signor Angeli, c'è la signorina Rebecca per lei».
Oh cristo. Allora la sensazione che avevo avuto per tutta la mattina era vera. Lei era lì. Anche Giulia era lì però. Dovevo liberarmene il più in fretta possibile.
«Due minuti e falla entrare Manuela, grazie» dissi alla segretaria. Mi voltai poi in direzione della donna dai capelli a caschetto, cercando di mantenere la calma e non farmi sgamare, e la invitai a uscire dalla stanza. Aveva in volto un'aria strana, pensierosa, anche se sempre con un sorrisetto malefico sotto i baffi. Non capivo cosa stesse architettando, la cosa certa era che qualcosa mi puzzava e dovevo scoprirlo per ridurre il danno che avrebbe sicuramente scaturito. Uscì senza dire una parola, sculettando come suo solito, mi guardò un'ultima volta sull'uscio sorridendomi beffarda e scomparse. Ci voleva un genio per capire le sue intenzioni. Quella donna era come un maledetto cubo di rubik che non sarei mai riuscito a finire.
Giulia
Bene. Bene. Bene. Rebecca. Non appena sentii quel nome capii tutto all'istante. Edoardo si era subito agitato sentendola nominare e io ero uscita senza dirgli niente. Tra l'altro si era scordato della notte che avevamo passato insieme e per questo gliela avrei fatta pagare. Eccome se lo avrei fatto. Mi nascosi nella stanza di fronte al suo ufficio aspettando che passasse la sgualdrinella che pensava di potersi rubare il mio fidanzato, volevo vederla nel viso. Non l'avrebbe scampata liscia. Non appena passò la riconobbi subito. Era la ragazza che avevo visto fuori dalla porta di Edoardo la mattina precedente. Tutto mi fu chiaro improvvisamente. Non appena entrò, controllai che non ci fosse nessuno nei paraggi e mi accostai alla porta per origliare cosa si stessero dicendo.
«Ciao Edo, sono passata giusto un attimo perché devo scappare» disse lei.
«Ciao... Non preoccuparti. Siediti pure». Aveva un tono così dolce che sarei voluta entrare e fare una scenata con i fiocchi. Alla fine sapevo che avrei dovuto giocare d'astuzia, dovevo mettere da parte i miei istinti e concentrarmi su quello che stavo per fare. Sentii Rebecca chiedergli se si sarebbero potuti vedere la sera perché aveva tante cose da raccontagli e da spiegargli. Edoardo acconsentì. Fissarono per vedersi a casa di lui la sera a cena. Sinceramente dubitavo che Rebecca ci sarebbe arrivata, almeno non dopo quello che avevo in mente di fare. Gli avrebbe dato buca e mi sarei presentata io al posto suo.
Mi avviai all'uscita dell'azienda e aspettai che lei uscisse dalla parta principale per andare via. Non appena la vidi arrivare feci finta di parlare al telefono e andai a sbatterle addosso di proposito lasciando cadere il telefono per terra.
«Oh dio mi scusi, che sbadata che sono. Mi dispiace tanto. Se si è rotto glielo ricompro» mi disse lei chinandosi a raccogliermelo. Non appena alzò gli occhi verso di me però sbiancò in viso. Sembrava avesse visto un fantasma. Mi aveva riconosciuta, ne ero certa. Dovevo ammettere che era una bella ragazza comunque, non potevo credere però che Edoardo preferisse tanta mediocrità quando poteva avere me. Bisognava essere obbiettivi. Non c'era paragone fra me e lei. Mi avrebbe ringraziato un giorno per avergli fatto il favore di disfarmi di lei al posto suo. Gli stavo risparmiando la fatica di farlo da solo.
«Non si preoccupi, è tutto a posto. Ma...», le dissi stringendo gli occhi e facendo finta di pensare a qualcosa «Io e lei non ci siamo già viste da qualche parte?».
«No, non direi», mi rispose fredda.
«Beh allora mi presento. Piacere Giulia. La fidanzata di Edoardo, il proprietario di questa azienda. Era qui per lasciare un curriculum?». Boom. Le avevo lanciato la bomba addosso e gli effetti erano devastanti. Una lacrima le rigò il viso che prontamente scacciò con la mano cercando di non farsi vedere. Mi guardava dritta negli occhi, era scioccata, basita, incredula. Io, d'altro canto, ero così felice di essere riuscita nel mio intento. La vidi correre via come un lampo durante una notte di tempesta e io rimasi lì con un sorrisetto stampato in viso e orgogliosa della vittoria che mi ero appena guadagnata.
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