- 1: Una nuova me


Att. nel corso di questo capitolo vengono fatti riferimenti a scene forti

Rebecca.

Stavo correndo a piedi nudi nel parco, qualcuno mi era alle calcagna e mi rincorreva ma io non riuscivo a distinguere chi fosse. Sentivo solo la sua voce che mi diceva «dove vai? Non puoi scappare da me». Tutto sembrava offuscato, era buio e non sapevo nemmeno dove stessi andando, mi sembrava di essere passata da quel punto altre volte, come se stessi girando intorno. Come se non ci fosse via di scampo. I piedi mi facevano male, le gambe tremavano, ero stremata, ma continuavo a correre per paura che la voce mi raggiungesse. La sentivo sempre più vicina, sempre più intensa, non riuscivo a seminarla. A un certo punto trovai un piccolo nascondiglio tra le frasche, mi ci catapultai dentro senza pensarci due volte. Silenzio. Sembrava che la voce fosse passata oltre. Silenzio. Buio. La tensione era sempre più forte, il rumore del mio cuore mi rimbombava nelle orecchie. Passavano i minuti, nulla. Silenzio. Sicura che non ci fosse più, uscii allo scoperto pronta per tornare a casa. Dov'era la mia casa? Come facevo a tornare? Mi incamminai verso un sentiero sterrato. Ogni cosa intorno mi metteva i brividi, persino gli alberi. Il vento che soffiava tra le foglie creava un fruscio inquietante. Chissà se la voce se n'era davvero andata. Continuavo a camminare senza sosta, anche se avevo la netta sensazione che qualcuno mi stesse guardando. Silenzio. Improvvisamente qualcuno mi acchiappò da dietro.

Aprii gli occhi e mi resi conto che era tutto un sogno, ero nel mio letto, al sicuro in camera mia, il sole era appena spuntato e faceva entrare i suoi lievi raggi dalla finestra, gli uccellini fuori cantavano a squarciagola, la primavera dava il suo buongiorno, il mio cuore continuava a battere fortissimo per la paura ed ero tutta sudata. Cercai di convincermi a stare tranquilla, che fosse tutto a posto. Nulla. Quel sogno sembrava così vero. Così intenso. Basta Reb, alzati e non pensarci. Dicevo tra me e me.

Mi alzai dal letto e andai in bagno a farmi una doccia. Mi guardai allo specchio e osservai i solchi neri che si facevano sempre più strada sotto i miei occhi. Le occhiaie si stavano impadronendo di me! Ormai dormivo male ogni notte, gli incubi prendevano sempre più il sopravvento. Ero ogni giorno più stanca. Avrei voluto rimanere in pigiama a oziare tutto il giorno sul divano. No Reb, non puoi lo sai. Persino la mia coscienza mi dava contro ormai, ma ovviamente aveva ragione, avevo delle responsabilità e sicuramente non potevo farmi abbattere da qualche brutto sogno. Coprii tutto con il fondotinta in modo che mio padre non si preoccupasse e scesi in cucina.

«Buongiorno papà, come stai?». Era seduto al tavolo, ancora in pigiama, i capelli bianchi arruffati e le pantofole ai piedi, con una tazza di caffè in una mano e nell'altra la Gazzetta dello Sport intento a leggere le notizie calcistiche. Uomini! Starebbero giornate intere a leggere di calcio.

«Buongiorno tesoro, come hai dormito stanotte? Ho sentito che ti sei alzata parecchie volte, ancora incubi?» disse con tono preoccupato.

«Stai tranquillo, passeranno con il tempo. Tre anni non bastano per dimenticare tutto ciò che è successo ma me la cavo, lo sai...C'è del caffè pronto?» chiesi per distogliere l'attenzione dal solito discorso che ormai avevo sentito e risentito. Se c'era una cosa che sapevo di mio padre era che non lasciava mai perdere un discorso, anche se questo voleva dire ripetere le stesse frasi ogni mattina e sentirsi dare ogni volta le medesime risposte. Da che pulpito poi, da quando mamma non c'era più non aveva mai rivolto parola a una donna neanche per sbaglio.

«Reb, certo che mi preoccupo. Devi andare avanti, almeno provaci. Non puoi solo dedicarti alla famiglia e al lavoro, hai vent'anni. Dovresti uscire, vedere Elisa più spesso, andare al cinema o che so, andare nei bar la sera. Fare shopping. Pensare a te. Non devi chiuderti al ristorante per sempre».

«Papà sono felice così, te l'ho ripetuto tante di quelle volte. Sto bene, non ho bisogno di tutte quelle cose, ho te, il ristorante e... a proposito, puoi accompagnare tu Arya all'asilo?» dissi guardando l'orologio e sorseggiando il caffè « ho un appuntamento alle nove dalla Dottoressa Masini e sono già in ritardo ».

«Certo amore, ci penso io, vai pure ».

«Va bene, grazie papà». Finii di fare colazione, afferrai la borsa, le chiavi della macchina e uscii di casa.

***

Varcai la soglia di quella casa che ormai conoscevo fin troppo bene e mi invase l'odore familiare di vaniglia che fuoriusciva dalla candela posta all'entrata.  Venivo qui tre volte a settimana da tre lunghi anni. Conoscevo qualsiasi odore o colore di quel posto che aveva protetto i momenti più difficili della mia vita. Aspettai la Dottoressa sul divanetto blu in sala d'attesa e come ogni volta mi perdevo a guardare le fotografie raffiguranti paesaggi appese alle pareti. Viaggiare era uno degli hobby preferiti della mia psicoterapeuta e io rimanevo stupita dai posti magnifici che era riuscita a visitare. In sottofondo riecheggiava la musica classica di Beethoven, sapevo che era lui solo perché Francesca me l'aveva detto. Lei pensava che fosse un ottimo modo per rilassarsi prima della seduta, in realtà a me non faceva per niente questo effetto, anzi, più aspettavo e più mi innervosivo. Guardai il cellulare ed erano le nove in punto quando la vidi spuntare dalla porta dello studio.

«Ciao Rebecca, accomodati pure» mi disse con il suo solito tono vellutato e con il suo dolce sorriso.

La salutai e andai a sedermi al mio posto. La stanza non era troppo grande ma ben disposta e ordinata, c'erano due poltrone in pelle marrone una di fronte all'altra separate solo da un tavolino in ferro e vetro. Sopra a esso erano ben disposti dei libri, due bicchieri, l'acqua e il thermos del caffè. Su una parete erano installati due scaffali in legno pieni zeppi di libri più o meno vecchi mentre sulle altre tre erano appesi quattro quadri che raffiguravano degli effetti ottici. La finestra aveva una grande tenda bianco sporco e dava su un cortiletto molto ben curato dove dei bambini stavano giocando a pallone. Io seduta lì mi sentivo come a casa. Tutto intorno a me emanava calore e dava un senso di tranquillità e beatitudine.

«Bene, dimmi un po', come stai quest'oggi?».

Sicuramente aveva già intuito che qualcosa non andava, lo capivo ormai da come mi guardava con quei suoi occhi colore dell'erba da sotto gli occhiali. Non sapevo come facesse ma mi leggeva dentro, bastava uno sguardo e sapeva se quella per me sarebbe stata una buona giornata o meno.

«Insomma, stanotte ho fatto un altro incubo» le dissi mentre con le mani mi grattavo sull'unghia in segno di nervosismo.

«Ti ascolto» mi disse sorridendomi.

Glielo riferii. Lei cercò di farmi capire cosa poteva significare, anche se io già lo sapevo benissimo. Avevo paura che lui potesse comparire all'improvviso, che finisse di scontare la pena che gli avevano assegnato e tornasse da me.

«Raccontami cosa successe i giorni seguenti lo stupro, se ce la fai» mi rispose con tono dolce.

Mi bloccai, era difficile per me pronunciare quelle parole ma sapevo che se me lo stava chiedendo aveva delle buoni ragioni. La guardai mentre si legava i capelli neri in una crocchia e si mise in posizione pronta per ascoltarmi e prendere appunti.

«Va bene» dissi titubante. « Dei giorni seguenti quella fatidica notte ricordo poco in realtà. Al mio risveglio in ospedale ero confusa, avevo la testa in fiamme e dolori lungo tutto il corpo. Respiravo a fatica e non riuscivo ad aprire gli occhi perché non sopportavo la luce del sole. C'era mio padre accanto al letto che singhiozzava e pregava ma io non riuscivo a dire una sola parola per consolarlo. Solo quando mi sono ripresa mi disse come erano andate davvero le cose. Ero stata drogata, Luca aveva premeditato di portarmi al parco, si era fatto aiutare dai suoi amici per trascinarmi tra gli alberi, gli altri mi tenevano ferma mentre lui abusava di me. Dopo di ché mi avevano lasciata lì, sola, nuda e sanguinante. La mattina dopo un signore che stava portando il cane a fare una passeggiata mi aveva trovata lì distesa priva di sensi e aveva chiamato l'ambulanza. Il resto è storia. Mi avevano diagnosticato un leggero trauma cranico, due costole rotte probabilmente dai calci che mi avevano tirato, contusioni varie e tutto quello che ne conseguì» dissi tutto d'un fiato. Tirai indietro le lacrime, cercavo di non piangere ma quei ricordi erano ancora troppo dolorosi.

«E Luca? Lo hai rivisto?».

«Sì, l'ho incontrato al processo. Ricordo ancora gli occhi rabbiosi con cui mi guardava mentre il giudice dichiarava la sentenza dopo la mia denuncia. Io non riuscivo a trattenere la gioia, ero contenta che non avrebbe mai visto mia figlia e che non potesse avvicinarsi a noi. D'altro canto però nel corso degli anni ho ricevuto delle lettere da parte sua. Con che coraggio poi! Si rende conto! Non so come abbia fatto a scoprirlo ma sapeva di Arya. Mi chiedeva scusa e mi supplicava di portarla in carcere per fargliela conoscere. Ovviamente non l'ho mai fatto. Non voglio che faccia parte della nostra vita. Lui è un mostro. E non si dovrà mai avvicinare a lei per nessuna ragione al mondo».

«E Arya invece? Chiede di suo padre? Sa chi è?».

«No, lei ovviamente non sa niente di suo padre, ha chiesto solo una volta di lui, ma io ho cambiato subito discorso distraendola con un gioco. Per fortuna si è dimenticata di richiedermelo. Non so come affrontare il discorso con lei è ancora così piccola. Come posso dirle chi è davvero suo padre? Secondo te sto facendo la cosa giusta?».

«Tu devi fare ciò che ritieni opportuno Rebecca, senza dubbio un giorno dovrai dirglielo ma sarai tu a decidere la modalità quando ti sentirai di affrontare questo discorso con lei. L'importante è che tu sia sincera nei suoi confronti. I bambini sono molto intelligenti, capirà che non hai voglia di parlarne».

Non appena suonò la sveglia in segno che la seduta era terminata, fissammo di rivederci dopo due giorni alla stessa ora. Uscii e salutai quella signora che, con i suoi quarantacinque anni d'età e venti di esperienza nel suo campo, era riuscita, nel corso del tempo, a guadagnarsi la mia fiducia, cosa che ormai succedeva di rado.

Dopo essere salita in macchina, mi diressi verso il supermercato per comprare la spesa che sarebbe servita al cuoco del ristorante la sera. Guidavo con disattenzione. Non riuscivo a pensare ad altro che non fossero le parole di Francesca e a come fosse andata la seduta. Era stato così difficile rivivere quei momenti, doloroso come il primo giorno. Come poteva il passato rovinarmi così le giornate? Forse dovevo dare retta a mio padre e svagarmi davvero di più. Mi ripromisi di chiamare Elisa la sera stessa dopo la chiusura del turno. All'improvviso, intenta com'ero a pensare a un discorso da farle per farmi perdonare dopo mesi che non mi facevo viva, tamponai un uomo in moto che si era fermato davanti a me. Che giornata del cavolo che era. Non ne andava una giusta.

Scesi a vedere che avevo combinato. La mia macchina era intatta, neanche un graffio. Mi girai verso il ragazzo per vedere se stesse bene ma lui si alzò di fretta e furia dicendo che non si era fatto niente, che stava bene e che doveva scappare a lavorare di corsa. In men che non si dica era di nuovo in sella alla moto. L'unica cosa che notai attraverso la visiera del suo casco fu l'azzurro mescolato al verde dei suoi occhi. Non avevo mai visto un colore così. Bellissimi.

«Sicuro che sta bene? La porto in ospedale per sicurezza almeno la controllano. Mi dispiace tanto. Ero sovrappensiero, non avevo visto che si era fermato » dissi veramente in pena e confusa dalla reazione di lui.

«Non si preoccupi, davvero, sto bene. Sono sicuro che avrà tanti impegni quanti ne ho io, non sprechiamo tempo».

«Ehm va bene, come desidera» presi un pezzo di carta dalla macchina su cui scrissi il mio numero di cellulare e glielo porsi «allora io vado, se ha bisogno di qualsiasi cosa non esiti a contattarmi» gli dissi.

«Grazie mille, arrivederci» prese il numero di telefono, si voltò senza neanche guardarmi, accese la sua moto e partì.

Certa gente è proprio strana. Pensai tra me e me. Mi rimisi in macchina e partii ancora scioccata da quanto accaduto.

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