53. Cicatrici

Che fai ? Ti caghi sotto ad entrare in casa tua?
Si, e anche tanto.
Ero davanti alla porta di casa mia da almeno 15 minuti, forse anche di più.

Tutte le volte che avvicinavo il dito al campanello, l'attimo prima di suonare, lo ritraevo di scatto. Non avevo ragioni per essere spaventata da quel ritorno, eppure qualcosa dentro di me mi impediva di trovare il coraggio necessario per suonare quel dannato campanello.

L'unica che doveva vergognarsi era mia madre, lei si che avrebbe dovuto farlo.
Non avrei mai potuto perdonarla, nemmeno volendo. Era qualcosa che andava oltre le mie capacità, non riuscivo a fidarmi di me stessa come potevo farlo con gli altri?
Chi mi assicurava che una volta perdonata non mi avrebbe fatto male di nuovo? Che non mi avrebbe ripudiata ancora? Nessuno, ed era proprio quella consapevolezza a farmi desistere.

Da piccolina facevo di tutto per compiacerla e nel tempo, anche se in modo differente, lo avevo continuato a fare silenziosamente.
Tutti i giorni combattevo una guerra interiore, il problema era che non avevo la più pallida idea di come affrontarla o almeno tentare di farlo.
In quel momento nella mia testa quel conflitto era ancora più spietato.

"Al diavolo!" ingannai la parte più dubbiosa di me concedendo il trionfo a quella più impulsiva. I minuti che mi separarono dall'apertura di quella porta durarono un'eternità.
"Haely..." mia mamma mi squadrò da capo a piedi. Mi toccò una spalla per accertarsi che fossi vera. Dopo poco mi allontanai da quel contatto così strano per noi.

"Ciao"  la salutai senza troppe parole.
"Sei qui..." sembrava non crederci nemmeno lei che fossi lì, alla porta di casa.
Ero sicura che, in quei giorni in cui non c'ero stata, non avesse fatto altro che monitorarmi con la posizione che segretamente avevo volontariamente lasciato accesa. Nonostante tutto speravo che le importasse almeno un po' di me da riuscire ad apprezzare quel gesto.

La cruda realtà, però, era ben diversa dalle mie inutili speranze. Mia mamma aveva una ossessione maniacale per il controllo. Niente doveva sfuggire dal suo comando e io, da sempre, non avevo fatto altro che impedirglielo. Qualsiasi cosa lei dicesse di non fare io la facevo e questo la mandava fuori di testa. Ero sicura fosse uno dei tanti motivi per cui aveva sempre preferito e amato Margaret più di quanto sarebbe mai riuscita a fare con me.

"Sto congelando qui fuori" si moriva di freddo, era quasi novembre.
"Oh certo, vieni, entra" era l'ora, avevo dei polaretti al posto delle mani.
Posai lo zaino all'ingresso insieme alle scarpe. Poi mi diressi in cucina dove si trovava la donna che più temevo in quel momento.
"Non sapevo tornassi, per cena se vuoi ci sono un po' di avanzi" era chiaramente a disagio. Ero riuscita a smuovere la fredda Ellen White? Ero meravigliata, non l'avevo mai vista così in 17 anni di vita, sembrava quasi un miraggio. Poi, però, mi ricordai con chi stavo parlando.

"Tranquilla, ho già mangiato" il mio stomaco si era accartocciato su se stesso dopo quello che era successo in macchina e mangiare era l'ultimo dei miei pensieri.
"Oh okay, se vuoi, però, ti posso cucinare qualcosa" quella versione così apprensiva di mia mamma era falsa fino al midollo, dubitavo fortemente che fosse così gentile con me perché le ero mancata o stronzate del genere. Con me il suo istinto materno non si faceva mai vivo, non pensavo nemmeno fosse nato.

"Puoi smettere di recitare questa parte? Non ti si addice per niente" dissi prendendo una bottiglia d'acqua per versarmene un po' in un bicchiere.
"Quale parte?" le bugie di mia madre avevano tre fasi principali, o meglio, quelle che raccontava a me. Come primo step cambiava radicalmente per adattarsi alla sua parte, poi, in caso venisse scoperta, negava fino allo sfinimento e infine, quando si stancava di recitare, confessava facendosi passare sempre per la vittima, per il cagnolino bastonato.

"Certo, nega pure. Puoi evitartelo, davvero. Ti conosco, so come sei veramente. Con me mettere in atto le tue doti da attrice non serve, dovresti saperlo eppure sono anni che ti ostini a farlo" mi appoggiai al bancone posizionato al centro della cucina. Lei rimase sotto l'arco che dava accesso a quell'ambiente.

"Haely sono tua madre, è normale che io mi preoccupi per te" una risata tremendamente amara sfuggì dalle mie labbra.
"Non lo sei mai stata e lo sappiamo bene entrambe. Il tuo unico legame con me è quello puramente biologico" ero già stufa di farmi propinare le sue inutili scuse così me ne andai in camera mia, o almeno provai a farlo.

"Per favore parliamo" mi bloccò dal braccio.
"No, sono stanca, lasciami andare a dormire" non ero per niente propensa al dialogo.
"Ti racconterò tutto, qualsiasi cosa, di Elizabeth e del perché quegli uomini sono venuti a frugare a casa nostra" ecco la fase tre, con però un particolare in più: un celato ricatto. Avrei saputo quello che volevo solo se fossi rimasta ad ascoltarla.

Volevo con tutta me stessa saperne di più riguardo quelle questioni ma ero stanca, ero stufa di dover sempre aspettare i comodi degli altri per avere delle risposte, ero stufa di ricevere attenzioni solo quando sparivo, ero stufa di non essere mai la prima scelta di mia mamma, ero stufa di tutta la mia vita.
Quella volta non avrei abbassato la testa con lei, non mi sarei fatta calpestare di nuovo solo per cercare di costruire qualcosa di cui a lei non interessava e di cui non sarebbe mai interessato.

Non le ero mai piaciuta e dopo la morte, per mano mia, delle uniche due persone che mi difendevano il suo disprezzo aveva smesso di rimanere celato.

"Non mi interessa più" riuscii a sfuggire dalla sua presa e mi chiusi in quelle quattro mura prigioniera dei miei pensieri.
Mi interessava eccome, ma avrei trovato un altro modo per saperne di più. In quel momento le mie priorità erano comunque altre, prima di tutte aiutare Jen. Quella chiamata mi aveva resa inquieta. La sua voce era stata tremolante ed agitata e questo non presagiva nulla di buono.

Provai a farle qualche squillo, ma non ottenni risposta.
Dire che ero agitata sarebbe stato molto riduttivo. 
Feci una lunga doccia per tentare di far rilassare i miei nervi fin troppo tesi, ma non cambiò niente.
Mi misi un paio i leggings e una delle mie grandi felpone.

Amavo il freddo solo per le felpe. Potevo nascondermi dentro di loro senza che nessuno si accorgesse di nulla. Erano talmente grandi che sembravo quasi piccola in confronto.
Se non vedevo il mio corpo non potevo esserne disgustata tutte le volte che passavo davanti ad uno specchio.

Puoi anche nasconderlo, ma sotto rimarrà sempre quell'abominio.
Come sempre quella vocina si fece presente puntuale come un orologio

Mi rigirai un paio di volte nel letto e poi mi arresi all'idea di dormire.

Aspettai che mia madre spegnesse la luce e poi sgattaiolai silenziosamente in garage per tirare qualche pugno. Era troppo tempo che non mi sfogavo, che non riversavo tutto sul mio corpo.
Stranamente riuscii a non fare rumore scendendo.
Prima di iniziare mi tolsi la felpa rimanendo con la canottiera. La mettevo quasi sempre, sotto qualsiasi indumento.

La mia schiena era contornata di cicatrici e quella mi consentiva di coprirle. I vestiti, per me, avevano sempre il fine di nascondermi, ma la canottiera, in particolare, aveva quel compito. Quelle ferite erano la parte che più odiavo del mio corpo. Ogni singola incisione sulla mia pelle era un segno indelebile di quello che avevo fatto, della famiglia che avevo mandato in pezzi e dell'uomo che avevo reso polvere.

Senza perdere tempo iniziai a tirare i pugni al sacco. Non misi nulla per proteggere le mani, dovevo sentire il male che facevano quei pugni, le ripercussioni che quel dolore aveva sul mio corpo.
Quando sentii che il mio fisico non ce la faceva più mi arresi all'idea di dovermi fermare.
Le mie nocche erano sporche di rosso, quel rosso che ormai conoscevo bene. Il colore del sangue, di tutto quello che avevo fatto versare e che continuavo a versare.

Mi sedetti a terra stremata appoggiandomi alla parete.
Appena mi fermai lasciai la possibilità alla mia mente di torturarmi facendomi tornare in mente quelle parole.
"Non dovresti nemmeno parlare cazzo! L'hai vista la tua? Non ne hai nemmeno una praticamente!"
Risentirle nella mia mente facevano male tanto quanto mi avevano fatto la prima volta, forse anche di più.

Smettila di mentire a te stessa.
Un'altra di quelle vocine, con cui ero abituata a convivere, mi riprese. Ne avevo mille in testa che mi dicevano tutte cose diverse.
Quelle parole ti hanno fatto così male non per il loro significato di per sé, ma per la persona che te le ha dette.

Forse aveva ragione, forse stava dicendo il vero, ma non lo avrei mai ammesso.
Lui era la persona che meno sopportavo sulla faccia della terra, ma probabilmente era anche quella a sapere più di me tra tutti.
Era assurdo come passassimo dall'urlarci in faccia a parlare delle nostre ferite tentando di comprenderci a vicenda, ma senza risultati. Eravamo due rebus senza una soluzione.

Guardai l'ora sul telefono, era l'una. C'erano due messaggi sul display.
"Domani mattina possiamo parlare?" Jen.
"Sei scappata...scusami" Dylan.

Ignorai il secondo e risposi solo al primo.
"Certo, solito posto" tutti i miei dubbi su Jen erano stati confermati.
Mi alzai e tornai in camera mia, pronta ad affrontare un'altra notte all'Inferno, il mio.

Spazio autrice
Ciao bellissim*, ecco qui il nuovo capitolo, scusate ancora per il ritardo.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.
La nostra Haely ha tanto a cui pensare, ma non è l'unica.
Ci sentiamo presto.
Vostra Clari🧡

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