27. I fake a smile and fall apart
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Sigrid ft. Bring me the horizon,
Bad life
TW: dca, molestia
Guardare gli altri e sentirsi smarriti, come una macchia nera che fluttua in un cielo perlaceo.
Mi chiedo se anche gli altri, quando gettano un’occhiata al passato, si sentano intrappolati in un intrico di ricordi più o meno vividi, più o meno dolorosi.
Sollevo lo sguardo verso il cielo e istintivamente penso: «Vorrei essere egocentrica e menefreghista come te, mamma. Forse il respiro sarebbe meno pesante».
Chiudo gli occhi e sento l’alito gelido del vento sferzarmi il volto, il crepitio della neve sotto la suola degli stivali; scelgo di camminare al buio quando intorno a me ho una coltre di cristalli bianchi pronta ad accogliermi nel suo freddo e confortevole abbraccio.
Apro gli occhi, figure sfocate guizzano davanti a me da una parte all’altra. E capisco che la vita scorre velocemente anche quando intorno a me sembra che il mondo si sia fermato.
Sento le risate dei bambini sciabordare nell’aria e penso che anche io alla loro età avrei amato perdermi tra le braccia dei miei genitori.
Forse mi sarebbe piaciuto fare l’angelo della neve con mio padre; magari avrei apprezzato ricevere una palla di neve in faccia e ridere di quel dolce dolore.
«Vieni, zio! Vieni», grida una bambina, facendogli posto sulla slitta. Con un gesto privo di malizia si siede dietro di lei, l'abbraccia con tenerezza e poi dà una spinta alla slitta ed entrambi volano giù, sulla scia dei sogni e dell'ingenuità.
«Nives, tesoro, vieni qui», mi disse lo zio un pomeriggio, quando la mamma era impegnata in una delle sue sessioni di shopping con le sue amiche e la mia presenza nella sua vita iniziava ad acquisire un certo peso. «Siediti qui, accanto a me», batté la mano sullo sgabello e io, felice di essere nei pensieri di qualcuno, mi avvicinai, allora senza paura e senza sentire il peso della vita gravarmi sulle spalle.
«Adesso sei cresciuta, hai quasi dieci anni. Il tuo corpo si sta sviluppando in fretta, hai le forme che una bambina non dovrebbe ancora avere», posò le sue mani grandi e ruvide sui miei fianchi e tentennò, prima di farle scivolare lungo le mie cosce per poi risalire fino alla vita. In quel momento rimasi immobile e guardai con occhi innocenti le mani dello zio su di me.
«Ti piace mangiare, non è così?», mi diede una pacca sul sedere ridendo e io cercai di dissimulare la confusione dietro ad un sorriso timido.
È stata la prima volta in cui mi sono chiesta se fosse normale che un uomo toccasse in quel modo alcune parti del mio corpo.
Alla sua domanda risposi: «La nonna dice sempre di non rifiutare il cibo».
«Forse è per questo che il tuo corpo sta cambiando così velocemente. E sai cosa succederà?», la sua mano però non si spostò di un millimetro dal mio corpo. «I ragazzini inizieranno a guardarti, a corteggiarti, e non solo i ragazzini, Nives. Gli uomini cacciano come i leoni, dovrai guardarti le spalle. E se vuoi che non ti succeda niente, dovrai mangiare un po' di meno», mi pizzicò il fianco, strinse un rotolino di ciccia tra le sue dita, e poi lo lasciò; sul suo volto danzava spesso un un sorriso divertito, come se sapermi fragile e impotente davanti a lui lo rendesse fiero. «Ti insegnerò a proteggerti e a tenerti lontano dagli uomini. Tua madre non ne capisce molto e tuo padre vive nel suo mondo. Ognuno di noi ha un angelo custode», mi accarezzò il volto, si alzò in piedi e si mise dietro di me. Mi strinse in un abbraccio forte, la sua mano risalì sul mio petto. «Per fortuna tu hai me».
E ancora oggi ogni singola frase da lui pronunciata mi perseguita come uno spettro che cerca vendetta, che vuole trascinarmi giù nelle tenebre.
A tredici anni me lo ritrovai davanti, lo sguardo accecato dalla rabbia, le vene pulsanti sulle mani.
«Chi è quel ragazzino che continua a passare davanti al cancello e a sorriderti quando ti vede nel giardino?», mi chiese.
«È Robert, si è trasferito qui da poco. Ogni volta che mi vede mi racconta una nuova barzelletta».
«Ricordi cosa ti ho detto sui maschietti? Loro non vogliono essere tuoi amici, Nives», mi scosse per le spalle. «Stai continuando a mangiare come se questa non contasse niente per te», indicò la mia pancia e in quel momento mi vergognai tantissimo: delle mie cosce, del mio peso, della mia pancia. «Pensavo che tua madre ti avesse iscritta in palestra».
Un altro pomeriggio ancora, mi fece sedere in braccio a lui mentre suonava il pianoforte.
Ero un blocco di ghiaccio che lui cercava in tutti i modi di far sciogliere.
«Suona per me, Nives. Esattamente come te l'ho insegnato io. Spostati poco più in avanti», con un colpetto sulle cosce mi indicò dove sedermi con precisione.
Sentii un movimento lento e cadenzato alle mie spalle, vicino al mio sedere. Appoggiò il mento sulla mia schiena, tremai ad ogni respiro, ad ogni suo tocco. Avanti e indietro, il suo respiro sul mio collo, l'altra mano aperta sulla mia pancia.
«Che stai facendo, zio?», chiesi con un filo di voce.
«Non fermarti, continua a suonare», mi diede un piccolo schiaffo sulla coscia e io suonai ancora.
Un suono gutturale, un respiro affannoso, e poi mi strinse a sé. «Brava, bambina». Mi pietrificai e per la prima volta la mia testa si riempì di un dolore che nessun medicinale sarebbe stato in grado di estirpare.
Rimango con lo sguardo sollevato sotto il continuo fioccare, il cielo grigio ardesia preme sui miei occhi.
Risucchio un respiro nei polmoni e rispedisco indietro le lacrime. La vibrazione del glucometro mi riporta al presente, tra le risate felici dei bambini e dei miei amici.
Nel momento esatto in cui prendo il glucometro tra le mani, qualcuno urla: «Attenzione!», una bambina perde il controllo della slitta e mi prende in pieno, facendomi capitombolare. Il glucometro mi vola via dalle mani e il panico prende il sopravvento.
«Scusami, ti ho fatto male?», chiede la bambina.
Mi metto a carponi e inizio a cercare nella neve, scansando i diversi passanti.
«Nives!», Kyle si toglie gli occhiali da sci e aggrotta le sopracciglia. «Perché non ci raggiungi? Ci stiamo divertendo».
Un suono acuto mi trapassa la testa come una spada, da un orecchio all'altro. Non sento più niente, ma le mie mani scavano senza fermarsi, in modo sempre più aggressivo.
«Dov'è? Dov'è?», grido con i polmoni carenti d'aria e in preda al panico.
«Cosa stai cercando? Nives, calmati, guardami», si inginocchia accanto a me, ma io gattono come un animale moribondo, e mi sposto in un posto più appartato, al sicuro. Apro la cerniera dello zaino, un singhiozzo risale lungo la gola.
«Nives? Mi stai spaventando», Kyle mi segue, si abbassa di nuovo davanti a me, si toglie furiosamente i guanti, lanciandoli a terra, e poi cerca di prendermi il viso tra le mani.
«Non toccarmi», grido e con mani tremanti cerco la penna pungidito e l'altro glucometro che tengo come riserva.
La confezione con le striscette mi cade dalle mani, il respiro si fa sempre più corto e doloroso.
Alzo lo sguardo e incontro quello di Kyle. È spaventato, confuso, triste.
Abbassa gli occhi sulla penna e batte un paio di volte le palpebre, come se stesse cercando di mettere insieme i pezzi.
«Faccio io. Faccio io», ripete più e più volte con voce asfittica. Mette l'ago al posto mio, prende la salvietta disinfettante e mi pulisce il dito, poi punge.
Prende la striscetta e faccio cadere la goccia di sangue, poi la infila nel glucometro.
Gli tremano le dita anche se cerca in tutti i modi di apparire più lucido di me, più forte, più presente. So che gli sembra di rivivere per la seconda volta la stessa scena. Ma io non sono sua sorella.
Rovista all'interno del mio zainetto e prende la bustina di plastica dove tengo i biscotti, lo zucchero, succhi di frutta e le varie caramelle.
«Grazie», gli dico, pescando un biscotto.
«Prendi il succo», dice quasi balbettando. «Ti riprenderai più in fretta. So che lo sai. È ovvio che lo sai», gli scappa una risata nervosa e distoglie lo sguardo, cercando di non far trapelare le sue vere emozioni.
Prendo il succo e lo trangugio tutto in un solo sorso.
«Stai facendo gli spuntini?», chiede all'improvviso, ma non rispondo.
Stringo i pugni sulle ginocchia e respiro profondamente, chiudendo gli occhi.
«Guardami, Nives! Cazzo», urla, facendomi spaventare.
Apro gli occhi, la mia faccia è a pochi centimetri di distanza dalla sua. Dentro di me spero che il silenzio basti come risposta.
Si alza in piedi annuendo, come se avesse recepito il messaggio, poi inizia a vagare quasi alla cieca in mezzo alla pista.
Si abbassa e prende un oggetto nero da terra. Lo pulisce e torna da me.
«Hai il sensore?», chiede, sembra ancora irritato.
«Sì».
«Potrai usare anche il cellulare per misurarla o sbaglio?», chiede accigliandosi.
«I valori non sempre sono quelli giusti», spiego con voce piatta.
«Mia sorella avrebbe ucciso per averlo», mormora con aria affranta. Si siede a terra, accanto a me, e prende di nuovo la penna e dopo un paio di minuti ripete tutta la procedura di prima, tenendomi delicatamente la mano.
«È arrivata a cento», fa un sorriso triste, deglutisce a fatica. «Io stesso avrei ucciso per farglielo avere. Ma è già tanto se riusciva ad avere l'insulina gratis. L'assicurazione costa un sacco», ha gli occhi lucidi, ma non vuole mostrarsi fragile davanti a me. Dietro a quegli occhi disincantati e solitari, imperversa una tempesta di rabbia e dolore, rimpianto e odio.
«Tu cosa diavolo hai in testa?», sbotta all'improvviso e spalanco gli occhi, mettendo da parte le mie riflessioni tediose.
«Come?»
Appoggia le mani sulle mie spalle e mi guarda dritto negli occhi: «Tu, Nives, cosa diavolo hai in testa? Perché a me sembri pronta a lasciarti morire».
La sua frase mi distrugge, il mondo crolla a pezzi sopra di me.
«Non capisco di cosa tu stia parlando», scuoto al testa e rido in modo isterico. La risata di chi sa di essere colpevole, ma non vuole ammetterlo.
«Solo perché la tua bocca non dice niente, non significa che i tuoi occhi non parlino». Afferra un po' di neve tra le mani e forma una pallina, poi la lancia. «Ti osservo ogni giorno e ogni volta non smetti di sorprendermi. Un po' come quando sei abituato a vedere il tramonto, ma ogni volta che ce l'hai davanti ti incanti lo stesso», gli sfugge un breve sorriso e la mia mano fredda raggiunge la sua, calda.
Un tocco lieve, innocente.
«Mi osservi un po' troppo, non pensi?», chiedo con una nota ironica nella voce.
«Perché non voglio che tu ti senta invisibile».
Mi mordo il labbro e abbasso lo sguardo. «Non mi sento così».
«Ti guardo, perché voglio che tu capisca che nei momenti in cui ti senti più invisibile, i miei occhi vedono soltanto te».
Le lacrime solcano all'improvviso le mie guance, fermandosi sull'arco di Cupido.
«Non sono più uno stupido adolescente, Nives», mi asciuga le lacrime con i polpastrelli e mi trascino sulle ginocchia verso di lui. Kyle, quasi percependo il mio desiderio, apre le braccia e mi stringe forte a sé, affondando il naso tra i miei capelli. Dopo un breve attimo di silenzio, dice: «Sai, ho comprato un sacco di libri, ma non ne ho letto neanche uno».
«Perché?»
«Perché sarebbe stato troppo semplice, bisbetica. Non pensi?», muove delicatamente la mano sulla mia schiena.
«Non ti sto seguendo», mormoro contro la sua spalla.
«Leggerli, finirli, metterli da parte, non pensarci più fino dimenticarli. Sarebbe stato troppo semplice così...».
«Continuo a non capire», mi tiro indietro, ma provo ancora oggi la stessa timidezza, lo stesso imbarazzo, quando lo guardo negli occhi.
«Non voglio che sia semplice. Io non voglio finire una cosa che non è mai iniziata», le sue labbra si increspano leggermente in un sorriso fugace.
«Allora forse non ha senso comprare libri per farli prendere la polvere...»
«E chi sta ancora parlando di libri?», con le nocche mi sfiora la guancia fredda.
«Tu?», inarco le sopracciglia.
«Non sei ingenua, Nives. Non lo so sei mai stata, sappilo», si piega verso di me e mi lascia un bacio sulla fronte. Un gesto così puro, così semplice ma pieno di significato.
Mentre stringe il mio viso tra i palmi delle sue mani io annuisco vigorosamente, con gli occhi ben aperti e il terrore che riaffiora in superficie.
«È solo che a volte...», faccio una pausa, lo sguardo inchiodato sulla cima innevata della montagna. «È come se in tutto il dannato universo io non fossi altro che un misero detrito destinato a scomparire», finalmente trovo il coraggio e pronuncio ad alta voce i miei pensieri.
«Nives», lui fa in modo che i miei occhi si incatenino nuovamente ai suoi. «Perfino le stelle più luminose sono destinate a spegnersi. E anche se tu fossi un misero detrito, io ti guarderei ancora come se fossi la stella più luminosa dell'intero universo».
Un sorriso vibra sulle mie labbra mentre lotto contro la voglia di piangere. «Taci», gli do una gomitata nel costato. «Non c'è bisogno che tu dica queste cose per farmi sorridere».
«Non hai capito, bisbetica...», appoggia la fronte contro la mia. «Se potessi, farei sparire tutte le fottute stelle dal cielo, soltanto per vedere brillare te».
E io mi spezzo. Mi scompongo tra le sue braccia. Cadono frammenti di me, precipito e lascio che le sue braccia attutiscano la caduta.
Per la prima volta tra le braccia di un uomo mi sento al sicuro.
Non è vero, zio. Io forse ce l’ho un angelo custode.
E non dovrai più proteggermi tu dagli uomini.
Non dovrai stringermi più tu quando mi sentirò smarrita. Ormai sono fuggita dalla tua trappola.
Non dovrai più arrabbiarti quando i mostri mi guarderanno, dopotutto tu sei il più terrificante tra tutti.
«Vorrei poterglielo dire», dico a voce alta e Kyle s'insospettisce di nuovo. Ho già visto quest'espressione sul suo viso.
«A chi? E cosa?», chiede, ma io abbasso lo sguardo sulle mie mani e, quasi in automatico, inizio a strapparmi la pelle intorno all'unghia.
Lui mi prende la mano e mi ferma. «Devi smettere di farlo. Ti fai del male», guarda le mie dita con una certa tristezza negli occhi. Sembra quasi in conflitto con se stesso.
«Cosa ti mette ansia? Sei al sicuro con me, Nives».
«Dopo averti conosciuto, ho pensato spesso alla tua faccia da schiaffi. Zahra era-», pronunciare il suo nome mi fa male ancora oggi. «Lei stava con te, era felice, aveva un ragazzo fantastico. Io non avevo niente. Non avevo amici, non avevo un ragazzo, perché per anni ho pensato che gli uomini fossero dei mostri cattivi. E ogni ragazzo finiva per allontanarsi da me in un modo o nell’altro».
Non posso dirlo. Non posso.
«Perché lo pensavi?»
«Perché è così», rispondo senza esitazione.
«Non è vero, Nives. Dimmi la verità. Lo pensi ancora?»
«Io...», chiudo la cerniera dello zainetto e mi stringo nelle spalle. «Dopotutto, anche tu mi hai fatto male. Lui me lo diceva sempre, che degli uomini non ci si può mai fidare. Che alla fine vogliono soltanto una cosa. E mi proteggeva in un modo tutto suo».
«Di chi stai parlando? Non ti sto seguendo», contrae la mascella, i lineamenti del suo viso sono alterati, la rabbia si impossessa dei suoi occhi.
Mi alzo in piedi, con un peso sullo stomaco. «Ti ho sempre detto che non sono fragile e che non mi romperò, ma avevi ragione tu. Penso che in realtà io abbia sempre cercato disperatamente che tu aggiustassi ciò che gli altri avevano rotto. E solo adesso, anche se sei qui, capisco che-», lo guardo con la vista appannata. «Che ormai c'è ben poco da aggiustare».
«Di cosa stai parlando, Nives?», si alza anche lui, torreggia su di me facendomi sentire minuscola.
«Non è il luogo adatto per parlarne».
«Non esiste un luogo adatto per parlarne, cazzo!», mi afferra per il braccio, fermandomi.
«Ho sempre desiderato di essere vista. Per una maledetta volta volevo essere davvero vista da qualcuno, e tu sembravi la persona giusta. Mi sono messa alla prova, va bene? L'ho fatto perché volevo sentirmi forte. Volevo dimostrare a me stessa che ero in grado di avere il controllo».
«Su chi?», chiede, l’espressione ferale gli dipinge il volto.
«Sugli uomini. Volevo dimostrare a me stessa che i mostri possono cambiare forma, se decidi di guardarli in modo diverso. E ci sono riuscita. È tutto», concludo, distogliendo lo sguardo. Vedo Rosalyn venire verso di noi.
«Mi stai prendendo in giro?», chiede spazientito. «Quindi cos'era? Un gioco?».
Faccio spallucce.
«Ehilà, vi è morto il gatto?», domanda, affiancando immediatamente Kyle.
Un velo di delusione si posa silenziosamente sul suo volto.
Mi dispiace, vorrei dirgli. Non sono abbastanza per me stessa, come potrei esserlo per te?
«Non è il momento giusto», borbotta, ma Rosalyn gli circonda il collo con le braccia e gli sorride. «Ehi, vuoi sapere cosa è successo prima? Ho preso in pieno un tizio e per sbaglio l'ho colpito dritto nelle palle».
A Kyle sfugge un sorriso e io mi allontano piano piano. Riconoscerei ovunque lo sguardo innamorato di una persona.
Forse lei lo guarda come lo guardo io. Non so se con lo stesso desiderio e con la stessa voglia di prendergli quella faccia da schiaffi e baciargliela fino a non sentirmi più le labbra, ma so riconoscere gli occhi di una donna che ama in silenzio.
E lei lo fa sorridere.
E io, ancora una volta, sento di non appartenere a nessun posto, a nessun gruppo, neanche a me stessa.
Ma dicono che se ami qualcuno bisogna lasciarlo andare.
Gli volto le spalle, ma in fondo, una parte di me sa che tra i mostri che mio zio ha dipinto nella mia testa, lui vive dove loro non sono in grado di arrivare. Da qualche parte nel mio cuore, in un posto oscuro, ma profondo, dove giace il sentimento più puro che io abbia mai provato in tutti questi anni di vita.
I mostri mi spronano a continuare la mia camminata, ma il cuore mi costringe a girarmi. E lo faccio, perché sono debole e a pezzi. Mi giro e lo trovo con lo sguardo puntato su di me, perché forse è davvero come dice lui: è nei momenti in cui mi sento più invisibile che lui mi guarda più intensamente. Come se volesse dire: sei qui, ti vedo e sei mia.
Sono sua, vorrei dirgli. Lo sono dal primo momento in cui ho desiderato che fosse mio.
Lydia corre verso di me insieme a Danny. Ha il giubbotto aperto e i pantaloni idrorepellenti sono costellati da varie gocce d’acqua, più o meno grandi. Jack lotta contro gli occhiali da sci che sono rimasti incastrati intorno al collo.
«Cos'è questa faccia da cadavere?», gridano all'unisono. Si guardano, si scambiano un sorriso complice, e poi riportano lo sguardo su di me.
«Mi sento una persona terribile, e forse lo sono, ma non voglio fargli del male come qualcun altro ha fatto con me», pronuncio risoluta, ma mi sembra di avere cento coltelli piantati nella gola.
«Nives... È molto carino pensare agli altri, ma non funziona esattamente così. Sai, in realtà nessuno ha mai ferito Kyle da quando è morta sua sorella. Vieni, andiamo a bere qualcosa di caldo. Ho le palle gelate».
Lydia mi guarda preoccupata, si affretta a prendermi a braccetto e a tenermi stretta, come se avesse paura di perdermi.
«Non l'ho mai visto così premuroso con una ragazza prima d'ora. Sai, vi abbiamo guardato da lontano, non so cosa sia successo, ma dentro di me sapevo che saresti stata al sicuro con lui. Ha spesso questa tendenza di sbracciarsi per aiutare chi è in difficoltà, soprattutto se è qualcuno a cui ci tiene davvero. Mi ha detto che sei tu la ragazza dei libri», mi sorride e mi sfugge una risata amara. «A volte non sapevo più che titoli suggerirgli, era diventato insopportabile», alza gli occhi al cielo.
Ci dirigiamo verso la tavola calda, la neve scricchiola ad ogni nostro passo.
Lo ascolto e cerco di custodire dentro di me ogni piccola informazione.
«Gli piaci tanto, Nives. E deduco abbia scoperto della tua malattia. Come ha reagito?».
«Penso abbia provato rabbia, tristezza, ansia, delusione, amarezza. Non necessariamente in quest'ordine», storco il naso. Appena entriamo nel locale e veniamo accolti dal profumo del vin brûlé e varie spezie. L'atmosfera è calda e allegra. Intravediamo un tavolo libero e andiamo a sederci.
«Non importa cosa tu gli abbia detto, lui non rinuncerà a te».
Il mio cuore perde un battito.
Danny sorride di nuovo, poi friziona i capelli bagnati con le dita. «È il tipo di persona che non molla facilmente. E penso sia bello, sai... Quando uno dei due non ha abbastanza forza per lottare, l'altro ci prova con tutto se stesso per farlo funzionare», mi guarda da sotto le ciglia e d'un tratto mi sento a disagio.
«Forse dovresti essere sincera con lui e basta», suggerisce Lydia.
«Lo sono stata», rispondo prontamente.
«Lo sei stata davvero? Perché stamattina ti ho trovata con le mani sanguinanti accanto ad un albero», mi ricorda e Danny si acciglia. Non ha fatto domande e io ho tenuto per quasi tutto il tempo i guanti.
«Non ti biasimo, sai? Anche Kyle ha un passato piuttosto turbolento. Non parla spesso della sua famiglia, neanche con me. E voglio dire, lo conosco da un sacco di tempo».
«Dicci di più», lo esorta Lydia.
«Non dovrei farlo. Sono il suo migliore amico».
Lydia gli fa gli occhi dolci. «Ma tu lo farai lo stesso, vero?»
Lui mi guarda, rassegnato. «Questa donna sarà la mia rovina e ancora non ci crede che sono pazzo di lei».
Colgo una sfumatura rossa sul volto di Lydia, lei non intende nascondere il suo imbarazzo.
«I genitori di Kyle si sono separati quando era molto piccolo. Lui e Leah sono rimasti con la madre, dopo poco lei si è rifatta la vita, ha incontrato un altro uomo, la famiglia si è allargata ed è arrivata Lucy. All'inizio la sua famiglia ha avuto un sacco di problemi a livello economico. Suo padre non li ha aiutati, Nives. A volte gli amici lo invitavano fuori, ai compleanni, al cinema, e lui rifiutava. La sua scusa era sempre “Ho altri impegni”, la verità è che non aveva soldi neanche per pagarsi il biglietto dell’autobus. Per un periodo ha dovuto usare le stesse converse logore e sdrucite perché non poteva permettersi altro.
Poi hanno trovato un equilibrio, la situazione è migliorata, ma lui non voleva chiedere soldi a sua madre. Non penso l’abbia mai fatto in realtà. Ha iniziato a fare lavoretti sin da piccolo, aiutava i vicini a pulire l’orto, in seguito ha scoperto la passione per lo sport, è riuscito a pagarsi la palestra, e poi sono nati i combattimenti clandestini che organizzavano quelli che stavano più in alto. L’organizzazione richiedeva un prezzo alto, la gente impazzisce per questi eventi, e allora impazziva ancora di più quando un adolescente doveva fare a pugni con quelli più grandi di lui. Una volta ne ha prese così tante che è rimasto a letto per quasi due settimane».
Io e Lydia lo guardiamo con aria allocchita.
«Però più cresceva la rabbia dentro di lui, più diventava bravo. Aveva iniziato a fare soldi, poteva permettersi di spendere di più, poteva aiutare in casa, aveva iniziato a vedere uno spiraglio di luce nel suo futuro. Per ottenere soldi facili, uno di loro sceglieva quale ragazza di buona famiglia fare innamorare e convincerla a partecipare attivamente all’organizzazione dell’evento. Nessuna si è mai tirata indietro, anzi, amavano l’idea di sentirsi parte di qualcosa dove soltanto gli uomini avevano il potere.»
«Volevano farlo anche con me», dico all’improvviso e Danny sgrana gli occhi.
«Oh merda, questo non lo sapevo».
«Insomma, Kyle dice che non è andata proprio così, ma io l’ho sentito parlare con altri due tizi. E il loro piano era questo».
«Che gran figli di-», Lydia si morde la lingua. «Che bastardi!»
«Kyle non ha più bisogno di farlo, Nives… Anzi, sarebbe carino se smettesse di farlo del tutto. Non penso che lo faccia più per ricevere un compenso, bensì per sfogarsi.»
Finalmente ordiniamo una bevanda calda e restiamo per un qualche minuto buono in silenzio.
«Mi hai lasciato solo tutto il santo giorno», esclama Jack alle mie spalle, facendomi trasalire.
Mi sono completamente dimenticata della sua esistenza.
«Mi dispiace tanto, Jack», mi alzo in piedi. Lui è intento a togliersi il giaccone.
«Sì, beh, tanto questa vacanza fa schifo. Non vedo l’ora di tornare a casa», si lamenta e prende posto accanto a me, allungando le gambe sotto il tavolo.
Posa la sua mano sulla mia coscia con fare scocciato e la strizza un paio di volte.
«Stai perdendo troppo peso. Mangia qualcosa, tra un po’ non mi resterà altro da toccare se non le tue ossa».
Ma è questo è il modo più sicuro per tenere i mostri lontani da me.
«Chiudi il becco, coglione! Anzi, sai cosa? Alzati e vattene. Non sei il benvenuto al nostro tavolo», Lydia batte i palmi delle mani sul tavolo e si alza per affrontarlo.
Jack la guarda sbalordito.
«Ne ho davvero le palle piene e con te farò i conti dopo», mi punta l’indice contro, si alza e se ne va.
«Torno subito», lo seguo fuori, ma mi imbatto anche in Kyle e Rosalyn che stanno per entrare.
Jack guarda prima Kyle e poi me.
«Se immagini anche solo per un istante di scoparti la mia ragazza, io ti ammazzo», dice stringendo i pugni e gonfiando il petto.
Batto le palpebre un paio di volte, scioccata. L’ha detto davvero?
Kyle appare sicuro di sé, anzi indossa di nuovo la maschera di un perfetto stronzo intoccabile.
«Non mi serve immaginarlo», risponde con la sua faccia tosta e io sento i miei occhi spalancarsi sempre di più.
Mi passa accanto e mormora in modo che soltanto io riesca a sentirlo: «Perché l’ho già fatto. Non è così?».
Forzo un sorriso e vado verso il mio ragazzo.
«Non essere arrabbiato, Jack», gli dico cercando di fargli gli occhioni da cucciolo abbandonato.
Kyle sorride irritato e Rosalyn lo segue dentro il locale.
Jack ha lo sguardo puntato su di me.
«Non mi hai mai detto ti amo», afferma, cogliendomi di sorpresa.
«Certo che l’ho fatto! Tutte le volte», metto le mani davanti, cercando di difendermi.
«No, Nives. Non l’hai mai detto. Hai sempre risposto “Anche io”, ma non mi hai mai detto “Ti amo, Jack”.».
Segue un breve silenzio tra di noi. Un silenzio che non cerco di colmare con un ti amo, come vorrebbe lui. Un silenzio piacevole che culla il mio povero cuore.
Jack si arrabbia, tira un calcio ad una statuetta che raffigura un orso di legno all’entrata del locale e poi si allontana, lanciando nell’aria qualche imprecazione.
«Che ne dici di una bella fetta di carne e le bruschette con formaggio fuso?», chiede Kyle alle mie spalle, facendomi sorridere quando dentro di me anche la traccia più piccola di felicità viene soppiantata di nuovo da una sensazione opprimente.
«Ci sto».
Mi giro verso di lui e lo vedo armeggiare con il cellulare.
«I grassi salgono per ultimi, giusto?», chiede, come se avesse paura di sbagliare i conti.
Poso la mano sul suo braccio e abbasso il cellulare. «Me la caverò, Kyle. Starò bene».
Lui annuisce, poco convinto.
So che sono stata una stronza prima e so che ci siamo fatti del male entrambi, ma nonostante tutto mi alzo sulle punte e gli do un bacio sulla guancia, cercando di non pensare al modo in cui lo guarda Rosalyn o alle sue braccia intorno al suo collo.
«Grazie per prima e mi dispiace».
«Mia sorella quando era in ipoglicemia si innervosiva, era irascibile e rispondeva male. Non è colpa tua».
Ma in parte lo è, e lo sa anche lui.
«Se dovessimo rivederci di nuovo, dopo tanto, come se fosse la prima volta, che posto sceglieresti?», gli chiedo, spostandomi accanto a lui. Le nostre dita si sfiorano, un tocco così leggero provoca in me una scarica di brividi.
«Abbazia di Admont, in Austria.»
«Non me l’aspettavo. Perché proprio lì?», il suo mignolo si intreccia al mio.
«Perché forse sarebbe l’unico posto in cui farei meno fatica a staccarti gli occhi di dosso per guardare la bellezza che ci circonderebbe. Da quando ho visto la foto me ne sono innamorato. E non sono neanche un amante della lettura, come avrai già capito».
«E in quale giorno della settimana ti piacerebbe?»
«Sabato», risponde. «Hai bisogno anche dell’ora o cosa?», ride.
«Beh, se vuoi dirlo…»
«A mezzogiorno. Perché poi ti porterei a pranzo», mi fa l’occhiolino.
Arrossisco. Come se fosse la prima volta, le farfalle nello stomaco riprendono a volare.
«Kyle, muoviti. Ho ordinato io per te», dice Rosalyn, tenendo la porta aperta per lui.
«Vieni, bisbetica, per te ordino io».
Lo seguo e passo accanto a Rosalyn, lei mi guarda in faccia forzando un sorriso, ma non dice niente.
È una guerra tra i nostri cuori e non so se ci saranno dei vincitori.
Fiuuu, ce l'ho fatta! Questo forse è stato un capitolo un po' pesante, ma almeno avete capito più o meno la causa dei problemi di Nives, a partire dal cibo❤️
E ora sapete un po' dell'infanzia di Kyle... Spero vi sia piaciuto 🥺 lasciatemi una stellina o un commento, e se vi va consigliate la storia agli altri ❤️
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