Il mio desiderio


È la vigilia di Natale.

«Simone!» chiamo.

Fa veramente freddo tra queste quattro mura in­giallite, ma a nessuno sembra interessare.

Ho chiesto una coperta quasi un'ora fa, ma Si­mone, come al solito, è troppo impegnato per po­termi aiutare, o almeno è ciò che mi dice sempre. Gli infermieri si lamentano continuamente, dico­no di non avere mai tempo per fare questo o fare quello, però li vedo spesso appresso a quell'aggeggio... cellula, smatfone, o come acci­denti lo chiamano loro.

L'altro giorno mentre con la mia sedia a rotelle attraversavo il corridoio, all'interno della guar­diola ho scorto Vanessa piangere mentre guardava una pellicola cinematografica da uno di quegli strani apparecchi elettronici. Ai miei tempi si piangeva per ben altro. Soprattutto gli uomini, non versavano lacrime, o forse, semplicemente non lo facevano davanti ad altre persone.

Nonostante mostrare in pubblico le proprie emozioni fosse un evento raro ai miei tempi, pos­so dire di aver comunque visto le lacrime sul viso di mio nonno. Una sola volta mi è bastata per far sì che quell'evento si impregnasse in maniera in­delebile nei miei ricordi. Augusto era un uomo burbero, di poche parole, insomma, un uomo d'altri tempi.

Era il 24 dicembre 1942, la guerra perseverava ormai da tre lunghi anni e altrettanti sarebbero passati prima della resa tedesca. Mentre il resto della popolazione piangeva i morti della disfatta dell'armata italiana in Russia avvenuta appena cinque giorni prima, il signor Mancosu e il signor Lai, erano intenti a spostare alcune macerie della mia casa crollata a causa di un vecchio attacco. Mio nonno stringeva i pugni in segno di rabbia, quella stessa rabbia ormai accumulata e non ancora esplosa. Da quelle grosse e ruvide mani, dilaniate da centinaia di piccoli tagli, colava del sangue. Nessuno usava creme come è solito fare oggi, chi lavorava la terra pensava soltanto a lavorare la terra; la bellezza o altre sciocchezze del genere non venivano utilizzate per giudicare le persone normali come noi. Più lavoravi, più venivi considerato un vero uomo, più zappavi, maggiori possibilità avevi di non far morire di fame la tua numerosa famiglia e, se alla fine della giornata i tuoi figli avevano nel piatto qualcosa da mangiare, andavi a letto soddisfatto sapendo di aver fatto il tuo dovere di capo famiglia.

Due giorni prima ci eravamo rifugiati dentro a un nascondiglio sotterraneo. Almeno cinquanta persone tra bambini, donne, e qualche anziano. C'era anche mio nonno, ormai considerato troppo vecchio per dare il suo contributo in guerra, ma abbastanza giovane per aiutare i cittadini nel re­cupero dei corpi e delle cianfrusaglie andate perse tra le macerie. Bloccati, sottoterra, con alcuni topi che ci passavano accanto spaventati dal sibilo del­le bombe.

Avevo paura, tutti ne avevano. Alcuni puzzava­no di urine e di feci non trattenute dallo spavento. Il giorno dopo non sentivamo più quel sibilo, ma soltanto il rumore di grossi stivali di soldati che correvano sopra le nostre teste; alcuni non ci avrebbero fatto del male, altri, avrebbero portato via le donne. Conoscevo bene i presenti, eravamo diventati ormai un'unica grande famiglia che si aiutava e si sosteneva sempre. Tra quelle persone uno in particolare attirò la mia attenzione e le mie considerazioni. Tommaso Rivoluzione, sopranno­minato così dai suoi seguaci. All'inizio della guerra, parlava di cambiamenti, di intrighi politi­ci, faceva la voce grossa nelle piazze e invitava la popolazione a combattere, ad appoggiare i tede­schi e il Duce. Quel giorno, tre anni dopo, lo stes­so Tommaso si nascondeva in mezzo ai ratti, ac­canto alle stesse persone che fino a qualche tem­po prima chiamava codardi topi di fogna. Ero sol­tanto un bambino, ma ricordo tutto molto bene.

Sono trascorsi settantacinque anni ormai, ma quel sibilo che faceva scappare i topi, quel puzzo nauseabondo di escrementi, è rimasto ancora bene impresso nella mia mente. Decidemmo di uscire quando cessò il fracasso degli stivali da guerra dei soldati.

Due giorni dopo, tra le macerie della mia picco­la abitazione, i due uomini più robusti e forti del vicinato, cercavano mia madre. Non avevo mai vissuto un natale felice, o almeno, questo è ciò che credevo prima dell'inizio della guerra. Avevo sempre pensato non ci fosse nulla di peggio della nostra povertà, purtroppo ci volle una sanguinosa guerra per farmi comprendere quanto fossi stato fortunato fino a qualche anno prima.

Scavavano, si facevano asciugare la fronte dalle proprie mogli, e scavavano ancora. Mio nonno aveva ormai perso le speranze di ritrovare sua fi­glia, decise dunque di non aiutare più a spostare i grossi sassi.

«Continua nonno, non ti arrendere. La mamma ti aspetta», dissi con voce fine.

«La mamma non aspetta più nessuno Giuseppe, o almeno non qua, non tra i vivi.»

«NO!» gridai.

«La mamma ha promesso che quest'anno avrei ricevuto il mio regalo di natale!»

«REGALO DI NATALE?» un ceffone proveniente dalla sua mano ruvida e sanguinante mi fece stramazzare sopra ad alcuni sassi, in mezzo al fango e alla terra.

«AUGUSTO!» gridarono in quello stesso istante Mancosu e Lai.

«L'ABBIAMO TROVATA, RESPIRA ANCORA.»

Rimasi impassibile, mi avvicinai a mio nonno rimasto senza parole e lo abbracciai.

«Ecco nonno, questo è il mio regalo di natale. La mamma mi aveva detto che ciò che quest'anno avrei dovuto desiderare, era che per la fine dell'anno saremmo stati ancora tutti insieme. Sono stato un bravo bambino, il mio desiderio doveva per forza essere esaudito.»

Fu allora che mio nonno pianse. Pianse e mi chiese scusa, la prima e unica volta che vidi quell'uomo burbero in quello stato. Ma furono la­crime di gioia, e quel tipo di lacrime in mezzo a una sofferenza del genere erano il bene più pre­zioso che ci potesse capitare.

«Simone», chiamo ancora.

«Arrivo, arrivo. Ecco la tua coperta, non potevi proprio aspettare che finissi di vedere il mio dan­nato film?»

«È una bella pellicola?»

«Film in streaming vecchio, ormai si dice così. Perché non desideri che Babbo Natale ti porti un bel decoder per guardare queste pellicole online?»

«Simone... il mio desiderio è stato già esaudito tanti anni fa quando ero soltanto un bambino, da allora mi sono reso conto di non aver bisogno di desiderare più nulla.»

«Mi auguro che tu non abbia sprecato quel desi­derio con qualche stupido trenino di legno...»

«No Simone, direi proprio di no.»

FINE

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