Prima di uscire da Foerville decise di fermarsi in un ristorante dall'aspetto piuttosto rustico, che aveva un'insegna un po' penzolante perché mancavano due viti in basso. Lasciai il libro in macchina. Appena aprimmo la porta una campanella posta sopra di questa rintoccò un suono, e l'insegna si mosse leggermente. All'interno ogni parete scandiva con un certo rilievo rosato ogni mattone che la componeva, mentre più o meno quindici tavoli, sistemati con una bella tovaglia, dei bicchieri e delle posate, erano raggruppati poco distante da un bancone dove un cameriere sembrava facesse il conto a qualcuno, digitando su una specie di piccola calcolatrice. - Visto che lei viene sempre gli regalo il caffè. Sono dieci euro per quel piatto di pasta e l'insalata. - disse, premendo leggermente più forte l'ultimo tasto e poi venne fuori uno scontrino. Quello ringraziò, e dopo aver pagato si diresse verso la porta. La campanella rintoccò. - Buongiorno, vorrei un tavolo per tre persone. - affermò il papà di Greta, avvicinandosi al cameriere che cercava di cambiare canale, con un telecomando in mano, in una televisione posta su un angolo della stanza. - Si, si. Può sedersi dove vuole, tranne in quello lì. - rispose e puntò il telecomando su uno dei tavoli più vicini. Aveva un biglietto sopra; non mi avvicinai per leggerlo. Spiegò che quando eravamo pronti potevamo fare un cenno per prenotare da mangiare, poi sorridendo voltò lo sguardo, cingendosi a cambiare canale. Ne scelse uno in cui mostravano una partita di calcio. - Dove volete sedervi? - ci chiese Francesco. Posò gentilmente una mano sulla spalla di Greta, che osservava delle bustine di zucchero in un piattino sul bancone, per farla girare, e guardò entrambi. Scegliemmo un tavolo vicino a una grande finestra aperta per metà, dai cui si vedeva una fontana situata all'inizio di un vicolo e accanto a una barbieria con un cartello sul muro, con raffigurati un pettine e delle forbici. Un ragazzo dai capelli brillanti uscì dal negozio, bevve un po' d'acqua dalla fontana, poi si incamminò per il vicolo. - Cosa mangiamo? - disse Greta mentre guardava le sue posate; prese la forchetta, la osservò un attimo, e poi la ripose al suo posto, sopra un tovagliolo piegato a forma di triangolo. - Credo qualcosa di semplice: un primo e un secondo. - affermò suo papà. Io annuii. - Mi scusi per non avervelo dato subito. - asserì il cameriere di prima, porgendo due opuscoli con il menù. Francesco li prese dicendo che non ne avrebbe avuto bisogno poiché già sapeva cosa doveva prendere, tuttavia Greta chiese se poteva dare un'occhiata, e suo papà acconsentì. Disse al cameriere se nel frattempo poteva portare una bottiglia d'acqua; ogni tanto sbirciava dall'opuscolo di sua figlia. Anche io ne presi uno e anche se sapevo avrei preso la stessa cosa degli altri, credetti fosse interessante leggerlo. Non passò molto: il tempo fu scandito dai vari rintocchi della campanella. In breve buona parte dei tavoli si riempì e nell'aria di diffuse un certo mormorio. Alla fine arrivarono anche due persone che si sedettero sul tavolo occupato. Il cameriere si fermò un attimo vicino a loro per chiacchierare, quando vide il cenno di Francesco. Decidemmo di prendere ciascuno un piatto di pasta al sugo e una cotoletta con le patatine. Poggiai i gomiti sul tavolo e la testa sulle mani chiuse a pugno. - Chissà come sta mia mamma. - pensai, anzi, qualche parola si distaccò, ma a bassa voce. Forse Greta lo sentì poiché si girò lentamente verso di me guardandomi con un sguardo di compatimento, stringendo un po' le labbra. Mi venne in mente che anche a lei mancava sua mamma. Dopo altri tre rintocchi piuttosto distaccati, seguiti da un "Buongiorno" o dal movimento di sistemarsi la camicia prima di entrare, arrivò il nostro cibo. Francesco guardò il suo orologio che aveva al polso e disse che la mezz'ora di attesa non era stata molta. L'odore di pomodoro di sparse nella stanza e qualcuno fissò i tre piatti mentre venivano portati dal cameriere. Fummo i primi ad essere serviti. - Ecco qua. - disse, poi ci augurò il buon appetito. Ce lo ripetè il papà di Greta; iniziammo a mangiare. Passò meno tempo a finire, che ad aspettare la nuova portata, che probabilmente venne portata in un'altra mezz'ora. Ormai nella stanza vari sapori si erano disseminati, e la deliziosa combinazione non permetteva di capire a quale piatto si riferissero. Riuscii ad ascoltare che uno dei due uomini del tavolo occupato si era sentito male, anche perché alcuni si erano avvicinati per aiutarlo dandogli un bicchiere d'acqua o pregandolo di berlo, altri invece lo guardarono da seduti, mentre si teneva la testa con entrambe le mani e guardava con disperazione il tavolo. Si creò una lieve confusione. Francesco disse che forse aveva bevuto troppo vino. A poco a poco l'uomo si riprese e quelli che si erano alzati ritornarono al loro posto. Noi finimmo la cotoletta con le patatine. - Andiamo a pagare e andiamo. - continuò. Spinse la sedia all'indietro per alzarsi, e il legno della sedia sul pavimento fece un piccolo scricchiolio. Vitti l'uomo che prima si sentiva male bere un bicchiere di vino, poi ce ne andammo e la campanella rintoccò un suono. L'insegna dondolò leggermente, ma questa volta pensai fosse stato il venticello a muoverla. Salimmo in macchina. Greta si addormentò immediatamente, e un lieve sorriso stampato le rimase sulla faccia. Io, cullato dalla brezza del finestrino di davanti aperto, che mi sfiorava la fronte, e dall'incerto rumore lasciato dalle varie auto che passavano, lasciai piano piano vincere la stanchezza in un incolore sonno profondo, da cui mi svegliai solo quando la macchina borbottò per parcheggiare. Lentamente gli occhi si aprirono del tutto. - Credo sia questo l'ospedale, anche perché è l'unico che conosco qui. - disse Francesco. Distinsi vari alberi messi per suddividere gruppi di macchine sistemate in diverse file. L'ospedale si mostrava pallido nella sua bianca tinta e centinaia di finestre pronunciavano il disegno della sua importanza. Mi lasciai sorprendere; misi le mani su una porzione sporgente dello sportello e mi sporsi leggermente per ammirare meglio l'ospedale: era molto grande. Greta si svegliò non appena suo papà si tolse la cintura di sicurezza e disse di scendere. Vidi un certo luccichio nei suoi occhi appena destati. - Ma allora sta qui la tua mamma! - esclamò; si avvicinò a me per guardare dal finestrino che avevo accanto. Francesco uscì dalla macchina, e dopo aver poggiato una mano sul cofano, squadrò un po' il posto. - Venite. Che aspettate? - domandò, voltandosi verso di noi. Con uno scatto Greta abbassò la maniglia della sua portiera e dal finestrino opposto al mio iniziò a farmi delle facce buffe. Mi fece ridere; subito andai fuori anche io. Pensai sarebbe stato bene sistemarmi prima di entrare, come voleva mia mamma quando andavo con lei a far visita alle sue amiche, e dopo essermi tirato un po' su i pantaloni e ondeggiato la maglietta con un colpo di dita dove mi sembrò essere sporco, chiesi a Greta se era tutto a posto. - Certo! - esclamò. Fece un'altra smorfia, poi un sorriso. Francesco camminava tranquillo. Certe volte fischiettava. In breve giungemmo nei pressi dell'entrata, e forse vi era già stato. Nel momento di appressarci una veloce e improvvisa frenata collocò un'ambulanza in un punto lì vicino. Due persone, cioè il conducente e quello che gli stava accanto, scesero immediatamente, e aiutati da alcuni che uscirono di corsa dalla porta, aprirono due sportelli posteriori da cui agguantarono una barella con delle ruote dove vi era uno coricato. Sembrava in gravi condizioni, anche perché aveva attaccata una flebo in un braccio e teneva una maschera trasparente sulla faccia. I suoi occhi erano cupi come un bosco di notte, sfiniti. - Permesso, permesso! - ci dissero. Restai fermo a guardarli, Greta invece fece un passo indietro. Entrarono lasciando un certo alito affannato. Chissà cosa era capitato a quell'uomo sofferente. Francesco parve piuttosto scosso e si passò un dito sotto l'occhio sinistro. Disse di entrare. - Greta. - pronunciai. Era come persa nel vuoto e fissava l'ultimo soffio di brezza lasciato dalla barella. - Ehm...va bene, andiamo. - rispose dopo più o meno due secondi, e seguì suo papà. Non l'avevo mai vista fare in quel modo; quasi mi fece preoccupare. Probabilmente vedere quell'uomo malato l'aveva spaventata. All'interno dell'ospedale c'era una sala abbastanza spaziosa da ospitare quei dieci che aspettavano il loro turno. Alcuni seduti in delle sedie attaccate al muro, e tre alzati. Una lancetta di un'orologio fissato sulla parete accanto a noi si era mossa poche volte e già la barella, inoltrandosi tra la gente, aveva preso un corridoio alla destra di un'infermiera che parlava con uno dal giubbotto nero in fondo alla stanza. Erano le due e cinque minuti. Qualcuno preoccupato mormorava cosa fosse successo a quelli che aveva accanto, tuttavia nessuno diede una chiara risposta, o forse si, ma non riuscii a sentirla. - Come le stavo dicendo, per adesso non può andare da sua figlia. Aspetti... - affermò l'infermiera, appena distolse lo sguardo da quei soccorritori, ma venne subito interrotta dall'uomo che disse di voler subito vedere la figlia, perché preoccupato. - Mi lasci parlare. Aspetti qui o nella sala d'attesa a fianco. Dopo che arriveranno le analisi potrà andarci. - asserì. L'uomo, triste, aprì una porta bianca a sinistra, entrò, e poi la chiuse. Contai quanto eravamo nella stanza: dodici, con me, Greta, suo papà e l'infermiera. Questa stava dietro una specie di bancone, come quello del ristorante, ma al posto delle calcolatrici aveva documenti, che si intravedevano da una zona leggermente nascosta, qualche centimetro sotto a un liscio ripiano arancione. Non era difficile capire che altrimenti i vari fogli sarebbero volati facilmente. In quel momento ne guardò uno. Si mise degli occhiali con le stanghette legate da un cordoncino, prima poggiati all'estremità del ripiano e quasi stavano per cadere. Lesse qualcosa, poi chiamò un signore che aveva un berretto e stava parlando con una accanto a lui; conversavano già da quando eravamo entrati. Era contento. Pensai non fosse venuto lì per gravi problemi: per esempio, lui sembrava abbastanza in forma. - Volevo solo sapere come sta mia mamma. - disse, e si tolse il cappello. Vidi che era calvo. - Sta bene. Se vuole può andare a controllare lei stesso. Entro oggi uscirà dall'ospedale. - rispose l'infermiera, accompagnando le parole con un marcato sorriso. Ricordai che prima non aveva fatto così, anzi, era parsa più preoccupata di quel padre. Questo pensiero mi lasciò un lieve brivido sulla schiena. Avevo paura non sorridesse con me, perché sapevo che il suo sorriso era molto importante. In quei documenti, tra le varie cose, probabilmente c'era anche scritto se una persona stava bene o male; pensai che lei sapesse tutto. Man mano la sala iniziò a sgombrarsi, e da dodici passammo a sei. Una signora di quarant'anni circa scoppiò in lacrime poco prima del suo turno. Chiese un fazzoletto e subito uscì fuori per non attirare troppo l'attenzione, o probabilmente perché si vergognava a farsi vedere in quello stato: il trucco sugli occhi le si era un po' disfatto, mescolandosi con le lacrime che scendevano e con questo sembrava scavassero piccoli solchi sotto gli occhi. Quello che stava parlando con l'infermiera, dopo aver ringraziato, andò via. Aveva una cravatta che si muoveva quando camminava. La sistemò un'ultima volta appena fu vicino all'uscita. - Visto che la signora è andata fuori, potete avvicinarvi voi. - ci disse l'infermiera. Finì con un sorriso, e ciò mi fece sentire un po' più fiducioso. - Ciro, vai a dire il nome di tua mamma, non ti vergognare. - affermò il papà di Greta alzando la testa e il braccio verso la donna. Nel frattempo aveva preso un panno dalla sua borsa, posata sopra un mobile dietro a quel bancone, per pulire i suoi occhiali con un fare piuttosto cauto. Mi avvicinai piano piano, come un povero gatto quando vede una persona che vuole dargli da mangiare. Pensavo solo al suo sorriso, o meglio, volevo che rimanesse. Tuttavia anche un piccolo cambiamento poteva farle cambiare espressione, e per questo cercai di prendere tempo, con il desiderio che rimanesse lì, sulla sua faccia. Quei tre metri di distanza non si fecero aspettare, e nonostante il mio attento indugiare, giunsi davanti al ripiano arancione in appena cinque tocchi di lancette. Vidi che erano le due e trenta minuti. Pronunciai nome e cognome di mia mamma; uscì una voce così esile che mi disse di ripetere perché non aveva sentito bene. Lo ripetei un po' più forte, ma a me sembrò di sentire lo stesso identico tono. Subito si mise a cercare fra i documenti. Il silenzio era spezzato dal suo scorrere il dito sui vari fogli per sfogliarli. Quasi tutti erano uniti a gruppi di decine, mentre alcuni quasi cercavano di scappare, mossi dalla leggera brezza che creava con il suo movimento. Poi rallentò, forse per una lettura più attenta, e i fogli liberi si fermarono di scatto. Ritornò a vedere due cose passate nei fogli precedenti, dubbiosa se le aveva tralasciate. Tendeva a fermarsi, e fu proprio in quei secondi che lo fece. Sentii il cuore battere in modo confuso. Il tempo battuto dalle lancette divenne molto lento; sembrava quasi non riuscissi a sentire i rintocchi, anzi, avvertivo un mormorio all'esterno dell'ospedale che andava e veniva. Per un attimo mi piacque l'idea di sapere cosa leggesse, ma pensai non ci fosse bisogno, perché se avesse detto una bugia sarebbe stata una cattiva persona; a me non dava affatto l'impressione che lo fosse. - Allora vediamo...capito...oh, mi dispiace...va bene. - parlò tra sé e sé. Avevo gli occhi fissi su di lei. - Bene. - disse, posando delicatamente il foglio sul ripiano. Improvvisamente quella uscita in lacrime rientrò, e l'apertura della porta fece svolazzare il foglio, per poi farlo cadere a terra. Si scusò. A me ricordò un aeroplano. - Puoi prenderlo, per favore? - fece l'infermiera. Mi chinai un attimo, successivamente glielo porsi. Lo prese ringraziando, e gli diede un'ultima occhiata. - Allora...come ti chiami, piccolino? - chiese. La domanda mi sorprese molto. L'immagine di mia mamma rimase ancorata in una parte della mia mente, ferma, ma avevo ben chiaro che rispondere l'avrebbe messa da parte un attimo, o forse se ne era proprio dimenticata. Risposi. - Allora Ciro, non so se hai già saputo dell'incidente e del coma di tua mamma. - disse. Fui contento nel vedere che non si era dimenticata di mia mamma. - Si, lo so, me l'ha detto il mio libro. - risposi con la testa lievemente abbassata, soprattutto per la preoccupazione che l'argomento mi stava suscitando tutta in una volta. Non avevo pensato fosse così difficile parlarne, probabilmente perché sapevo che mia mamma si trovava in una delle stanze di quell'ospedale e pochi metri ci separavano. Era una strana sensazione, anche perché non mi ero ancora davvero reso conto della fine del cammino, dopo varie speranze perse e ritrovate. Mi sembrò di giungere davanti una nuova difficoltà; quasi volevo un consiglio dal mio amico. - Un libro? Mi fa piacere vedere che un bambino della tua età legge un libro di medicina. - affermò, annuendo due volte. Non volli dare ulteriori spiegazioni sul libro. Sarebbe bastato metterlo su quel ripiano, e chiunque avrebbe potuto chiedere come stesse una persona semplicemente aprendolo; non volevo che questo accadesse. - Quindi, secondo te, quando si sveglierà? - chiese. Vidi una certa preoccupazione nei suoi occhi appena fece la domanda, forse per l'importanza di questa. Pensai l'avesse fatta perché eravamo rimasti in pochi nella stanza, quindi si poteva permettere qualche minuto in più per parlare con le varie persone, e aveva scelto di farmi indovinare quella risposta. Per la storia del libro di medicina forse credeva fossi un giovane dottore, ma non lo ero. Mi preoccupava la risposta che avrei dato. Ricordai ciò che il libro mi aveva detto. - Non si sveglierà mai. - risposi, e piansi immediatamente. Vari singhiozzi sobbalzarono rimbombanti uno dopo l'altro. Due lacrime toccarono il pavimento, lasciando una piccola pozzanghera, mentre le altre la faccia e una la maglietta. - Ciro non dire così! - esclamò Greta. Corse verso di me per abbracciarmi come aveva fatto con suo papà, ma in quel caso voleva consolarmi. Girandomi un attimo vidi Francesco abbassare un po' la testa, mentre la signora, seduta su una delle tante sedie, con il fazzoletto asciugava il nuovo pianto. Il sorriso dell'infermiera era scomparso, e quando cercava di riprenderlo finiva nel perdersi tra pensieri confusi. Le sue labbra si muovevano invano. Era evidente che non sapeva come rispondere, ma nello stesso tempo si sentiva in dovere di farlo per rimediare alla situazione creata da quella domanda o dalla risposta. Prese un respiro profondo. - Capisco come ti senti, e vorrei farti un esempio prima di dirti se hai ragione. - asserì. - Quando ero una bambina, detestavo il cioccolato così tanto che non sopportavo il suo odore. Lo consideravo...beh, brutto. - spiegò. - Adesso ho quasi trentacinque anni e ne mangio più di quanto dovrei. E' colpa sua se prendo velocemente qualche chilo di troppo. - disse e le apparve un risolino per circa più o meno due secondi. - E cosa voglio dire con questo? I medici la pensavano come te: "povera donna, ormai è finita." dicevano. Adesso invece dicono che si sveglierà tra meno di un mese. E' successo, non so come, ma è successo, allo stesso modo di come io sia cambiata per mangiare il cioccolato. E fidati di questa infermiera, perché si fida dei dottori. - concluse. - Ma aspetta un attimo. - disse, e subito prese un barattolo colorato posto sullo stesso mobile della borsa. - Per i bravi bambini tengo sempre qualcosa di bello. - affermò. Dopo che aprì il coperchio mi disse di prendere una caramella. Greta allentò l'abbraccio, e dopo aver distolto lo sguardo dall'infermiera, guardò me felice. Smisi di piangere. Le lacrime rimaste sulla faccia caddero lasciando una sensazione di rinfrescante dolcezza. Tuttavia sembrava si fossero rimpicciolite; mi toccai la faccia e avvertii che era bagnata e fresca. Notai anche un lieve calore diffuso sulle guance. Probabilmente era la gioia che usciva dai pori. Pareva una calda brezza; quasi mi allarmai per paura riuscisse a far volare via il foglio sul ripiano. Mi sentivo così rilassato, le braccia leggere e le gambe deboli. - Ne vuoi una? - ripetè l'infermiera, scuotendo il barattolo. - Cosa? - dissi guardandola, come se avessi perso un po' coscienza. Pensai fosse stata una fortuna sentire quel suono, poiché la notizia mi aveva sconcertato. Presi una caramella, e l'infermiera ne offrì una anche a Greta. - Se vuoi puoi andare da tua mamma, ma fai piano che sta riposando. - aggiunse. Corsi da Francesco per chiedere di andare. Entrammo nella stanza dove in un letto candido stava mia mamma, e mi emozionai a guardarla. Vicino al letto vi era un comodino, in cui stava un vaso con una viola. Forse era la mia. - Mamma - dissi vedendola dalla porta. Cercai di avvicinarmi, ma feci solo qualche passo e caddi a terra. In quel momento, non so perché, ma mi piacque sentire le mie gambe dolenti. Forse un po' tremavo, ma non me ne preoccupai. La viola che avevo visto sul vaso ricomparve nella mia mente; fu un'immagine veloce, quasi voleva essere cullata, e mi venne voglia di dormire. - Ciro - fu l'ultima parola che sentii, poi un rumore di passi confuso che si avvicinava a me. Subito la viola ricomparve, ma questa volta la raccolsi; ne cadde un petalo. Mi venne spontaneo abbassarmi per raccoglierlo, ma le mie gambe non riuscirono a reggermi, e chiusi gli occhi, lasciandomi andare come un dente di leone fa col vento.
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