Capitolo ventiduesimo - Senza meta

Il sole mi svegliò quando si era alzato da poco. Illuminò dolcemente il paesaggio, e mi accorsi di aver dormito in una fermata dell'autobus. Vicino la mia panchina c'era un alto orologio grigio che segnava quasi le otto, e una tabella con i diversi orari e le destinazioni degli autobus. Greta dormiva ancora: quell'albore mattutino non le dava molto fastidio, assieme al caldo che già diffondeva; sarebbe stata una difficile giornata se qualche venticello avesse preferito riposarsi, considerato il giorno precedente. - Dove siamo finiti? - pensai; il mio sguardo si perse guardando una bella casa bianca che avevamo di fronte, poi fissò un punto nel vuoto. Alzai un braccio e mi resi conto della necessità di una doccia; avevo perso il conto dei giorni passati a camminare. Ricordai che il libro ci aveva detto che saremmo arrivati in dieci ore circa, poi fissai il cielo: due nuvole lo addolcivano, gironzolando adagio, più lente di una tartaruga tranquilla. - Clock. - l'orologio segnò le otto in punto e Greta, stiracchiandosi, sbadigliò pigramente. - Hai dormito bene? - domandai. Sapevo che dormire sul legno di una panchina era piuttosto amaro; volevo sapere cosa lei ne pensasse. Era una domanda abbastanza spiritosa, ma necessaria, soprattutto in quella situazione, per rendere la consapevolezza dello smarrimento meno preoccupante. - Insomma; mi manca il mio letto. - disse sorridendo. Nonostante le diverse difficoltà avute, continuava a sorridere: ciò mi fece sentire davvero bene; cercai di farlo anche io. - Ieri sera ho visto di sfuggita un albero di ciliegie qui intorno. Facciamo colazione con quelle? - domandò. - Ma sei bravissima! Io ero convinto saremmo rimasti a digiuno. - risposi. L'albero stava poco lontano da dove ci trovavano, più o meno in corrispondenza della curva che aveva segnato la nostra fuga dall'uomo, accanto a due fichi dai frutti non ancora maturi. Una ciliegia particolarmente rossa caduta a terra giaceva vicino a un bel cesto, riempito per metà, sotto la chioma di quell'albero, mentre le altre, penzolanti, erano attaccate ai vari rami. Le foglie sfavillavano alla luce del giorno, ed erano così leggere che spesso si muovevano ondulando lievemente, spinte da delle invisibili brezze percepibili a malapena. - Mia mamma mi diceva spesso che fare colazione con la frutta fa bene. - dissi. - Mi dava la marmellata; è comunque buona. - continuai. Poggiai affabilmente sulle mie dita una ciliegia, cercando di non mettere troppa forza da farla cadere. - Allora ho fatto bene a vedere questo albero! - esclamò compiaciuta. Con una dolce acquolina in bocca presi la ciliegia che avevo toccato e le diedi un morso. Subito un altro, fino a restare con il solo nocciolo in mano. Greta mi osservò, studiando il modo in cui mangiarne una, come se non l'avesse mai fatto, poi mi chiese come era. - Ha un sapore delizioso. - spiegai e buttai il nocciolo a terra. In breve ne mangiammo diverse, altre le mettemmo nello zaino, che iniziò a prendere peso. - Adesso siamo pronti. - disse. Abbassò per un attimo gli occhi a terra, successivamente guardò avanti. - Chi vuole questa bella torta? - si sentì una voce oltre i ciliegi. Dietro questi ultimi vi erano altri diversi alberi, che formavano una specie di piccolo orto, tuttavia non impedivano di intravedere un certo tavolino, distante una decina di metri, di cui me ne accorsi solo in quel momento. Tre bambini, che sembravano avere la stessa età, più piccoli di noi, erano seduti su delle seggiole abbastanza consumate. Un'anziana signora dai corti capelli biondi porse un vassoio con una torta sul tavolo, poi la tagliò delicatamente con un coltello, dandone un pezzo ai tre e ne prese anche lei uno. - Buonissima! - affermò uno. - Nonna sei molto brava a fare le torte! - disse un altro. - Mamma, vieni qui ad assaggiare questa bella torta! - esclamò l'ultimo, correndo verso la porta aperta di una vicina casa piuttosto rurale. Quella semplice scena mi ricordò i miei genitori, principalmente per l'aria di pace che gironzolava lì intorno: era una famiglia unita e la felicità di quella nonna con i bambini ne era la dimostrazione. Io e Greta ci guardammo; capimmo di aver rubato la frutta di quelle persone. Il nostro zaino era ancora a terra, e dopo averci chinato prendemmo la decisione di restituire le ciliegie raccolte, come affitti per la brutta azione commessa. Improvvisamente una farfalla bianca si posò su una mano di Greta. - Oh, che bella! - disse; un raggio di luce colpì le sottili ali. Stavo quasi per mettere una ciliegia nella cesta, quando mi scivolò dalle dita, finendo a terra. La farfalla volò via, spaventata dal rumore della caduta. - Peccato. - continuò delusa, guardandola andare. Quando scomparve, perdendosi tra il verde delle varie piante, chiesi se dovevamo davvero lasciare la frutta. - Quei bambini hanno una torta, noi invece non abbiamo niente da mangiare. Lo so che non si fa, ma... - spiegai. Greta non sembrò voler cambiare idea, e iniziò a riempire la cesta, ignorando quello che avevo detto; nello zaino rimasero delle piccole foglioline dalle evidenti rughe curve. Le poggiai subito le mani sulle spalle. - Dai, non ti preoccupare. - dissi, poi sorrisi in modo da assicurarla alle mie parole. - E se ci scoprono? Cosa facciamo? - rispose. La sua ingenuità mi faceva molto riflettere. Mi venne in mente il ladro che era riuscito a rapinare una farmacia con una pistola. - Greta, scommetto ci avrebbero offerto volentieri una fetta di torta. - affermai. Quest'ultima frase parve avere un certo effetto. Spostò dalla cesta la stessa precedente quantità messa; le foglioline rimaste alla base dello zaino fecero da morbido tappeto. Sentimmo altre voci dei bambini, ma cercammo di farci poco caso. Cominciammo a camminare nella direzione della fermata dell'autobus e guardando l'orologio lì vicino notai che era passata mezz'ora; una nuvola assunse la forma di un cavallo: mi ricordò quello di Carlotta. Prendemmo una strada che sfiorava a sinistra la vicina casa bianca, a causa della presenza di un piccolo pezzo di giardino con una vecchia amaca abbandonata. Inizialmente la zona era piuttosto desolata, con arbusti che si alteravano a lampioni e bidoni dell'immondizia, poi, dopo poche centinaia di passi, le case comparvero sempre più spesso. Quella via si rivelò in breve piuttosto opportuna, dal momento che in breve le macchine divennero frequenti a tal punto che quasi ci impedivano di camminare tranquillamente, non senza una confusa ansia, avendo avvertito qualche ruota stridente sull'asfalto: ciò abbozzava il disegno di un attiguo traffico, ma soprattutto l'imminente arrivo a un centro abitato. Passò un camion rosso; probabilmente colui che guidava non ci notò, anche perché davanti vi era una curva e doveva fare attenzione. Guardò da uno specchio su un palo posto tra le due direzioni, in modo da vedere le macchine che stavano per avvicinarsi. Poi scomparve alla vista, lasciando un cigolio che piano piano si addolcì fino a svanire. Anche noi giungemmo sulla curva, se pur con diversi secondi di ritardo, e come da intuito stavamo per entrare in un nuovo paese: una decina di case ci accoglieva formando una specie di ingresso. Vidi per un attimo quel camion, ma subito si diresse verso altre strade. Questa volta restò soltanto una piccola scia di fumo, che si perse nell'aria; il rumore si mescolò con quello di altri mezzi. In quel momento un clacson rimbombò nelle nostre orecchie: l'autista della macchina si fermò lentamente e abbassò il finestrino per dirci di cercare di non allontanarci dal marciapiede, poi ripartì. Ci scusammo; in effetti ai lati della strada se ne erano formati due, formando un leggero dislivello, ma pensai che il camion ci aveva distratti: eravamo quasi in mezzo alla strada e senza indugio corremmo a destra per non ricevere ulteriori rimproveri. C'era un grande albero poco distante, che dal marciapiede andava ad ombreggiare un pezzo della strada. Si distinse dai vari vasi posti accanto alla porta di alcune case o, maggiormente, sopra i balconi, per abbellirli con un rigoglioso colore verdeggiante; certi ne erano pieni lungo l'intero perimetro e alcuni avevano anche delle piante che cadevano penzolanti per poco più di un metro. In questo modo si interveniva alla mancanza di giardini. Con un improvviso schiamazzo, dall'albero uscirono diversi uccelli che volarono via come spaventati; feci un piccolo sobbalzo. Quattro piume e delle foglie caddero ai piedi dell'albero. Alcuni passanti osservarono la scena, altri invece, occupati a parlare con qualcuno, la ignorarono. Presto quel fatto fu dimenticato, e coloro che avevano voltato lo sguardo per guardare ritornarono a pensare alle loro faccende. - Adesso dove andiamo? - chiesi, anche perché non sapevo neanche il nome del paese in cui eravamo giunti, sperando che Greta riconoscesse quel posto o sapesse cosa fare. Tentennò piuttosto a rispondere, poi disse un perplesso "non lo so"; perplessi eravamo entrambi e se ciò da un lato chiudeva ogni discorso di questo tipo, dall'altro ci illudeva a un imminente arrivo a Celvonia. La verità era che dall'inizio del viaggio ci spostavamo senza sapere davvero dove stavamo andando, guidati solo da quelle approssimate indicazioni ricevute. E se a malapena un libro magico ci poteva dare dei suggerimenti, dovevamo ringraziare il cielo di essere arrivati a trenta chilometri mancanti. Mi venne da pensare a un vago chissà, ma sapevo che continuando a farmi nebulose domande non avrei risolto nulla. Dei ragazzini in bici ci sfiorarono di poco; andavano molto veloci e avvertii una leggera brezza sul braccio. Erano più o meno dieci: gli ultimi cercarono di rallentare quando si avvicinarono a noi. La strada scendeva leggermente e qualcuno lasciò per un attimo le mani dal manubrio, alzandole. Davano l'aria di essere piuttosto spericolati; non sembravano preoccupati dalle varie macchine che passavano. Alcuni pedoni sulle strisce pedonali li fermarono brevemente per passare, poi le bici ritornarono a sfrecciare. Tra quei pedoni vi era una bambina su un passeggino che piangeva. Una donna prese un ciuccio dalla sua borsa e glielo porse; la bimba si tranquillizzò. Guardai quella scena di sfuggita, incuriosito da uno entrato in un bar sul marciapiede di fronte, poiché il primo a destra, diviso dall'asfalto, si era interrotto; attraversammo la strada e passammo nell'altro più largo, mentre quello di sinistra rimase lo stesso. Vi erano dei tavoli e delle sedie davanti la porta di quel bar; la famiglia del passeggino si sedette in due di queste, attorno a un tavolo su cui aveva mangiato altra gente. La donna mise il passeggino tra lei e il suo compagno. Arrivò subito un cameriere, pulì il tavolo con una pezza e tolse gli avanzi. Successivamente gli portò un foglio, che probabilmente era menù, tuttavia quasi tutti facevano colazione con un semplice caffè o con un cornetto. Oltre i tavoli si trovava una panchina che dava sulla strada; un lampione la divideva da questi ultimi. Pensammo di sederci, in modo da chiedere delle necessarie informazioni stradali a qualcuno che sarebbe passato da quelle parti. - Sai qualcosa su mia mamma? - domandai al libro per l'ennesima volta. Ormai la pensavo spesso, anche perché non la vedevo da parecchi giorni. - Mi sono dimenticato di dirti una cosa. - rispose. Mi incuriosii e guardai subito Greta, come impaziente nel sapere quella cosa. Speravo tanto fosse qualcosa di bello. - Quella "e" mancante era stata un avviso. L'ho proprio visto ieri che tua mamma è in coma. - scrisse sulle sue pagine. 

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