VIII - Lonely road, take me home.
Non è mica colpa mia se sono "emotivamente ritardato"!
Un amore di testimone
«Ma quindi in che senso Fitz le ha chiesto di uscire?»
Kirsten, un metro e sessanta di polemica – è di famiglia – incrocia le braccia e si volta a guardarmi.
«Se me lo chiedi un'altra volta, giuro che ti faccio scendere, Rogers», ribatto, ma mi risulta difficile non mettermi a ridere. Ho gli occhi fissi sulla strada, ma so che sta alzando i suoi verso l'alto.
«Esagerato, era una semplice domanda.»
«Che mi hai posto, boh, otto volte?»
La mia accompagnatrice sbuffa e appoggia la schiena sul sedile del passeggero con un tonfo. Per un attimo, nell'auto regna il silenzio. Poi Kirsten parla di nuovo.
«Ma lei quindi che tipo è?»
«Dio, Rogers, non ti dico più niente, basta!» sbotto, senza riuscire a nascondere l'esasperazione. Cosa gliel'ho detto a fare, maledizione, non so mai quado stare zitto.
«Ma non puoi buttare la bomba che nostro figlio ha un appuntamento e poi pretendere che me ne stia zitta!»
«Non è un appuntamento!» ribatto, stringendo le mani sul volante. «Le ha solo chiesto di giocare ai videogiochi. Ai miei tempi non si chiamava appuntamento.»
«Ah, perché secondo te giocheranno ai videogiochi?» mi trafigge con il suo sarcasmo. «Vorrei ricordarti che la prima volta che ci siamo visti da soli, io e te, la tua scusa è stata "ti faccio vedere la mia collezione di vinili". I vinili erano due e mi hai baciata dopo cinque minuti.»
In realtà era solo uno, quello di Elton John vinto per puro culo a una pesca di beneficenza, l'altro me l'aveva prestato Sandy, la psicologa della casa famiglia.
«Ok, se si baciano, qual è il problema?» cambio discorso, punto un tantino sul vivo. «Fitz ha diciassette anni ed è normale che esca con una ragazza.» Le rivolgo un'occhiata di sbieco. «Anche se ha una madre iperprotettiva che vuole tenero ancora sotto una campana di vetro!»
«Io non sono iperprotettiva!» sbotta Kirsten, l'espressione offesa come se le avessi rivolto l'insulto peggiore del mondo. «È solo che...»
Ero convinto mi ricoprisse di insulti a mia volta, invece si interrompe. Sbircio alla mia destra e la becco a mordersi il labbro, come fa sempre quando è nervosa.
«Solo che?» la incalzo. Kirsten sospira.
«Solo che mi sembra strano. Non sono abituata. Fitz è così riservato. È sempre a scuola o con Josh ed Ernie. Non sono abituata a pensiero di lui con una ragazza.»
«Ha diciassette anni, Rogers», ribatto. «È normale che gli piaccia una ragazza, non c'è niente di male.»
«Vorrei ricordarti che noi due, a diciassette anni...»
«Siamo rimasti incinti», concludo la frase, trattenendomi dal roteare gli occhi. «Lo so. Ma Fitz ha più sale in zucca di noi.»
Lo sguardo speranzoso che mi rivolge mi accalora. «Dici?»
«Scherzi? Quel ragazzino ha un'intelligenza che a volte mi fa paura. E poi, non deve andare a Harvard o Yale?»
La mia voleva essere una battuta, ma all'improvviso lo sguardo di Kirsten perde luce.
«Beh, anche io dovevo andare a Yale...» mormora. Sospiro. Ancora con questa storia.
«Rogers, così però non mi aiuti.»
Kirsten ricevette la lettera di ammissione all'Università di Yale quando era già al quarto mese di gravidanza. Rinunciò ad andarci perché l'Ivy League era troppo per una diciottenne con un bambino a carico, quindi ripiegò su un college statale, dove si iscrisse quando Fitz aveva già qualche anno. L'avvocato Rogers e Penelope non l'hanno mai superata e hanno sempre dato la colpa a me. Come se fosse una novità.
«Hai ragione, Morgan. Scusa.»
Che poi, alla fine, abbiamo entrambi frequentato un college statale, ci siamo laureati, facciamo due lavori di tutto rispetto, tutto è andato per il meglio. Non serve per forza una laurea in un college che costa un rene l'anno per vivere una vita normale e dignitosa. Mi volto a guardarla qualche secondo in più, mentre sono fermo all'ennesimo semaforo.
«Andrà tutto bene. Fitz è sveglio. Al massimo si ritroverà con il cuore spezzato.»
Le sue labbra si curvano verso l'alto. «E noi saremo lì per lui.»
«Come due bravi genitori millenials e moderni!» esclamo e mi sento un boomer un nanosecondo dopo. Forse Fitz ha ragione.
«Non posso credere che il mio bambino stia crescendo così in fretta», sospira Kirsten. «Non ero pronta.»
«Nemmeno io», intervengo. «Ma lo sta facendo benissimo. Fitz è un bravo ragazzo. La maggior parte del merito è tuo.»
Lei mi guarda e noto della sorpresa nei suoi occhi, ma sono del tutto sincero. Non scherzo su queste cose.
«Grazie, Morgan.» Mi sembra quasi emozionata. Ci guardiamo per un secondo di troppo, poi scatta il verde e sono costretto a ripartire. Sbatto le palpebre e torno a guardare la strada.
«Chissà quale videogioco sceglieranno», cambio discorso, alleggerendo l'atmosfera. «Spero Mario Kart.»
«Approvo», concorda Kirsten. «Ma se lei sceglie Bowser, non diventeremo amiche.»
«Non dirgli che te l'ho detto, Kirs», aggiungo qualche secondo dopo, con a voce un po' più bassa. «Se lo scopre, si sentirà tradito da suo padre. L'hai detto tu, Fitz è riservato.»
Kirsten inarca le sopracciglia e incrocia le braccia. «Ma per chi mi hai preso? Non sono mica una spia. Non gli dirò nulla.»
Ora sono io a lanciarle un'occhiataccia. «Promesso?»
«Promesso,» ripete, con una mano sul cuore. Tuttavia, non può fare a meno di aggiungere: «Anche se vorrei sapere perché non sono stata informata prima. Voglio dire, sono sua madre. Il contratto genitoriale include una clausola sulle cotte.»
«Parli proprio tu?» mi lascio sfuggire e me ne pento dopo un secondo.
Gli occhi della mia compagna di viaggio si stringono. «Che vuoi dire?»
Davvero non so mai quando stare zitto. Mannaggia alla mia lingua. Respiro a fondo. Potrei lasciar perdere, ma quando mai ho fatto la scelta più intelligente? Ormai l'ho detto, non posso tornare indietro.
«Sai che voglio dire... Bill.»
Come volevasi dimostrare, Kirsten si irrigidisce. «Cosa c'entra Bill?»
«C'entra», ribatto, sforzandomi a mantenere lo sguardo fisso sulla strada. «Ci sentivamo al telefono tutti i giorni quando ero a New York. Tutti i giorni, Kirsten. Non mi hai mai detto che con lui fosse così seria. Poi torno e boom, ti sposi.»
Wow, Dylan, hai detto proprio tutto, eh? Da quanto me lo tenevo dentro e non ne ero nemmeno consapevole? Vorrei – o forse dovrei – voltarmi a guardarla, ma non ho il coraggio e continuo a fissare la strada davanti a me. Il navigatore dice che mancano cinque minuti all'atelier. Nel frattempo, Kirsten sta ancora zitta, ma sento il suo sguardo perforarmi la testa. Alla fine, sento la sua voce.
«Non era così seria all'inizio», mormora e non so se vuole dire altro, perché io non mi trattengo.
«No? Perché a me non sembra», la interrompo, con più foga di quanto vorrei. «Non è che uno si sveglia una mattina e decide di sposarsi. O sbaglio?»
«Non è stato così, Dylan.» Anche lei ha alzato la voce. «Il rapporto tra me e Bill è diventato pian piano più importante e non volevo dirtelo per telefono.»
«Potevi dirmelo di persona.»
«E quando? Sei tornato a malapena a Natale, l'anno scorso.»
«Non rigirare la frittata.»
So che sto toccando su un nervo scoperto, ma non riesco a fermarmi. Lo sta facendo anche lei, ma non è di me che stiamo parlando, mi sento già abbastanza in colpa per non esserci stato per quasi un anno, ma non può essere sempre colpa mia. Non stavolta.
«Allora spiegami», la sfido, quando manca un minuto all'arrivo. «Perché quando ho saputo di lui, era già praticamente il principe azzurro. Perfetto, incredibile, chef stellato e tutto il resto. Mi sono sentito un idiota a non sapere nulla.»
«Non sapevo come affrontare il discorso, ok?» risponde lei, sulla difensiva e con l'aria di poter esplodere da un momento all'altro. «E poi non volevo che pensassi che stessi cercando la tua approvazione.»
Scuoto la testa e mi scappa una risata. «La mia approvazione? Rogers, sei libera di fare quello che vuoi. Ma non puoi aspettarti che passi dall'essere il tuo migliore amico al tuo testimone di nozze senza un minimo di preavviso.»
Parcheggio davanti l'atelier. L'entrata è grande, piena di bianco e di rosa. È così stucchevole che mi sale la nausea. Non so per quale motivo, ma lascio il motore acceso. Forse inconsciamente vorrei scappare e tornarmene a casa. Kirsten non mi guarda, sta fissando il negozio oltre il finestrino.
«Non è stato così semplice per me», dice in un soffio, con un accenno di pena che mi fa quasi pentire di aver aperto bocca. «Non è che mi sono dimenticata di te. È che non volevo complicare le cose. Non volevo complicare noi.»
La parola resta sospesa nell'aria per un momento, un macigno invisibile tra di noi. Noi. Ma noi cosa, Kirsten?
«Già», riesco a parlare. «Non volevi complicare noi.»
Un lungo silenzio cade, interrotto solo dal rumore del motore ancora acceso. Forse dovrei spegnerlo.
«Mi dispiace, Morgan.»
Il suo tono è così sincero che non riesco a rispondere subito. Mi giro verso di lei e le sfioro il ginocchio coperto dai collant. Le sta davvero bene questo vestito blu. Richiamata da mio tocco, si volta anche lei.
«Anche a me», bisbiglio, poi cerco di rimediare. «Rogers, non ce l'ho con te.»
Kirsten solleva un sopracciglio. «Davvero? Perché sembra il contrario.»
Faccio spallucce, forzando un sorriso. «Ormai sono fregato, no? Ti sto accompagnando a scegliere il vestito da sposa.»
Ci guardiamo negli occhi per un lungo istante, finché non sorride anche lei, ma è un sorriso stanco, il suo.
«Guarda che non sei tenuto a farlo.»
Sbatto le palpebre. «A fare cosa?»
«A stare qui con me», dice. «A scegliere questo vestito da sposa. Sono stata un'idiota a chiedertelo.»
«Rogers.» Giro la chiave verso sinistra e il motore si spegne con un tonfo sordo. «Mi sono fatto un'ora di macchina per accompagnarti qui. Quindi adesso noi scenderemo, tu mi farai vedere come ti stanno quei ridicoli abiti, io sceglierò il meno peggio e poi tu mi offrirai il pranzo.» Increspo le labbra in un ghigno. «D'accordo?»
Kirsten solleva le mani, le labbra ormai aperte in un grande sorriso. «D'accordo! Andiamo, che siamo già in ritardo.»
Scendiamo dall'auto e il sole grigio di novembre ci invade. Per un attimo tutto sembra normale. Giusto un attimo. Poi entriamo dentro l'atelier. E questo posto non è affatto normale.
***
Questo posto puzza. Sul serio, l'odore di profumo dolciastro è così forte che ho avuto un giramento di testa non appena ho varcato l'uscio, alle spalle di Kirsten. E poi è tutto così bianco. E rosa. E perlato. E pizzoso. Esiste il termine pizzoso? Insomma, è pieno di pizzo, come di fiori e perché diavolo non alzano l'illuminazione? A cosa serve questa luce soffusa, a creare l'atmosfera? Io non ci vedo, mi fanno male gli occhi a stare così al buio. Mi sento del tutto fuori posto ed è normale che lo sia perché, andiamo, un uomo qua dentro non dovrebbe mai metterci piede, a meno che non sia omosessuale. Sia chiaro, non è uno stereotipo di genere, è la pura e semplice verità. Che diavolo ci faccio qui?
«Ok, allora.» Kirsten si avvicina in fretta al centro della stanza. Vista da dietro, noto che ha i capelli raccolti in un modo che mette in risalto il suo collo sottile e si intravede il tatuaggio che si è fatta a vent'anni, una banalissima F stilizzata. Non dovrebbe sembrarmi così bella, ma lo è. Accidenti se lo è. Perché mi sembra così bella? «Ho ristretto la scelta a tre vestiti. Ora tocca a te aiutarmi a scegliere.»
«Devo proprio?» scherzo, ma non troppo.
«Sì, sei obbligato.»
«Da cosa, dallo Statuto delle Damigelle d'onore?»
Non mi risponde nemmeno. Due commesse appaiono dal nulla, una con un vassoio con un numero spropositato di bicchieri di quello che credo sia champagne e l'altra con un bloc-notes e una penna. Non appena mi notano mi fissano con un certo scetticismo.
«Ah, è venuto anche lo sposo?» chiede quella col vassoio. Mi si blocca l'aria nel petto. Lo sposo?
«Ormai va di moda, sapete?» parla la sua collega, prima che noi possiamo soltanto provare a rispondere. «Anche se io sono una all'antica, secondo me lo sposo il vestito deve vederlo per la prima volta all'altare.»
Oh, Santi numi. Mi hanno scambiato per lo sposo. Vorrei che una voragine si aprisse e mi inghiottisse. Come se tutto ciò fosse esageratamente spassoso, Kirsten ridacchia. «Oh, lui non è lo sposo.»
La commessa all'antica solleva un sopracciglio. «E chi è?»
Un coglione, ecco chi sono.
«Il mio migliore amico.»
Le due donne si dedicano a studiarmi, le teste inclinate allo stesso livello.
«Il migliore amico, eh?»
«Beh, in realtà non solo...» Kirsten mi lancia un'occhiata. «È anche il mio ex. E il padre di mio figlio. E sarà il mio testimone/damigella d'onore.»
La commessa più giovane, che ha poggiato il vassoio di champagne su un tavolo di vetro, spalanca gli occhi. «Tutte queste cose?»
Stavolta sono io a parlare. «Sì, beh, sto pensando di entrare nel Guinnes dei Primati.»
Bravo Dylan, con l'ironia si risolve sempre tutto. La ragazza abbozza un sorriso. «Beh, di sicuro conosce bene la sposa.»
Non so se ridere per mascherare l'imbarazzo o andare direttamente a nascondermi, quindi opto per afferrare il primo bicchiere di champagne, sperando che non si svuoti troppo presto. Con mia grande fortuna, le tre donne si eclissano a parlare di roba da femmine e mi ignorano. Perfetto, non aspettavo altro. Prendo a sorseggiare il mio drink e a controllare il telefono, scrollando il feed di Instagram con pigrizia e andando a spulciare gli ultimi risultati dell'NBA. Mi piacerebbe portare Fitz a una partita a New York, prima di Natale, sempre se i prezzi non sono troppo proibitivi. Ho quasi un anno di assenza da recuperare, non so se la macchina è stata sufficiente per farmi perdonare.
«Ehi, fidanzato barra migliore amico barra non mi ricordo!»
Per poco non mi cade il cellulare per terra. Quella commessa mi ha fatto prendere un colpo. Mi volto verso di lei e la vedo rivolgermi uno sguardo malizioso. «Pronto per il primo abito?»
No, non sono pronto. Non sono affatto pronto allo spettacolo che mi si pone davanti. Kirsten è davanti allo specchio, con un abito stretto, aderente, senza gonna. Nel senso, non ha una di quelle gonne vaporose un po' imbarazzanti che si vedono in tanti matrimoni. Questo abito è semplice e le sta bene, credo, la parte di sopra ha delle spalline sottili e una scollatura che lascia poco all'immaginazione. Sono piuttosto senza parole. Incrocio il suo sguardo.
«Allora?» Fa una giravolta su sé stessa per mostrarmi l'effetto completo.
«Uhm...» È tutto quello che riesco a dire. Non è che il mio cervello riesca a formulare dei grandi pensieri di senso compiuto, al momento.
«Non male», interviene la commessa più adulta, scrutandomi senza che le abbia dato il permesso. «Ma forse vogliamo vedere il prossimo, vero, damigella d'onore?»
Sbaglio, o c'era una nota di scherno sul "damigella d'onore"?
«Perché no», borbotto, stranito. Kirsten lo trova divertente e ridacchia.
«Ok, passiamo al prossimo.»
Scompare di nuovo dietro la tenda e io approfitto per prendere dell'altro champagne. Spero di non incontrare nessuna pattuglia al ritorno, ci manca solo che mi ritirino la patente e allora sì che divento il padre dell'anno. Sto divagando. Fa caldo qui dentro, maledizione, ma un po' di aria condizionata, no?
Tempo cinque minuti – complimenti per la velocità – Kirsten esce di nuovo fuori dal camerino, stavolta con indosso un abito del tutto differente. È pieno di tulle e pizzo, con maniche lunghe, la scollatura coperta e tanti, troppi, fiori ricamati. Mi dà una sensazione più tradizionale, quasi più romantica, ma su di lei tanto sta bene tutto.
«Beh?» mi chiede, mentre le viene sistemato il velo. Io respiro a fondo. Devo dire qualcosa di sensato stavolta.
«Beh, è... Bello. Molto bello.»
Complimenti, Dylan. Davvero un commento assennato. Sento le commesse soffocare delle risatine, ma mi impongo mentalmente di non reagire. Kirsten mi lancia un'occhiata perplessa attraverso lo specchio. «Ma non ti convince del tutto.»
«No, cioè... È stupendo», continuo a rendermi ridicolo. Cosa vuole che le dica? Che lei è stupenda? Che mi sento un perfetto idiota a stare qui, in questo luogo soffocante, a bere champagne scadente e ad assistere alla sfilata di moda in abito da sposa della mia ex?
Le commesse decidono che è il caso di intervenire. «Lui vuole il terzo, Kirsten», dice la giovane. Ma che ne sa lei di quello che voglio io?
«Ah, sì?» ribatte per l'appunto la mia ex, un sopracciglio verso l'alto «E proviamolo, allora.»
Quando riemerge dalla tenda per la terza volta, il mondo intorno a me si ferma. L'abito che indossa è semplice e raffinato, di un bianco accecante, che scivola lungo il suo corpo morbido e perfetto, il seno avvolto da un corpetto di pizzo che lo mette in risalto. È luminosa, quasi irreale. Non riesco a distogliere lo sguardo.
«Dunque?»
Si gira verso di me, le mani piccole che accarezzano la stoffa del vestito. Io cerco di rispondere, ci provo davvero, ma le parole mi muoiono in gola. Tutto quello che riesco a fare è fissarla. Lei alza il volto e i nostri sguardi si incontrano nello specchio. Per un attimo, il mondo sembra restringersi fino a contenere solo noi due.
Noi due vent'anni fa, quando ci siamo guardati per la prima volta negli occhi durante il corso di teatro. Lei era lì da primo anno ed era una di quelle che non aveva paura di dire la sua. Io ero il ragazzo nuovo e timido che si nascondeva nelle ultime file. Mi ha sorriso e io mi sono perso.
Noi due quando abbiamo perso la verginità, insieme, sulla riva del fiume, al tramonto, rischiando che qualcuno ci vedesse. Non era perfetto, ma era nostro, il nostro momento e nessun altro avrebbe mai potuto capirlo.
Noi due quando, tra le lacrime, mi ha confessato di essere incinta. Avevamo appena diciassette anni, ma mi sembrava più adulta di chiunque avessi mai conosciuto. L'ho amata di più in quel momento che in qualsiasi altro.
Noi due quando è nato Fitz. Quando ha stretto la mia mano così forte che pensavo me l'avrebbe rotta, quando ho pianto quando l'ho vista tenere nostro figlio tra le braccia.
Noi due a casa sua, di notte, con Fitz addormentato, a parlare fino all'alba. Di tutto e di niente. Dei suoi sogni, dei miei sensi di colpa, del futuro che non eravamo sicuri di meritare.
Noi due durante i nostri lunghi, infiniti, litigi per qualsiasi cosa. Per il tempo che non passavo con lei, per i miei silenzi, per i suoi rimpianti. Per il modo in cui ci amavamo e ci facevamo a pezzi allo stesso tempo.
Tutto ha portato a questo momento. A me che la guardo con questo abito da sposa e penso di non aver mai visto niente di più bello in tutta la mia vita.
«Sei la più bella della stanza, Kirsten», dico alla fine, in un soffio, quasi come se mi facesse male.
Lei si volta, la sorpresa nei suoi occhi. «Non dire scemenze», balbetta, quasi imbarazzata. Le commesse si scambiano un'occhiata, ma io non riesco a vedere altro che lei. Lei con quest'abito che le sembra cucito addosso, con il quale camminerà lungo la navata per raggiungere un uomo che non sono io.
E per la prima volta, capisco che l'ho persa davvero.
«Pensi sul serio che sia quello giusto?» parla di nuovo. Ci metto qualche secondo a riuscire a elaborare una risposta. Parla del vestito o dello sposo? Perché io non lo so.
«Sì», commento, più onesto che mai, perché non credo che possa esserci un vestito più perfetto per Kirsten. «Bill resterà senza parole quando ti vedrà.»
Le sue guance diventano rosse e un sorriso dolce si apre sul suo volto.
«Allora è deciso!» esclama. «Grazie, Morgan.»
Figurati, non c'è di che. Kirsten rientra nel camerino, io butto giù l'ultimo sorso di champagne, cercando di ignorare il modo in cui il cuore mi martella nel petto. Dannazione, Morgan, datti una calmata. È un maledetto abito da sposa, che le sta da Dio, ma è solo un abito, che indosserà per sposare Bill, il perfetto Bill, l'uomo giusto per lei. Perché tu, caro Morgan, non sei altro che l'ex, il migliore amico, il padre di suo figlio, la sua damigella d'onore.
Niente di più.
Note di Greta ❤
Un po' in ritardo, lo so, ma l'ispirazione è tornata e le cose cominciano a farsi interessanti. Nel prossimo capitolo ci sarà un bel colpo di scena che scatenerà delle dinamiche che ci porteremo fino alla fine della storia. Dylan, intanto, sta cominciando a prendere contezza dei suoi sentimenti. Sarà forse troppo tardi?
Come sempre, vi aspetto nei commenti! Enjoy!
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