IX - Time is running out.
Non mi aspetto niente, sono già deluso.
Malcom in the middle
Kirsten ha mantenuto la promessa e ha offerto il pranzo, ma il mio stomaco era totalmente chiuso. Non per il vestito da sposa, o almeno, non soltanto per quello. Il pensiero di incontrare Gibson mi ha aiutato a non riflettere troppo sul mio stato emotivo dopo l'infernale esperienza all'atelier, ma non so se è stato un bene. Non riesco a capire cosa voglia da me. Lo so che la casa-famiglia ha dei problemi: i ragazzi sono troppi rispetto ai dipendenti e ai volontari, la struttura ha bisogno di una ristrutturazione, le ultime raccolte fondi potevano andare meglio. Sento odore di cazziatone da parte dal capo. O di licenziamento. Che faccio se mi licenzia? Ho speso quasi tutti i miei risparmi per la macchina di Fitz, devo fare da testimone a Kirsten, quindi devo affrontare tutta una serie di spese non ben identificate nel corso dei prossimi mesi, Fitz l'anno prossimo andrà al college, e l'assicurazione sanitaria? Tutti i dipendenti della "Hands for the future" hanno l'assicurazione compresa nel contratto – e vorrei ben vedere, è una Onlus – se mi caccia come faccio a sopravvivere, e se mi ammalo?
«Andrà tutto bene, stai tranquillo», ha provato a consolarmi Kirsten, ma io non le ho dato retta. Io sono una di quelle persone che pensa sempre al peggio e la maggior parte delle volte ho pensato bene, dunque mi preparo a una batosta catastrofica che terminerà in una sbronza triste al bar di Ned dal quale Rick sarà costretto a riportarmi a casa sulle spalle.
Le tre arrivano prima del previsto. L'ascensore si apre al ventisettesimo piano e Kirsten mi segue in un atrio circondato da pareti di vetro. L'insegna scintillante "Hands for the Future" domina la reception in modo molto cafone. Lettere lucide, retroilluminate da una luce bianca che sembra gridare "ehi, guardatemi, sono fortissimo!". Ogni volta che entro qui dentro, non posso fare a meno di chiedermi se sappiano che siamo una Onlus e non una multinazionale che importa petrolio o costruisce grattacieli. Kirsten mi lancia un'occhiata di incoraggiamento, insieme a un sorriso timido, ma io ho le viscere intrecciate.
«Tutto ok?» chiede sottovoce.
«Non lo so», rispondo onestamente. «Mi puzza troppo, questa cosa. Se Gibson ti convoca nel suo ufficio, non è per fare una chiacchierata del più e del meno.»
«Ma magari è per qualcosa di bello!» esclama Kirsten con tutta la positività che la contraddistingue. «Non fasciamoci la testa prima di rompercela.»
Ha usato il plurale e la cosa mi fa sorridere. Formalmente non c'entra niente con la casa-famiglia, ma è sempre stata una di noi, una della gang della casa-famiglia, sin da quando ci vivevo anche io. Ho perso il conto di tutte le volte in cui ci ha dato una mano senza chiedere nulla in cambio.
«Signor Morgan», mi accoglie la receptionist, elegante nel suo tailleur grigio chiaro. «Il Signor Gibson la sta aspettando.»
Una fitta di ansia mi colpisce il ventre, mentre rispondo alla con un cenno del capo. L'ufficio di Gerald è il più grande di tutti, con una vista mozzafiato sul parco principale di Hartford. In lontananza si intravede il fiume che attraversa la città, il Connecticut, e ancora una volta mi ritrovo a pensare a che razza di idiota fosse quello che ha chiamato il fiume come lo Stato in cui si trova. Un po' di fantasia, no? Beh, dopotutto noi americani non siamo fantasiosi. Abbiamo copiato i nomi delle città di mezza Europa.
Sto ancora pensando a quando mi hanno portato in gita a Roma, in Georgia, ed ero convinto che andassimo in Italia, quando Gibson alza lo sguardo dai documenti che sta leggendo e ci nota. È un uomo elegante, con il suo completo che costa quanto il mio stipendio, ha i capelli brizzolati troppo folti per uno della sua età – spero di arrivarci così a sessant'anni - e un sorriso mellifluo. Ha proprio l'aspetto da amministratore delegato, uno di quelli che ha frequentato un ottimo college pagato da papà, ha fatto esperienza in aziende di dubbia moralità e poi ha deciso di ripulirsi la coscienza nel mondo delle Onlus. Quando il Sindaco di Riverview decise di cedere la casa-famiglia alla "Hands for the future", lo fece per questioni prettamente economiche: pesava troppo sul bilancio comune. Affidarsi a una Onlus professionista era l'unico modo per non chiudere. Io non ero d'accordo, ma non abbiamo potuto fare altrimenti. Io e Gerald ci guardiamo negli occhi, due uomini opposti in qualsiasi ambito: passato, presente, futuro.
«Dylan!» esclama con un entusiasmo che mi disturba, mentre si alza dalla sua poltrona di pelle per stringermi la mano. «Che piacere vederti.»
Mi sforzo di ricambiare il sorriso. «Anche per me, Gerald», mento.
Il CEO si dedica alla mia accompagnatrice, accogliendola con un'espressione da provolone che mi fa ribollire il sangue, ma Kirsten si limita a stringergli la mano con educazione. Ci invita a sederci, ci offre tè, acqua, caffè, quello che vogliamo, così dice, vuole che siamo a nostro agio. Continua a sorridere, a parlare del più e del meno, come se la mia presenza qui fosse dovuta a una visita casuale, come se non fossi stato convocato appositamente.
«Gerald...» esordisco, dopo aver ringraziato la stagista sottopagata che mi ha portato il caffè. «Lungi da me essere scortese, ma vorrei conoscere la ragione per la quale sono stato convocato qui.»
«Dylan», parla, la voce perfettamente composta, lineare, con il tono giusto, da amministratore delegato abituato a fare questi discorsi. «Come già saprai, situazione della casa-famiglia sta diventando complicata. I fondi sono sempre più bassi e, purtroppo, le nostre risorse non sono illimitate.»
Cazzo, lo sapevo. Lo sapevo che era un problema di soldi, fanculo, lo sapevo, cazzo. Stringo le labbra con forza, mentre un conato di sale lungo l'esofago, ma lo rimando giù.
«Sì, ne sono consapevole», ribatto, cercando di non far trasparire il fuoco che ho dentro. «E per questo stiamo cercando di trovare soluzioni. In realtà, abbiamo un piano per raccogliere i fondi necessari.»
Piano che spero non mi chieda di spiegare perché non saprei cosa dirgli. Gerald soppesa lo sguardo su di me. I suoi neuroni girano sotto la sua fronte sudaticcia.
«D'accordo, è inutile girarci intorno. Te lo dico chiaramente: la casa-famiglia è in perdita. Non possiamo permetterci di mantenerla operativa. Verrà chiusa a breve.»
Per qualche secondo perdo l'udito. Non sento niente e credo che mi stiano fischiando le orecchie. La nausea aumenta, mi sento come se mi avessero preso a cazzotti lo stomaco. Non può aver detto che la casa-famiglia verrà chiusa. Non può, non ci credo, è uno scherzo. Credo di aver bisogno di urlare. Sì, dovrei proprio farlo, aprire la bocca e urlare fino a non avere più voce. Solo che non posso farlo, non posso perdere il controllo. Non posso permettermi di perdere la calma adesso. Non davanti a Gibson. E allora deglutisco, mandando giù il cuore che mi è salito fin su in gola e punto gli occhi dentro quelli di ghiaccio del mio superiore.
«Stai scherzando?» esclamo, con un tono di voce che non riesco ad abbassare. «Quella casa è tutto per quei ragazzi. È la loro famiglia, la nostra famiglia! Non puoi chiuderla come se fosse un dannato negozio!»
Ok, forse ho perso un po' la calma. Ho il respiro affannato, mentre sento la mano di Kirsten afferrare la mia. Questa stretta mi tranquillizza.
Gerald si appoggia allo schienale della sedia, le mani giunte sullo stomaco rigonfio. «Capisco che per te sia difficile, Dylan, ma non ci sono alternative. Le risorse sono limitate. Dobbiamo concentrare i fondi sulle strutture che possono servire più persone, con più efficienza.»
Lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo, come se stesse leggendo il bollettino meteo. E questo mi fa salire il sangue al cervello. Lascio la mano di Kirsten e mi alzo con uno scatto.
«Efficienza?» esplodo. «Questa non è una catena di fast food, Gerald. Parliamo di vite. Di bambini che hanno già perso tutto.»
Kirsten mi sfiora il braccio, quasi a cercare di riportarmi a sé, ma io non riesco a fermarmi. «Quella casa ha fatto la differenza per me, per mia sorella, per tanti altri ragazzi. Lo sai benissimo cosa significa per me. Non è solo un tetto sopra la testa, è un rifugio per chi non ha niente. E tu vuoi chiuderla perché non è abbastanza "efficiente"?»
Gerald sospira, scuotendo la testa come se fossi un caso disperato, un bambino che non riesce a capire una cosa così ovvia. «Capisco il tuo legame con quel posto», parla di nuovo, senza guardarmi più. «Ma questa è una decisione finanziaria. Non ci sono alternative.»
«Trovane una!» urlo, senza più ritegno.
«Dylan...»
È la voce di Kirsten. Il suo tono preoccupato mi fa tornare in me. Chiudo la bocca, respirando a fondo, nel tentativo di riprendere possesso del mio colpo. Mi sento in imbarazzo, potrei aver esagerato. Mi siedo di nuovo e torno a guardare l'uomo di fronte a me. Lui non sembra affatto turbato dalla mia scenata.
«In realtà, non tutto il male viene per nuocere», torna a parlare. «Non ti ho convocato solo per parlarti della chiusura della casa-famiglia.»
Sollevo le sopracciglia verso l'alto. «Che intendi? Che altro c'è?»
Gerald si sistema gli occhiali sul naso. «Voglio offrirti una promozione.»
Credo di non aver inteso bene. «Una promozione?»
«Sì», continua lui. «Quando la casa chiuderà, i ragazzi verranno trasferiti in una struttura più grande e meglio organizzata qui a Hartford. E tu potrai venire con loro.» Fa una pausa strategica. «Sempre se vorrai, ovviamente.»
Silenzio, di nuovo. Sento solo il ronzio delle luci al neon sopra le nostre teste, il respiro di Kirsten, il battito impellente del mio cuore nelle orecchie.
«Vuoi che venga a lavorare per te.». Non è una domanda, è un'affermazione di cui non sono ancora in grado di comprendere appieno il significato.
Gerald fa sì con la testa. «Esatto. Si tratta di un ruolo di supervisione nella nuova struttura, con uno stipendio molto più alto. Sarebbe un grande passo avanti per te, Dylan.»
Mi scappa da ridere. Questo bastardo sta davvero cercando di comprarmi? Mi alzo, le mani nelle tasche dei jeans, voglio evitare di sbatterle sulla scrivania. Lo fisso con tutta la freddezza di cui sono capace. «Mi stai dicendo che, mentre chiudi la casa a cui ho dedicato tutta la mia vita, il posto in cui sono cresciuto, io dovrei venire a lavorare qui, per qualche soldo in più?»
Gerald socchiude gli occhi. Respira a fondo, per poi dedicarmi uno sguardo pieno di accondiscendenza. «Non sarebbe solo qualche soldo in più.»
Mi lascio andare a una risata amara. «Non ho bisogno dei tuoi soldi.»
«Dylan, so che è difficile per te, ma devi guardare la realtà.» Il tono dell'amministratore delegato non è più indulgente. Ora si sta innervosendo. «La casa-famiglia di Riverview è in perdita. Non possiamo permetterci di mantenerla aperta. È una decisione inevitabile.»
La domanda mi esce fuori prima che me ne renda conto. «Quanti soldi ci vogliono?»
Solleva entrambe le sopracciglia. «Scusa?»
«Quanti soldi servono per tenerla aperta?»
Non riesco a decifrare lo sguardo del mio capo. Non so se è uno sguardo compassionevole, perché gli faccio pena, oppure se si sta trattenendo dallo scoppiare a ridere per l'assurdità della mia domanda. Sta di fatto che attende qualche secondo prima di rispondere.
«Centocinquantamila dollari. Tra la ristrutturazione, le fatture da saldare, gli stipendi arretrati, siamo più o meno su quella cifra lì.»
Un altro cazzotto. Più forte, massiccio, dritto nello stomaco. Centocinquantamila dollari. È una cifra enorme. Come diavolo ci siamo arrivati? È vero, negli ultimi tempi sono venuti molti ragazzi e abbiamo dovuto inevitabilmente assumere gente nuova e lo sapevo già di mio che le entrate non erano pari alle uscite, ma non credevo che fossimo messi così male. Certo, non è che la Hands for the future sia stata molto di aiuto. Ho fatto più volte richiesta di fondi ulteriori, ma erano sempre in ritardo oppure c'era qualche problema nell'erogazione. All'improvviso mi viene in mente una cosa. Qualche mese fa è stata chiusa un'altra casa-famiglia, sempre della nostra Onlus e sempre nella nostra stessa contea. Non siamo i primi e penso proprio non saremo gli ultimi. Vogliono tagliare i costi, spostando i ragazzi tutti nelle sedi centrali, più spaziose, magari con più personale, ma che di certo non possono dare loro ciò che so che hanno a Riverview. Noi quei ragazzi li amiamo. Tutti, indistintamente, sia che stiano con noi per qualche mese o per tutta l'adolescenza. Il loro benessere fisico e psicologico viene prima di tutto. Non posso permettere che tutto finisca. Anche se il solo pensiero di quella maledetta cifra mi congela lo stomaco.
Guardo negli occhi Gerald. Aspetta che io mi arrenda, vuole che io mi arrenda. Che scuota la testa, che capisca che è una missione senza speranza e che accetti il suo dannato lavoro. Ed è proprio questo a farmi decidere.
Torno a sedermi. Incrocio la gamba destra sulla sinistra e lo fisso. «Li troverò».
Il Signor Gibson solleva un sopracciglio. «Come dici?»
«Troverò quei soldi.» La mia voce è sicura, mentre io non lo sono per niente, ma non importa. «Non so come, ma puoi stare sicuro che la nostra casa-famiglia non chiuderà.»
Lui mi guarda per un lungo istante, poi sorride. Un sorriso divertito, il sorriso di un imprenditore di sessant'anni che trova molto spassoso ciò che un suo dipendente un po' troppo ingenuo sta dicendo. «Dylan, ragazzo», scuote la testa. «Apprezzo la tua determinazione, davvero. Ma non è fattibile.» Questo tono paternalistico mi sta facendo salire il sangue al cervello. «Parliamo di centocinquantamila dollari, non di qualche migliaio. Dove pensi di trovarli? Vendendo biscotti porta a porta? Facendo una lotteria di quartiere?»
«Ti ho detto che non lo so ancora», ammetto, anche se l'idea della lotteria non è mae. «Ma non so se tu sai che noi di Riverview non ci arrendiamo senza combattere.»
Quando mi ci metto so essere molto teatrale. Il CEO sospira di nuovo, poi allarga le braccia. «Se credi davvero di poterci riuscire, allora buona fortuna.» La sua voce è accondiscendente, ma dallo sguardo che mi rivolge è chiaro che non crede neanche per un secondo che io ce la possa fare. «In ogni caso, la mia proposta è sempre valida.»
Ma che magnanimo. Mi giro senza aggiungere altro e mi dirigo verso la porta. Kirsten mi segue, ma prima di uscire, Gerald parla di nuovo.
«Ah, dimenticavo. Il 30 aprile è il giorno previsto per la chiusura della casa-famiglia. Avete quattro mesi per la vostra impresa. Giorno più, giorno meno.»
Pezzo di merda. Non gli rispondo, sbatto la porta e mi dirigo a grandi falcate verso l'ascensore, senza nemmeno salutare la receptionist, con Kirsten al mio fianco. Lo troviamo aperto e le porte si chiudono dietro di noi. Mi appoggio alla parete e chiudo gli occhi, mentre il cuore batte forte e il respiro si affanna.
«Dylan...»
Apro gli occhi e guardo la mia migliore amica.
«Ho fatto una cazzata, vero?» le chiedo, la voce più fragile di quanto vorrei.
Lei mi osserva per un lungo momento. La sua mano mi sfiora la guancia e la vedo sorridere. «Non hai fatto nessuna cazzata», mormora. «Ce la possiamo fare, ma sarà difficile, Morgan. Molto difficile.»
Sento un piccolo sorriso affiorarmi sulle labbra. «Ma noi non ci arrendiamo mai, vero?»
Kirsten mi risponde con un abbraccio. Mi ritrovo con il viso tra i suoi capelli mossi, mentre le mie braccia si stringono attorno alle sue spalle. Non ho intenzione di perdere questa battaglia. Questa casa è tutto per me, come è tutto per Helen.
E per ogni ragazzo che l'ha mai chiamata casa.
Note di Greta ❤️
Ma ciao a tutti! Io arrivo sempre con i miei tempi, stavolta sono stata più veloce, dai! Insomma, un'altra fonte di stress per il nostro Dylan: la casa a cui ha dedicato tutta la sua vita sta per chiudere, ma lui non si arrende. Adesso arriva il bello ed entriamo nel vivo della storia!
Spero che i capitoli siano di vostro gradimento, e grazie a tutti, sempre.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top