I - Wishing and hoping.
Perché sono sempre l'ultimo a sapere le cose, perché?
Aldo, Giovanni e Giacomo - Tre uomini e una gamba
Dylan
A quanto pare, tutti stavano aspettando me. Come al solito, aggiungerei e, come al solito, non mi importa, non per davvero. La mia famiglia è abituata al mio ritardo, soprattutto Kirsten: dopo diciotto anni ha smesso di cercare di farmi arrivare puntuale. Ha capito presto che era una causa persa: arrivare in ritardo è semplicemente una parte di me, una caratteristica che non cambierà mai—o migliorerà. In effetti, ero in ritardo anche diciassette anni fa, ma allora era troppo impegnata per accorgersene, a differenza di sua madre che non perde mai occasione per ricordarmelo.
A ogni modo, finalmente sono davanti alla porta e mi sto spezzando un braccio mentre cerco di suonare il campanello con il gomito e contemporaneamente di tenere su questo pacco enorme con entrambe le mani. Avrei potuto appoggiarlo a terra, ma ci ho pensato troppo tardi. Oltretutto sto crepando dal freddo, perché tra una settimana è il Ringraziamento e vado ancora in giro con la giacca di pelle. Che idiota.
Ad aprire la porta è Penelope Rogers.
«Guarda un po', Dylan è di nuovo in ritardo, proprio come diciassette anni fa.»
Cosa avevo detto? La madre di Kirsten è la persona più insopportabile che abbia mai incontrato, ma almeno è educata—anche se in un modo un po' inquietante, una di quelle vecchie signore bionde americane che dicono di essere democratiche ma che hanno palesemente votato per Trump. Me la immagino con un cappellino rosso con la scritta MAGA nascosto in cantina.
La signora Rogers, vedova del famoso avvocato Leonard Rogers, mi odia dal primo momento in cui mi ha visto mano nella mano con sua figlia, quando avevamo quindici anni. Il suo odio non si basa sulle mie discutibili scelte di vita, come il fatto di non aver voluto giocare alla famiglia felice a diciott'anni ma di essermi limitato a fare il papà, ma sulla mia provenienza. Insomma, come poteva un orfanello senza un soldo pretendere di stare insieme alla figlia dell'avvocato top di Riverview e dintorni? Alla fine c'ho fatto un figlio e comunque i soldi sono relativi. Eppure lei mi odia lo stesso.
«Beh, siamo una famiglia che dà valore alle tradizioni, Penelope!»
Grazie al cielo c'è anche mia sorella. È l'unica in grado di tenere testa a Penelope. Potrei farlo anche io, dato che ogni volta che sono costretto a condividere lo stesso spazio con lei sento l'irrefrenabile impulso di strozzarla e occultare il cadavere, ma mi trattengo solo perché è la madre di Kirsten. Anche se a volte posso sembrare l'emblema del caos, ho i miei limiti. Così mi sforzo in un sorriso educato, reprimendo i miei istinti omicidi, e incrocio lo sguardo della signora Rogers.
«Ciao, Penelope. Sono in ritardo perché ci è voluto più tempo del previsto per prendere il regalo che ho qui tra le mie mani. Spero che non abbiate cominciato senza di me.»
«Nessuno ha cominciato senza di te, Morgan!» mi chiama una voce familiare. «Su, entra, la cena è quasi pronta.»
"Quasi pronta" non significa pronta, quindi tecnicamente sono in perfetto orario. Supero Penelope ed entro, seguendo la voce dell'unica persona che mi chiama Morgan. Attraverso il lungo atrio di casa di Kirsten, l'ho fatto talmente tante volte, in questi diciassette anni. La conosco come le mie tasche, a volte la sento più casa del mio appartamento. Era dei suoi genitori ed è la classica abitazione che ci si aspetta di trovare in una cittadina americana come Riverview. Si trova non molto distante dal centro, vicino alla scuola, al centro di consulenza dove lavora Kirsten, accanto a ogni servizio utile. Il luogo perfetto per crescere una famiglia, anche se noi non siamo mai stati una famiglia come tutte le altre. C'è anche una stanza per me, dove agli inizi e per molti anni, in realtà, mi fermavo a dormire quando serviva. Poi pian piano ho ridotto i pernottamenti e nell'ultimo anno non sono mai rimasto la notte qui, anche perché non ci sono stato quasi mai. Questo posto contiene dentro di sé talmente tanti ricordi che a volte fatico a gestirli. Conosco a memoria ogni quadro, ogni difetto della carta da parati, ogni suppellettile, anche se forse oggi c'è qualcosa di diverso. Tipo che le foto sul mobile all'entrata non sono le stesse di sempre. Sbatto gli occhi. Quella foto di noi tre era sempre lì, ora non c'è più. Forse Kirsten l'ha messa in un luogo dove può vederla meglio? Una strana sensazione di disagio mi attanaglia lo stomaco, ma non ho tempo per pensarci troppo.
Arrivo in soggiorno e sì, ci sono proprio tutti. Mia sorella Helen con il mio migliore amico Lee, che ha avuto la discutibile idea di sposarla tre anni fa, Rick, il mio altro amico fraterno, le migliori amiche di Kirsten, Claire e Megan, single incallite come da tradizione, Penelope che giocherella con il suo chihuahua bavoso, visibilmente compiaciuta da tutta quella bava sulle mani. Distolgo lo sguardo per evitare di vomitare sul tappeto persiano che la cara Mrs Rogers si vanta di possedere dal primo anno di matrimonio. Ho sempre odiato quel tappeto. Spero che quel cane prima o poi ci lasci un ricordino sopra.
Comunque, ho una buona scusa per il mio ritardo. Ci ho messo quasi un'ora e mezza per ritirare quel benedetto regalo e altri quaranta minuti per arrivare a casa di Kirsten, quindi non è proprio colpa mia se tutti sono già qui con un bicchiere di vino in mano – credo che Helen sia almeno al secondo. In tutta onestà, non mi importa granché di cosa pensa la mia famiglia di me. C'è solo un'opinione che conta ed è quella della persona che è appena giunta in soggiorno.
«Sei in ritardo, papà.»
Gli angoli delle labbra vanno verso l'alto. «Lo so, ma ho una buona scusa.»
Fitz abbassa lo sguardo verso il basso e vedo i suoi occhi allargarsi. Non si aspettava una scatola alta quanto lui e la sua reazione mi fa gongolare parecchio. Si inginocchia per aprirlo, le sue mani si muovono emozionate. Non immaginerà mai cosa c'è dentro. È parecchio grande, potrebbe benissimo contenere, che ne so, una batteria o una montagna di vestiti. Mio figlio inclina la testa e mi guarda con quell'espressione sospettosa così tipica di lui.
«Che mi hai regalato?» domanda, con un sorriso che trapela il suo imbarazzo. Non gli piace stare al centro dell'attenzione, anche se si tratta di noi. Non ci sono i suoi amici, stasera, Kirsten ha voluto organizzare una cena di compleanno solo con familiari e zii acquisiti. Gli faccio l'occhiolino. «Sappi solo che questo regalo potrebbe cambiare le tue serate del venerdì sera per sempre.»
Fitz scuote la testa, ridendo. È cresciuto in fretta, mio figlio, anche se per me è ancora il nanerottolo che mi faceva in continuazione domande su come funzionava il mondo e che si addormentava sul divano accanto a me, proprio dentro questo soggiorno. Io ero solo un ragazzino e del mondo non sapevo niente, però cercavo di non darlo a vedere e di mostrare una sicurezza che non avevo. Volevo solo essere un bravo papà. A volte penso a quanto sia assurdo che Kirsten e io siamo riusciti a creare una persona così brillante. Fitz è tutto sua madre, è vero, ma c'è un piccolo pezzo di me dentro di lui, quella scintilla di curiosità, quel desiderio di andare oltre, di superare i confini, di scoprire che c'è altro rispetto a quello che tutti ci raccontano.
Kirsten entra in soggiorno e mi lancia uno sguardo misto tra il disappunto e l'affetto. Ha quel sorriso di lieve rimprovero che riserva per me quando, come adesso, faccio qualcosa di discutibile. Cavolo, quanto è sexy stasera. Non l'ho vista per un po' e mi sembra proprio che negli ultimi mesi sia diventata più bella. Non so come sia possibile, di solito quando si invecchia si dovrebbe peggiorare, ma Kirsten è sempre più wow. Le sono cresciuti i capelli, ha messo su qualche chilo – e meno male, era diventata troppo magra – e ha quel sorriso che mi schianta il cervello ogni volta. Quel vestito lilla le sta da Dio.
So già che questo regalo non le piacerà. Ne abbiamo già parlato, più di una volta, ma io non ho accettato alcun compromesso. Mio figlio se lo merita. Nel frattempo, quest'ultimo sta scoprendo che in realtà, la scatola non era solo una, ma dentro ce n'è un'altra e un'altra ancora. E un'altra.
«Morgan, non potevi pensare a un regalo un po' meno... ingombrante?» sussurra, un tantino contrariata.
«Rogers», la chiamo, lanciandole uno sguardo di intesa. «Fitz compie diciassette anni. Meritava qualcosa di speciale.»
Kirsten scuote la testa. Ha capito. «Gli hai regalato quello che penso, vero?»
Vorrei provare a negare, ma l'urlo di nostro figlio mi anticipa.
«Papà!» esclama, le mani tremolanti. «Davvero?»
Le chiavi della macchina luccicano tra le sue dita. Il suo sorriso emozionato mi commuove.
«Davvero. Ho risparmiato un anno intero per questa macchina. Non è niente di lussuoso, ma è abbastanza per portarti ovunque tu voglia.»
Mio figlio mi salta al collo e la stretta che mi regala mi fa quasi commuovere.
«Grazie, papà, è fantastica! Sei il migliore!»
In questo momento, con il suo odore nelle narici, i suoi capelli ricci che mi accarezzano il viso, sento che ogni sacrificio, ogni dubbio, ogni lotta, sono valsi la pena. Ogni minuto trascorso lontano da lui, nell'ultimo anno, a New York, ne è valsa la pena. Sono stato via per nove mesi e Fitz mi è mancato come l'aria.
«Buon compleanno, amore.»
Quando l'abbraccio si scioglie, tuttavia, noto lo sguardo di sua madre su di me.
«Dylan, vieni un attimo di là?»
Brutto segno quando mi chiama Dylan. Fitz mi lancia uno sguardo allarmato, ma io scuoto appena la testa, facendogli capire di non preoccuparsi. Seguo Kirsten in cucina, ignorando il commento di Penelope, "come al solito Dylan ne ha combinata un'altra delle sue."
Non facciamo in tempo a chiudere la porta che mi aggredisce. «Cosa avevamo detto sulla macchina?»
Roteo gli occhi. Lo sapevo che avrebbe fatto una scenata. Sospiro, mettendole le mani sulle spalle che lei, con una prontezza che non mi aspetto, scrolla e quindi resto come uno scemo con le braccia per aria.
«Lo so che non eri d'accordo, però...»
«Non sono d'accordo, Morgan!» mi interrompe, isterica, però almeno non mi chiama più Dylan. Lo so, è strano, ma ci siamo chiamati per cognome dal primo momento in cui ci siamo incontrati, quando siamo finiti insieme al laboratorio di scienze al secondo anno e non ci sopportavamo ed eccoci qua dopo vent'anni a litigare per la macchina di nostro figlio adolescente, signor Giudice.
«Non gli serve la macchina!» continua, incrociando le braccia e appoggiando la schiena sul tavolo pieno di cibo. Chi ha cucinato tutta questa roba? Kirsten se la cava in cucina, di certo meglio di me – ma chiunque è più bravo di me, ho dei seri problemi a rispettare la cottura degli alimenti – ma non così tanto. I suoi genitori hanno sempre avuto una cuoca al loro servizio e non penso proprio che qualcuno degli invitati sia stato in grado di preparare quella distesa di antipasti. Avrà ordinato il catering? Mi sembra un po' esagerato, abbiamo sempre mangiato la pizza al compleanno di Fitz, tante volte solo noi tre. Sul tappeto persiano in soggiorno, con un film della Marvel sullo schermo, su questo tavolo, per poi strafogarci una vaschetta intera di gelato. Una volta ho provato a preparare la pasta, ma è venuto fuori un agglomerato non ben definito di spaghetti tutti incollati e allora abbiamo ordinato cinese per non rimanere a stomaco vuoto. Ne sono cambiate di cose, negli ultimi anni.
«A chiunque serve una macchina, Rogers», è la mia diplomatica risposta. Non mi va di litigare ancora per questa storia.
«Viviamo a Riverview, Morgan!» Peccato che Kirsten non sia della stessa opinione. «A scuola ci va a piedi!»
«Fitz ha diciassette anni, non va solo a scuola!»
«E tu che ne sai, visto che non ci sei stato negli ultimi mesi?»
Eccola la frecciatina. Che stronza. Mi passo una mano sulla faccia, respirando a fondo per calmarmi. Come se mi fossi divertito a gelarmi le chiappe a New York per nove mesi.
«Non hai visto come era contento? Non gli ho regalato una Ferrari, è una macchina usata che guiderà con coscienza, perché Fitz è una persona coscienziosa.»
«Di certo non lo sei tu!»
Il suo insulto mi fa venire voglia di sorridere, ma mi trattengo. «Perché tutte le cose belle le ha prese da te.»
Stavolta sorrido, sperando di aver fatto centro, ma per tutta risposta Kirsten mi dà un pugno sul petto. Ahia.
«Un'automobile è pericolosa, Morgan. È ancora troppo piccolo.»
«Ha diciassette anni, Rogers. Per quanto tempo ancora vuoi tenerlo sotto una campana di vetro?»
Quando dicono che la verità fa male, hanno ragione. Kirsten spalanca la bocca.
«Io non lo tengo sotto una campana di vetro!» La sua voce stridula mi pungola le orecchie. «Mi preoccupo solo!»
«Appunto, smettila di preoccuparti!» replico con lo stesso tono. «Così lo soffochi!»
Ok, forse ho esagerato. Forse questo non avrei dovuto dirlo, anche se lo penso. È che certe volte mi sembra che Kirsten non abbia capito che nostro figlio sta crescendo, che ha la patente da un anno e che a breve potrà votare. Spero non voti come la nonna.
Poi, la porta si apre. «Tutto ok, tesoro?»
Tutto ok, tesoro, a chi? Un uomo dalla corporatura discutibile, con delle spalle larghe che, diamine, non so se sono naturali o sono dovuti a troppi pesi alzati in palestra, è appena entrato in cucina. Ha un'aria familiare.
«Will?» chiedo, a voce incerta. Kirsten sbuffa.
«Bill, lo sai che si chiama Bill.»
Oh, certo, Bill. Il tizio di Boston con cui Kirsten ha cominciato a uscire poco prima che andassi in Illinois. L'unico uomo al mondo che si chiama William e anziché abbreviarlo in Will, usa Bill, il nomignolo più brutto che esista. Si vede che gli piace l'idea di apparire come un cowboy di mezza età che guida un pick-up e tiene un fucile a pompa in cantina. Ma comunque, dove diavolo è stato finora? Deve aver trovato riparo nel ripostiglio per non essersi fatto vedere fino adesso. Increspo le labbra in una smorfia che vorrebbe essere un sorriso. «Oh, sì, certo, come no. Non pensavo che foste così in confidenza da invitarlo al compleanno di Fitz.»
Mi rendo conto, non senza un certo fastidio, che la sua presenza qui mi disturba. In questa cucina, nella nostra cucina, lui non c'entra. Soprattutto non c'entra adesso, quando io e Kirsten stiamo parlando di nostro figlio. Tuttavia è qui e non posso fare niente per mandarlo via. Mi aspetto una risposta a tono, che non arriva. Rispondere al sarcasmo con il sarcasmo è. una cosa nostra, tipica di me e Kirsten, ma non accade. Anzi, lei e tale Bill si scambiano uno sguardo che mi provoca una sensazione strana nello stomaco. È uno sguardo allarmato, ma non solo. È di intesa. È complice. È uno sguardo tra due persone che condividono qualcosa. Un segreto. Un rapporto. Una relazione. Seria.
«Che succede?»
Non volevo che la voce uscisse così bassa, ma ho fatto fatica a trovarla.
«Morgan...» Il sussurro di Kirsten mi disturba. C'è qualcosa di strano.
«Rogers?»
«C'è una cosa che... Un annuncio che dobbiamo fare. Cioè...»
Kirsten è in difficoltà. Kirsten non è mai in difficoltà. Kirsten, la mia Kirsten, non ha mai avuto paura di dirmi la verità, cosa le passasse per la mente, cosa ci fosse in ballo. Adesso, Kirsten non riesce a guardarmi negli occhi.
«Che cazzo succede, Kirs?»
Forse sarà stato il mio tono, stavolta troppo alto, e non mi ero reso conto che quell'idiota di Bill ha lasciato la porta aperta, ma ci ritroviamo tutti in cucina. Sento gli occhi dei miei amici addosso.
«Non gliel'avete ancora detto?» urla la voce squillante di Penelope. Vorrei lanciarle un coltello addosso, ma mi faccio forza e tengo ancora gli occhi su Kirsten. La vedo respirare a fondo e riuscire finalmente a guardarmi.
«Dylan...»
Mi ha chiamato ancora per nome.
«Bill e io ci sposiamo.»
E così, tutto a un tratto, il mondo bello che è stato fino adesso non lo è più.
Poi, mia sorella parla.
«Sta svenendo?»
Note di Greta ❤️
Non abituatevi a questi capitoli frequenti, ciao.
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