37

Mijime camminava tra le fronde degli alberi che iniziavano a gettare ombre sulla terra nera riscaldata dal sole del pomeriggio, dirigendosi su per il sentiero che portava al suo piccolo rifugio. In mano teneva strette dalle orecchie due lepri di medie dimensioni: il suo pasto, fino al giorno successivo. Dopodiché ne avrebbe prese altre due e a seguire ancora e così avrebbe continuato per chissà quanto.

Arrivato sulla soglia della caverna, si arrestò un momento, come ricordandosi di aver dimenticato qualcosa. Si voltò rapidamente verso i rami della foresta che aveva appena lasciato alle sue spalle.
«Wagner! Dai, torna qui» chiamò, amplificando la sua voce con la mano libera.

Attese qualche istante, approfittandone per tergersi alcune perle di sudore dalla fronte: maledetta umidità! Il clima che si respirava in quella foresta preistorica, cosparsa di felci e abitata dalle bestie più disparate, era davvero soffocante. Del resto, non aveva avuto molta possibilità di scelta: proprio perché quella zona era invivibile, non era stata occupata da altri uomini, e lui sapeva bene di dover rimanere completamente solo. 

Ma non era solo quello: era consapevole che il suo spirito di adattamento sarebbe riuscito a sopportare ben peggio dell'asperità di quella selva. A prescindere da dove fosse, con il suo stato d'animo non avrebbe sofferto alcun luogo.

Con lo sguardo perso sui grandi alberi di fronte a lui, a un tratto vide sbucare da un cespuglio un piccolo lupo piuttosto magro, poco robusto e dal pelo cortissimo, cosparso di un manto grigio-rossiccio. Teneva il muso per aria, annusando chissà quale odore, e girava in tondo alla ricerca di qualcosa, con una buffa andatura saltellante.

«Wagner! Ho detto qui» lo richiamò Mijime, il tono appena più severo di prima; soltanto allora il lupo alzò la testa in direzione della voce e vide le due lepri che il giovane aveva in mano. Le enormi e sproporzionate orecchie si rizzarono insieme alla coda un po' spelacchiata: improvvisamente capì la ragione per cui fosse alla ricerca.

Senza mai smettere di trotterellare, si precipitò dal giovane, si sedette ai suoi piedi e attese che gli venisse dato un premio, mentre la coda si agitava frenetica e le orecchie si muovevano in alto e in basso, facendogli assumere espressioni buffe.

Mijime scosse la testa e, staccata una zampa posteriore da una delle lepri, la gettò all'animale, che subito la afferrò vorace.
«Il resto dopo, adesso entriamo» disse il giovane, muovendo un passo verso l'entrata della caverna, ma preceduto da Wagner, che andò ad accucciarsi subito da un lato per godersi la sua coscia succulenta.

Il giovane si sedette dalla parte opposta, accingendosi a uno dei suoi compiti quotidiani: ripulire la carne delle sue prede dalla pelliccia e dalle interiora, destinate al suo compagno.

Trovata una posizione comoda, prese tra le mani una delle due lepri, osservandola e iniziando a organizzare l'indomani: quella settimana aveva mangiato carne già per due giorni, quindi avrebbe potuto risparmiarsi la caccia e andare solo alla ricerca di qualche frutto. Wagner per una volta se la sarebbe cavata da solo.
"E se domani sarà la mattina propizia?" Il giovane sbuffò, scacciando il lieve entusiasmo che lo aveva toccato per un attimo solo: non c'era molto da sperare.

Recuperò uno dei suoi coltelli e aprì il ventre dell'animale, lanciando talvolta qualche occhiata al canide davanti a lui. Le sue labbra si incurvarono lievemente: com'era cresciuto da quando lo aveva incontrato per la prima volta.

Una mattina, recatosi nella foresta a provvedere al proprio cibo, se lo era improvvisamente trovato davanti: subito aveva attratto la sua attenzione, non tanto perché avesse un aspetto maestoso o perché fosse in compagnia di animali simili. Doveva essere un cucciolo di due o tre mesi, che vagava per la foresta, solo: forse aveva perduto il branco oppure era stato volutamente cacciato.

Mijime aveva continuato a osservarlo mentre cercava di catturare una lepre lenta e malaticcia: appostandosi dietro a un cespuglio, il lupetto provava a balzarle addosso e catturarla, invano, ogni volta.

Il giovane aveva allora preso uno dei suoi coltelli e, dopo aver preso la mira, lo aveva lanciato addosso alla lepre, centrandola al primo colpo. Si era poi affrettato a recuperarla, prima che andasse a rubargliela il lupo, tenendo sguainata l'altra arma che aveva a disposizione qualora il canide avesse cercato di attaccarlo. Subito gli si era avvicinato, ma non con fare aggressivo, come avrebbe potuto immaginare, ma supplicante.

«Ma che razza di lupo sei?» E l'altro aveva continuato a guardarlo mogio, tenendo abbassate le orecchie. Gli aveva lanciato un pezzo di lepre e il canide l'aveva azzannato avidamente e trangugiato in pochi attimi.

«Dovevi essere affamato, eh?» aveva sorriso appena l'altro, attentandosi ad avvicinarsi un poco e a passargli delicatamente una mano sul cranio: il lupo non aveva reagito in modo aggressivo e non si era nemmeno spostato; anzi, aveva chiuso gli occhi con aria serena, come trovando gradito quell'insolito trattamento.

«Non ce la farai mai a sopravvivere da solo. Ti terrò con me, se vorrai. Potrei chiamarti Wagner: è un bel nome da lupo, no? Ha in sé un ché di potente, aggressivo... Magari ti darà un po' di dignità in più, non credi?»
Da allora il lupo non aveva più smesso di seguirlo.

Era passato un mese e mezzo. Ora Wagner era diventato almeno il doppio di quanto era allora e, per quanto fosse ancora magro, non era più scheletrico. Non era un bell'esemplare di lupo e non sembrava nemmeno tanto intelligente, ma era legato al suo umano, forse non solo per motivi strettamente legati alla sopravvivenza, e Mijime sapeva di aver trovato in lui il secondo amico della sua vita.

Interruppe a un tratto il suo lavoro venendo improvvisamente afflitto dalla nostalgia. Bellatrix. Se era passato un mese e mezzo da quando aveva trovato Wagner, era trascorso ancora più tempo da quando si era separato dalla compagna.

E non aveva combinato ancora niente.

Toccò la parete della grotta con la testa e sospirò profondamente. Due mesi. Da due mesi era lì, in uno stato che era poco più produttivo di un ozio totale! E non poteva fare altro.

In un attimo di ira incontrollata, fece penetrare il coltello nella carne nuda della lepre, lasciandosi sfuggire un mugugno di rabbia. Sbatté un piede a terra e appoggiò la testa su un ginocchio, senza sapere come sfogare il sentimento che ribolliva in lui. Solo quando sentì qualcosa di umido bagnargli la guancia alzò il capo: Wagner, di fianco a lui, lo guardava con la testa piegata da un lato, quasi fosse preoccupato.

«Grazie, amico» disse Mijime, accarezzando per qualche istante la testa del lupo, distogliendo la mente da pensieri al contempo furenti e malinconici.

«Sai cosa vuol dire conoscere te stesso?» continuò passando la mano dietro a un orecchio dell'animale, che chiuse gli occhi e aprì appena la bocca, abbandonandosi del tutto a quel piacevole massaggio.

«Cosa ne vuoi sapere, effettivamente» proseguì, l'espressione sul suo viso già mutata: il sorriso era scomparso, e più di una volta si ritrovò a sospirare. «Tu sì che vivi bene. Robero si sbaglia a dire che noi uomini siamo migliori di voi animali. Avremo anche la ragione, ma è davvero un di più? Pensare alla nostra condizione e renderci conto anche delle disgrazie, invece che vivere inconsapevolmente, è davvero meglio?»

Wagner aprì gli occhi, puntandoli in quelli di Mijime con lo sguardo implorante e le orecchie basse.
«Hai ancora fame, eh?» constatò l'altro, prendendo le interiora del primo animale sventrato e ponendole sotto al naso del lupo. «Tieni».
Questo sprofondò la testa nella leccornia che gli era stata appena propinata e Mijime lo lasciò mangiare da solo, tenendo sulla testa dell'animale solo una mano. Tornò ad appoggiarsi alla parete e, inevitabilmente, a riflettere.

Conosci te stesso.

Non sembrava così difficile. Dopotutto sapeva chi fosse. Un codardo. Non era mai stato altro che questo. O meglio, era tante cose: un criminale, un approfittatore, un opportunista, un bugiardo, oltre a essere egocentrico, vile, materialista, senza molti scrupoli, caratterizzato da una scarsa moralità... Tutti aspetti che non facevano che renderlo un essere ancora più meschino. Ma prima di tutto il resto era un codardo.

Ed era proprio qui che il problema fondava le sue radici: a causa della sua paura, non faceva che nascondersi dietro alla falsa consapevolezza di sapere chi fosse. Dicendo di essere un codardo faceva presto a non affrontare le altre questioni: se la sbrigava così, con una breve affermazione, senza mai andare a fondo. Non poteva. Ne era terrorizzato.

In realtà sapeva perfettamente cosa avrebbe dovuto fare: andare a scavare nel suo passato e trovare le sue radici. Non quelle della sua famiglia, quelle non le avrebbe mai trovate e sarebbe stato un inutile spreco di tempo; doveva trovare le proprie fondamenta, che stavano nel passato che da tutta la vita cancellava, non appena una nuova disgrazia veniva ad abbattersi sulla sua vita. Si illudeva che il resto non fosse mai esistito, risparmiandosi i problemi e continuando a trascorrere la propria esistenza: dopotutto, a nessuno sarebbe importato se avesse conosciuto davvero se stesso o meno.

Era un codardo, glielo avevano sempre detto. Da sempre glielo ripetevano. Ma non poteva ricordare.

Inconsapevolmente strinse l'orecchio di Wagner troppo forte e questo si espresse in un piccolo ringhio di avvertimento.
«Scusami» si affrettò a dire il giovane, ritirando la mano e notando che il lupo aveva già terminato la cena. Riprese a carezzarlo, attento a essere più delicato: stavolta era lui a guardare l'amico animale con occhi imploranti. «Ma io cosa dovrei fare?»

In risposta il lupo si limitò a spostare lo sguardo sulla lepre sventrata, con la solita aria famelica.
«Sai, ero esattamente uguale a te, una volta...» mormorò, rammentando la continua fame che lo attanagliava da bambino... No, non poteva ricordare! Scosse la testa, afferrò l'altra lepre e iniziò a lavorare assiduamente, cercando di distrarsi.

Ma una parte recondita del suo animo si era stancata di agire sempre da codardo...

Era una fredda mattina di Dicembre. Pioveva a dirotto. L'acqua tintinnava sull'asfalto di una delle vie più ricche di Ashiya. Un ragazzino camminava lungo la strada, la faccia abbassata, nascondendo un'espressione terrorizzata: sapeva cosa lo avrebbe aspettato, una volta a casa. Aveva undici anni, compiuti pochi giorni prima, ma nessuno lo avrebbe mai immaginato: era così magro che nemmeno si notava in mezzo alla grande strada che stava percorrendo, pur essendo solo sopra di essa. Aveva freddo, ma indossava solo un'economica giacca troppo stretta e inadatta alla stagione; sotto una maglietta estiva sgualcita e dei jeans che gli lasciavano scoperto mezzo polpaccio. Continuava lo stesso a procedere: considerare l'opzione di scappare non avrebbe fatto che aggravare il tutto. Aveva già trasgredito una volta alle regole, pensando di potersi salvare, ma la sua situazione non aveva fatto che peggiorare.

Attraversò un cancello, sempre tenendo lo sguardo basso, senza guardare il bellissimo giardino in cui si era introdotto: sapeva che era stupendo, come la casa, i suoi ambienti, i suoi mobili, come sapeva che tutto quello non era per lui. Compiendo movimenti automatici evitò la porta principale, recandosi invece a una laterale.

Varcata la soglia, si tolse in fretta le scarpe, riponendole con cura da un lato, e appoggiò la giacca sull'attaccapanni, per poi aspettare di essere decentemente asciutto per potersi introdurre in casa. Sperava che nel mentre non arrivasse nessuno. Ma anche quel piccolo desiderio non fu soddisfatto.

Due ragazzini grassocci, della sua stessa età ma entrambi ben più alti, entrarono nella stanzetta, ravvivandola con le loro risate. Risate di scherno.
«Guardalo, Roku, hai visto com'è brutto» disse il primo, esprimendosi in una smorfia.
«Così magro, così sporco» lo seguì il gemello, iniziando a girargli intorno. «Quelli erano i vestiti che avevo io l'anno scorso».
«Gli spunta fuori mezza gamba. Fa ridere!» I due iniziarono a sghignazzare di gusto, mentre il terzo teneva la testa bassa, per nascondere il dolore che provava ogni volta che sentiva quelle affermazioni, sempre le stesse.

«Ehi, Mijime, cos'hai mangiato oggi?» tornò all'attacco uno dei due, ripescando l'altro argomento principale del loro repertorio di derisione.
«Ehi, Mijime, non hai freddo?» gli fece eco il fratello.
«Roku, Ogai, vi prego, non chiamatemi... così» li supplicò la vittima: tra tutte le cattiverie con cui lo vessavano era certamente quella che faceva più male. E i due lo sapevano bene.

«Perché? Non è il tuo nome?» sogghignò il primo, maligno, vedendo finalmente la tanto agognata lacrima scendere sul volto del ragazzino.
«C'è ancora qualcuno che non ti chiama Mijime?» rise più forte l'altro.
«Mijime!»
«Mijime!»
«Mijime!»

Avrebbero continuato a lungo così, se una voce non li avesse interrotti.
«Ragazzi, basta così». I due si voltarono verso la porta da cui era entrato un uomo alto e imponente. Il sangue del ragazzino gelò: rimpianse gli innocui scherzi dei figli di colui che era appena giunto.

«Vi siete divertiti,» continuò questo, irremovibile, «ma adesso basta».
«Ma... papà!» protestò uno dei gemelli, subito interrotto dal padre: «Potrete continuare dopo. Ora devo parlarci io, con Mijime» concluse, sogghignando appena.
«Ah ah! Anche papà ti chiama Mijime!» rise per l'ultima volta uno dei due, per poi correre via dalla stanzetta, seguito dal fratello.

L'uomo si avviò verso la rampa di scale che portava al piano superiore e il ragazzino si affrettò a seguirlo, stando sempre due passi dietro di lui, come aveva imparato a fare. Salite le scale, entrarono in un ambiente che doveva essere lo studio dell'uomo e quest'ultimo si sedette sulla sua comoda poltrona dietro a una scrivania piena di fogli. Il ragazzino si piazzò davanti a lui, rimanendo in piedi e continuando a tenere la testa bassa, pregando qualsiasi forza che quell'incontro fosse un po' meno peggio di tutti gli altri. Se lo augurava ogni volta.

«Ragazzino, cosa ti avevo detto di fare?»
«Andare a Osaka e ammazzare Yamazaki Hiro, signore».
«Perché?»
«Perché non è un vero uomo, essendosi disonorato».
«L'hai fatto?»

A quell'ultima domanda il ragazzino esitò un po' di più, deglutendo e preparandosi al peggio. Con un fil di voce e quasi sull'orlo del pianto ammise: «No, signore».

L'uomo sospirò sonoramente e si alzò dalla poltrona, ponendosi a pochi centimetri dal volto del piccolo.
«Perché?» La voce iniziava a dare segno di irritazione. «Ti avevo dato una pistola e le istruzioni necessarie per fare un buon lavoro senza essere beccato. E, anche se ci fosse stato il rischio, tu, se fossi un vero uomo, dovresti godere nel togliere la vita a uno senza onore, anche mettendo a repentaglio la tua, di vita. Quindi? Perché non l'hai fatto?» chiese ancora, alzando il mento del piccolo finché i loro occhi non si incrociarono.

«Ho... ho avuto paura, signore» balbettò il ragazzino, a ogni secondo più impaurito, sperando solo che finisse presto di parlare e iniziasse a picchiarlo, come faceva sempre quando si adirava con lui: se non altro, dopo, per un po', lo avrebbe lasciato in pace. «Mi... mi dispiace».
«Ah, ti dispiace ora? Non ti deve essere dispiaciuto così tanto, stamattina, quando avresti dovuto farlo».
«Le prometto che-».
«Le tue promesse non valgono niente per me. Quello stronzo è ancora vivo ed è colpa tua» disse alla fine, quasi urlando e alzando una mano dietro di sé. Il ragazzino chiuse gli occhi pronto a incassare un colpo che non arrivò.

L'uomo era tornato alla scrivania e ora stava esaminando con noncuranza i fogli sparsi sopra di essa. «Sai, i miei figli fanno bene a darti quel nomignolo. Mijime. Miserabile. Non sei mai stato altro. La conosci la tua storia, vero?»
«Sì, signore» mugugnò il ragazzino: certo che la conosceva, anche se non era certo che quella fosse la versione reale dei fatti, così piena di particolari scabrosi qual era. Forse l'aveva inventata totalmente l'uomo, solo per osservare le molteplici emozioni di tristezza e orrore che passavano sul suo volto ogni volta che gli veniva raccontata di nuovo.

«Lascia che ti rinfreschi la memoria, ché non fa mai male. Anzi no, racconta tu: vediamo se te la ricordi abbastanza bene».
Il ragazzino, con un nodo alla gola provocato dal pianto ormai prossimo, deglutì, per poi accingersi a parlare: «Il primo Dicembre di undici anni fa era una fredda mattina di inverno. Lei stava camminando per Shinsekai insieme a un suo socio, discutendo dei soliti affari; poi avete sentito il pianto di un moccioso, che... che ero io». Si fermò: ciò che seguiva faceva troppo male e non poteva piangere davanti all'uomo.

Questi si alzò in piedi, mentre applaudiva lento e ridacchiava, con tono di scherno. «Hai fatto abbastanza, dai» disse bonariamente, appoggiando una manaccia sopra alla testa del ragazzino. «Ora continuo io. Le grida venivano da una via così squallida da essere adatta solo a dei ratti e, mosso da uno spirito di pietà che è proprio di uomini virtuosi come me e i miei compagni, l'ho imboccata. Così ho trovato te, un neonato brutto e grinzoso, ancora sporco del sangue di sua madre, sopra ad alcuni cassonetti dell'immondizia: il rifiuto più grande che c'era. Persino tua madre - una puttana, senz'altro - ti aveva considerato tale, tanto da non metterti neanche alle porte di un ospedale o un orfanotrofio. No, semplicemente su un bidone, di preciso su quello del secco non riciclabile. Così alla pietà si accompagnò in me anche la carità: decisi di tenerti con me, ti diedi un nome, una casa, del cibo. Ti strappai alla morte: se non l'avessi fatto, sai che ora non saresti qui, vero? Pensai questo: magari, pur essendo nato nella miseria, si potrà riscattare, potrà diventare un uomo. Invece sei stato solo una delusione. Miserabile sei nato, miserabile sei e per sempre rimarrai miserabile, Mijime».

Lo chiamava l'uomo, o in alternativa il signore; crescendo aveva avuto la possibilità di togliere ogni forma di rispetto e aveva iniziato a riferirsi a lui come a "il vecchio". Cercava di usare il meno possibile il nome di colui che gli aveva reso l'infanzia un inferno.

Faceva parte di un'importante famiglia di Yakuza ed era presto entrato nella cerchia ristretta dei capi. Era una persona disonesta, senza scrupoli, ma con uno spiccato senso dell'onore, distorto dalla morale che aveva appreso. Non si sa perché un giorno avesse deciso di prendere nella propria casa un orfano trovato per strada: se per puro divertimento, oppure per un iniziale spirito da buon samaritano che era andato scemando nel tempo, o ancora per la volontà di creare un piccolo servetto sempre fedele. Qualsiasi fosse il motivo, Mijime non avrebbe cambiato il giudizio negativo che aveva formato su di lui: lo disprezzava tanto che da sempre si ripeteva che non sarebbe mai diventato come lui.

Al suo undicesimo compleanno, l'uomo aveva reputato conveniente sfruttarlo nel gestire azioni che ormai, per lui, erano di poco conto, come sbarazzarsi di alcuni personaggi fastidiosi o impiegarlo nel mondo dello spaccio. Le prime volte aveva cercato di opporsi, ma aveva presto ceduto: l'uomo gli negava anche quel poco cibo che gli concedeva di solito e non gli permetteva di entrare in casa di notte, per dormire. La fame e il freddo avevano vinto su qualsiasi buon proposito. E aveva poi capito che nei modi che gli venivano proposti, se avesse agito in modo intelligente, avrebbe potuto racimolare abbastanza facilmente del denaro, così da poter comprare cibi sani e vestiti.

In breve venne a innescarsi una serie di crimini che lo portò sempre più in basso nella scala delle virtù: più cresceva, più si dava da fare per ottenere non solo il denaro che gli occorreva per vivere decentemente ma anche per raggiungere un altro elemento che non riusciva a non attirarlo, il potere. La prospettiva di poter ribaltare i ruoli, di essere il dominatore e non più il dominato, lo allettava molto più di qualsiasi altra cosa. Così era entrato a far parte della malavita, lasciandosi sobbarcare di qualsiasi incarico che lo avrebbe portato sempre più in alto, inconsapevole in realtà che a ogni azione scendeva di un gradino verso quel baratro in cui è così facile entrare, ma da cui è quasi impossibile uscire.

Non senza difficoltà, accettando sempre i compiti più difficili e rischiosi, a soli vent'anni era diventato uno dei membri più in vista della Yakuza, con la consapevolezza che avrebbe ereditato ogni bene in possesso del vecchio, che ormai non temeva più: i figli erano dei completi inetti e i capi avrebbero preferito che tutto il potere che aveva acquisito il padre passasse nelle mani di qualcuno capace e fidato.

Aveva ottenuto ricchezze e potere, era stimato e talvolta temuto. Era ciò che aveva sempre desiderato. Ma nei momenti in cui aveva la possibilità di riposarsi, gli capitava di riflettere e ogni volta non poteva che pensare al fatto che fosse diventato esattamente come lui. Un piccolo uomo insoddisfatto che compiva crimini e azioni malvagie senza alcun motivo, quasi per noia o per il bisogno di distrarsi dal proprio dolore.

Si era ripromesso, da bambino, che non sarebbe mai diventato come lui. Esternamente ci era riuscito: il suo aspetto era sempre sobrio e curato e cercava di tenersi il più lontano possibile dal Giappone e dalle sue tradizioni. Eppure, nella realtà dei fatti, erano uguali.

E così anche per questo non era che un miserabile. Non era stato nemmeno capace di combattere per i propri valori, ma si era lasciato travolgere dalla cupidigia per quelle cose materiali che da sempre gli erano mancate. E, arrivato a vent'anni con tutto ciò che pensava servisse per vivere una vita dignitosa, aveva pian piano cancellato ogni traccia di quel passato che aborriva, quel passato in cui era stato solo Mijime. Non si era reso conto che lo era diventato ancora di più.

«Allora?» esclamò a un tratto, tirandosi in piedi con foga e uscendo dalla caverna, gridando alla natura che lo circondava. «Era questo che dovevo capire? Era questo?! Ripercorrere ogni attimo della mia miserabile vita? Rendermi conto di quanto mi abbia sempre caratterizzato il nome che tu, isola maledetta, mi hai imposto? Non mi sorprenderei se adesso anche i miei poteri fossero miserabili! Tutta la mia vita lo è sempre stata! Vedi, vedi! Lo riconosco! Me ne rendo conto! L'ho capito, isola bastarda, l'ho capito! Sei contenta ora?» Le parole gli uscivano dalla bocca come un fiume straripante, gli argini eretti con il sarcasmo ormai inutili.

Il giovane si fermò, rendendosi conto di aver sforzato talmente tanto la gola da stare ansimando. Si voltò per tornare nella caverna, ma prima doveva terminare il suo discorso: aveva iniziato ad affermare il vero su ogni cosa che aveva da sempre o ignorato o nascosto; odiava lasciare le cose a metà.
«Ma sai cosa c'è?» proseguì, continuando a riferirsi all'isola. «Non me ne frega niente. Otterrò dei poteri meschini? Bene. Almeno li avrò ottenuti. E potrò tornare da Bellatrix. Non mi interessa altro».

Tornò nella spelonca e si sdraiò prono a terra, senza badare di andare sul suo giaciglio o vicino al fuoco. Non piangeva, non ne sentiva più il bisogno, pur avendo ripercorso mentalmente tutta la sua vita. Aveva svuotato la testa da ogni genere di pensiero, inebriandosi con uno solo: l'immagine di una splendida bocca con gli angoli piegati spontaneamente all'insù, accompagnata dal suono dolce di una risata cristallina. Gli sarebbe bastata quella visione che ben conosceva per stare sereno per ore e ore. Ma un ringhio minaccioso lo riscosse dalla sua visione idilliaca.

Alzò subito la testa: Wagner si aggirava guardingo attorno a lui con le orecchie basse e i denti ben visibili, producendo un mormorio continuo, totalmente diverso da quello che ogni tanto faceva per avvertirlo di qualcosa che gli dava fastidio.

"Ma cos'è successo alla mia bestiola docile e svampita?" Imprecò mentalmente: cosa gli aveva detto la testa di prendere un lupo selvatico come animale da compagnia?! Non aveva tempo di riflettere: doveva difendersi, e alla svelta. Dov'era il suo coltello? Lontano, vicino al fuoco, e Wagner stava sbarrando la strada per poterlo raggiungere. "Dannazione! E adesso?"

Si alzò ugualmente in piedi. O, meglio, ci provò, ma quel movimento, che gli era sempre sembrato naturale, ora non lo era più. Non riusciva a capacitarsene e provò più e più volte, sempre senza alcun risultato, ma ribaltandosi all'indietro. Avrebbe voluto vedere cosa diamine fosse successo al proprio corpo ma dall'altra parte non poteva spostare lo sguardo dalla figura minacciosa del lupo che continuava a girargli intorno, venendogli sempre, sempre, sempre più vicino...

Un impulso che non sapeva di possedere lo fece agire: le funzioni che poteva controllare direttamente con la sua razionalità si erano inibite, e al suo posto a intervenire fu solo un istinto ignoto. Si avventò su Wagner, atterrandolo facilmente grazie anche alla piccola e gracile stazza del lupo, e scoprendosi a ringhiargli a pochi centimetri dal suo muso. Ma non fece in tempo a riflettere su quel comportamento assurdo, che accadde qualcosa di ben più strano.

«Scusami scusami scusami scusami» iniziò a dire Wagner, veloce e atterrito. Mijime sgranò gli occhi e fece un balzo all'indietro, scuotendo la testa più e più volte per provare a svegliarsi da quel sogno. Sentendo a un tratto che la voce che sembrava provenire dal lupo aveva smesso di parlare, si girò nuovamente, notando che ora il canide era supino con la coda in mezzo alle zampe e lo guardava con aria supplicante.

Mijime sospirò di sollievo: doveva essere stata solo un'allucinazione. Ma subito l'animale riprese a parlare: «Perdonami tanto se stavo ringhiando, ma hai aggredito il mio-».

Il giovane sussultò di nuovo. «Stai... parlando?!»
Il lupo lo guardò con aria perplessa e, continuando a non capire, rispose con un "sì" alquanto incerto.
Mijime sbatté le palpebre più di una volta, incredulo: non solo Wagner, un animale, stava parlando, ma lo capiva anche e gli stava rispondendo. E poi cosa significavano quelle scuse e quel tono di ossequio?

Il giovane non ci stava capendo più niente e iniziò a camminare irrequieto per la caverna, scoprendo subito di non essere in una normale posizione eretta: stava procedendo a quattro zampe. Si arrestò immediatamente, guardando a terra e inorridendo alla vista di due arti anteriori da canide. No. No. No, no, no, non era possibile. Non era diventato davvero un...

Iniziò a girarsi intorno, per osservare il resto del suo corpo: la camicia si era quasi del tutto squarciata e lasciava intravedere un folto e lucente manto nero, mentre a livello del bacino, dai pantaloni, rimasti intatti, spuntava una coda imponente e voluminosa.

Mijime scosse di nuovo la testa, cercando di portarsi una mano sopra ad essa per tirarsi una sberla e svegliarsi, ma perse subito l'equilibrio e si ritrovò sdraiato a terra. Cos'era successo?! Era diventato un lupo e ne capiva il linguaggio. Questo era il suo potere? Questo?! Non era tra le opzioni che aveva previsto: aveva immaginato che non sarebbe stato nulla di eccezionale, ma sicuramente non prendere le sembianze di un animale! Che utilità avrebbe mai potuto avere?

Sicuramente la sua forza fisica era aumentata, ma a cosa serviva quando già di per sé era piuttosto abile nel combattimento corpo a corpo? Se non altro non aveva perso totalmente la sua razionalità: pensava ancora come un essere umano, non come un lupo. Però poco prima aveva aggredito Wagner senza neanche riflettere... Poteva affermare di essere davvero in grado di controllarsi? E, poi, come avrebbe fatto a tornare un uomo?!

«Ehm...» Perso tra i suoi pensieri irrequieti, sentì Wagner, che si era alzato con prudenza e cercava di attirare la sua attenzione. «Tutto bene?»
«Tutto bene? Tutto bene?» ripeté il giovane, gelido, incenerendo il suo simile. «Ti sembra che vada tutto bene?! Escludendo che ho sentito il mio lupo da compagnia ringhiarmi contro e cercare di aggredirmi, che ho scoperto di essere diventato io stesso un lupo e che ho ascoltato un lupo parlare, sì, tutto benissimo».

Sentendo il tono adirato e pungente, l'animale abbassò le orecchie, esprimendosi in un musetto rattristato, ma subito cambiò atteggiamento, come se avesse realizzato con un piccolo ritardo le parole del lupo nero.
«Ah, quindi sei sempre tu? Quell'umano simpatico che trova il cibo? E io che pensavo te lo fossi mangiato: per questo ti ho attaccato». L'espressione tornò allegra e iniziò a saltellare giocosamente attorno all'altro.

Ma Mijime non era dell'umore giusto per divertirsi e si buttò a terra, sbuffando sonoramente: i pensieri di prima continuavano ad affliggerlo.
Rielaborando però le parole di Wagner, che prima aveva soltanto recepito, riuscì a capirne il significato: il lupo gli aveva comunicato che lo aveva aggredito perché pensava che avesse fatto del male al suo compagno umano. Ci aveva visto bene, realizzò Mijime, appena commosso: Wagner non aveva deciso di rimanere con lui solo per il cibo che gli procurava. Era davvero suo amico.
«Be', allora grazie, Wagner. Non pensavo...»

La drammaticità che il giovane voleva dare al suo discorso fu subito mutata dalle parole del lupo, che storzò la testa, confuso. «Wagner? E cosa sarebbe?»
«Ma come cosa sarebbe?» ripeté Mijime, un po' interdetto. «Sei tu. È il nome che ti ho dato».
«Ah, davvero? Be', non è che capissi molto di quello che dicevi quando eri umano. Già capisco poco di mio. Comunque mi chiamo Poda».

«Poda?» continuò il lupo nero, stranito. «Che... che nome è?»
«In che senso?»
«Va bene, fa lo stesso» tagliò corto Mijime: era tutto più semplice e sensato quando a parlare era solo lui e l'altro si limitava a lanciargli occhiate eloquenti. «Se vuoi che ti chiami Poda, ti chiamerò così».

Poda sembrò soddisfatto e, dopo aver fatto, tutto contento, l'ennesimo giro intorno al giovane, si piazzò di fronte a lui, abbassando fino a terra solo la parte anteriore del corpo, nel tipico atteggiamento che assumeva quando aveva voglia di giocare. «E adesso? Che facciamo, capo?»

«Mi devi per forza chiamare capo?» chiese Mijime, un po' perplesso da quel rapporto di subordinazione, che subito Poda chiarì: «Sei il più forte, quindi sei il capo del branco».
«Ma fa lo stesso: chiamami Mijime». Continuava a non essere convinto: in quel lupacchiotto maldestro vedeva un amico, diventato indispensabile in quell'ultimo periodo, tutto ciò per cui talvolta riusciva ancora a sorridere.
Ma Poda non sembrò ancora capire fino in fondo. «Va bene, capo Mijime» rispose, energico.

"Cercherò di spiegargli il concetto di amicizia" si ripromise, sbuffando sconfortato, con l'altro che continuava a gironzolare per la caverna tutto allegro, continuando a ripetere: «Quindi, quindi, cosa facciamo?»

«Allora» riprese la parola Mijime e subito Poda si sedette, iniziando ad ascoltarlo in silenzio, «io devo cercare di tornare umano, ma non ho idea di come possa fare...» Pronunciata quella frase, subito il lupo nero si illuminò, balzando in piedi, come se lo scoraggiamento di prima lo avesse abbandonato. «Io no, ma magari Bellatrix ha qualche idea! Ma è fantastico! Ero così preso dal considerare la mia nuova situazione che mi ero dimenticato che ora posso finalmente rivederla!»

«Bellatrix?» chiese Poda, storzando il capo. «E chi sarebbe?»
«Un'amica».
Il lupo più piccolo in un istante fu colto da un grande stupore e iniziò a esprimere un entusiasmo ancora maggiore. «Vuoi ingrandire il branco, capo? Posso essere il tuo vice?»
«Cosa?»
«Be', è appena iniziato il periodo degli accoppiamenti...»

«Ma cosa c'entra?!» sbraitò Mijime, tanto da far intimorire il piccolo lupo. Prendendo diversi respiri, cercò di ricomporsi. «Ti ho detto che è un'amica, non un'amante, non una fidanzata, non una moglie, solo un'amica». Ma anche con quella spiegazione Poda continuava a sembrare piuttosto confuso. «Non importa, lascia stare» tagliò corto Mijime, accontentando finalmente il compagno. «Adesso partiamo».
«Evviva!»

Poda corse subito verso la soglia della caverna, seguito da un più lento Mijime, dopo che ebbe preso tra i denti la sacca in cui riponeva i propri coltelli.
"Bellatrix si è diretta a Sud-Ovest e probabilmente è rimasta su quella via. Sentiva già la sua sensazione non appena siamo scesi da Robero, sapeva già in che posto dirigersi, pur non conoscendolo. Non vedo motivo per cui sia stata portata a fare deviazioni strane. Seguiremo la stessa strada". Un fremito di eccitazione attraversò il suo corpo giungendo fino alla punta della coda, quando intravide davanti a sé il sole a Occidente che pian piano scompariva per far posto alla notte e individuò il percorso che avrebbero seguito.

«E quello a cosa ti serve?» chiese il piccolo lupo, facendo cenno alla sacca trasportata da Mijime.
«Non penso che rimarrò un lupo per sempre:» rispose, mugugnando un po' per il vincolo che aveva in bocca, «allora ne avrò bisogno. A dire il vero mi servirebbe anche una camicia nuova... Be', non importa, ci penserò poi».

E così uscirono dalla grotta, Mijime in testa con un'andatura sicura e fiera, Poda talvolta dietro al suo "capo", talvolta, troppo eccitato da quella nuova avventura, trotterellandogli tutt'intorno. «Che bello! Andiamo nel nuovo territorio del nostro branco! Chissà come sarà. Farà caldo? Farà freddo? Ci saranno delle lepri come qua oppure...»

Ma Mijime aveva ormai smesso di ascoltarlo, con in testa una sola frase, l'unico, piacevole rumore, che più sentiva ripetere, più il suo passo inconsapevolmente accelerava: "Bellatrix, tra poco sarò di nuovo da te".

~

E così anche Mijime è riuscito a vincere la sua grande paura del passato e scoprire se stesso (o, meglio, iniziare il cammino della scoperta di se stesso). Adesso non ci rimane che sapere cosa ha combinato Bellatrix in tutto questo tempo... Ma prima, ecco a voi due piccole spiegazioni in merito al capitolo:

1) Sappiamo che il potere di Mijime è alquanto cringe ma, in primo luogo, è utile alla trama e, poi, ha un importante significato, che sta nel concetto di miserabile: a una prima lettura si potrebbe dire che è un potere ovvio per Mijime, considerato il significato del suo nome e la concezione che si ha sull'isola degli animali, a partire dal discorso di Robero. Dall'altra parte però Mijime stesso in questo capitolo ha definito gli animali più fortunati dei mortali, non rendendosi conto di ciò che accade loro (che è anche un atteggiamento simile a quello che ha avuto Mijime in alcune parti di questo capitolo). Consideriamo poi che il giovane ha finalmente ripercorso e, pur con dolore, accettato il suo passato, compiendo un atto di coraggio. La sua condizione attuale, dunque, è davvero miserabile come potrebbe credersi? Dunque, cosa può essere definito miserabile?
Come se non bastasse, per accrescere l'ambiguità che vogliamo ribadire tra involuzione ed evoluzione abbiamo deciso di ambientare questo capitolo in una giungla preistorica (che, se vi interessa, è collocata tra i territori di Ton Paidon e Tou Mortinou, ma non è stata occupata né dagli uni né dagli altri per evidenti motivazioni).

2) Non siamo esperte di animali e dei loro atteggiamenti, quindi perdonateci se in questo o nei prossimi capitoli Mijime versione lupo e Poda non avranno determinati comportamenti in determinate circostanze (Panda si sta rifacendo completamente a quello che fa il suo cane per la caratterizzazione del lupo più piccolo). Precisiamo però che ci siamo informate, leggendo tutto quello che abbiamo trovato sui lupi e, in particolare, sul canis lupus pallipes che è la sottospecie a cui appartiene Poda (in pratica il lupo che vive nella giungla); se vi interessa, invece, Mijime è la variante melanica del lupo grigio.

Sperando che la precisazione numeno uno sia stata scritta ed esposta decentemente (è un concetto fondamentale per lo sviluppo di Mijime 🥲), ci auguriamo che il capitolo vi sia piaciuto e vi aspettiamo al prossimo che *rullo di tamburi* sarà L'ULTIMO!

Vedremo cosa succederà, intanto vi ringraziamo per essere giunti fin qua insieme a noi e vi salutiamo, cari simpatici lettori
~🐼🐢

P.s. Shinsekai è una zona di Osaka un po' periferica, dove è piuttosto probabile si possano trovare giri loschi o legati alla malavita; Ashiya invece è una ricca area residenziale tra Osaka e Kobe. Ringrazio Niijika  per le informazioni (è molto più ferrata di me, in fatto di Giappone ^^')

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