33
Il sole stava calando. Pian piano il disco rossastro del cielo scendeva dietro le montagne che si scorgevano all'orizzonte, tingendo di sfumature rosate l'etere già dorata. Genew chiuse l'occhio ancora buono, lasciandosi riscaldare dai tiepidi raggi dell'astro diurno; intorno a lei, solo il dolce canto degli uccelli variopinti che si gustavano l'ultimo volo prima della notte.
"Che posto magnifico" non riusciva a smettere di pensare, lasciando che l'occhio cadesse su qualsiasi elemento che la circondava. Di fianco a lei immaginava la figura del padre, che fin dalla sua infanzia la portava in quel luogo, il più piacevole di tutta la foresta, per parlarle e insegnarle, mentre circondava la sua schiena con un braccio, infondendole tutta la sua calma.
Ne aveva bisogno: da cinque giorni, da quando era avvenuta la battaglia contro i Gheisas, correva freneticamente dall'Oikìa ai luoghi dove si erano accampati i nuovi membri del clan, dal luogo dello scontro, per recuperare i caduti, alle piattaforme dei costruttori, per coordinare i lavori di edificazione delle nuove abitazioni, dagli oikaria di cura, dove riposavano ancora i feriti più gravi, alle basse mangrovie, per i riti funebri.
Era esausta.
E in cuor suo sapeva di non aver ancora finito. Raddrizzò la schiena e iniziò a enumerare con le dita tutto ciò che aveva o doveva ancora fare. Rendere gli onori a tutti i Gheneiou che avevano perso la vita, fortunatamente solo dodici: fatto. Scortare i Gheisas ai loro territori, perché onorassero i loro defunti nei modi più consoni alle loro usanze e comunicare a chi era rimasto al clan della sconfitta e della nuova condizione: fatto. Radunare tutti i costruttori e impostare l'edificazione di tutti gli oikaria che sarebbero occorsi: fatto. La luna seguente, con l'aiuto di altre categorie di lavoratori, sarebbero riusciti a portare a termine quel progetto.
Nel mentre, conoscere gli ex nemici, disporsi con benevolenza nei loro confronti e apprendere ogni informazione utile - abilità militari e tecnologiche, usanze e abitudini - dell'altro clan: su questo punto era ancora agli inizi, ma presto avrebbe imparato tutto ciò che bisognava sapere. E menomale aveva incontrato Waldhar, un guerriero sveglio che aveva iniziato a portarsi appresso ovunque andasse, perché, durante i lunghi tragitti sulle liane, la istruisse sul proprio popolo, accelerando il suo processo di apprendimento: se non fosse stato per lui, che le riassumeva gli aspetti più importanti, ci avrebbe impiegato una vita.
Ma non era ancora finita: oltre alle loro abitudini, doveva conoscere i membri stessi dell'altro clan, innanzitutto per dividerli in base alle loro competenze e attribuire un ruolo a ognuno di loro, ma anche perché potesse riservare anche a quelli il medesimo trattamento che destinava ai Gheneiou. Era poi essenziale trovare una sistemazione adatta per gli orfani: i più grandi potevano gestirsi da soli, controllati anche solo una volta al giorno da un adulto, ma i più piccoli avevano bisogno di una famiglia che li crescesse. Alcuni non avevano nemmeno cinque anni! Avrebbe chiesto al più presto a tutte le coppie del clan se qualcuno fosse disposto a tenerli con sé.
Prima ancora, però, doveva recarsi dalle maghe, perché tra Gheneiou e Gheisas scomparisse ogni differenza e potessero davvero trattarli senza alcun sospetto.
"Domani, domani" si impose. Avrebbe portato Waldhar con sé, per non sprecare neanche un istante prezioso per il suo apprendimento, e una volta giunta da Arla e Silva avrebbe stipulato la transizione.
Quante questioni in sospeso, ancora... E lei se ne stava a riposare! Se solo fossero state tutte lineari, si sarebbe sentita un poco sollevata; invece aveva iniziato a scontrarsi con dei problemi già da subito, il più grande dei quali la inquietava come nulla aveva fatto prima d'allora. Non riusciva a smettere di pensarci.
Tra le varie informazioni, mentre stavano recuperando i corpi dei defunti, Waldhar le aveva riportato il numero degli individui del suo clan: cinquecento ottantadue, di cui ne erano rimasti duecento sedici, contando anche chi non aveva preso parte allo scontro. Ma di cadaveri ne erano stati ritrovati solo duecento novantaquattro, contati e ricontati più volte. E gli altri? Se fossero stati meno, avrebbe anche potuto supporre che i loro corpi fossero stati divorati dalle belve durante la notte, ma una settantina di individui erano troppi.
I Gheisas erano alleati con Mortino. E se si fossero uniti al suo clan come membri a tutti gli effetti, pur di vendicare il loro capo deceduto? Era l'unica spiegazione che Genew riusciva a trovare. In tal caso cosa avrebbero potuto fare? Sarebbero stati in grado di convincere Mortino a muovere guerra contro Tou Gheneiou?
No, no, non doveva pensarci. Quelle idee la rendevano solo più improduttiva, le sottraevano la concentrazione e lei si ritrovava a fissare il vuoto, mentre decine di persone cercavano di parlarle di altre questioni, quelle concrete, che dovevano essere sbrigate al più presto. Ma per costruire un oikarion almeno una dozzina di giorni era necessaria, trovare una sistemazione agli orfani non era così immediato, e neppure capire quale fosse il momento migliore per introdurre anche i Gheisas a una vita attiva nel clan.
E intanto temeva di incontrare i loro volti, temeva che il modo disinvolto di Waldhar fosse solo finzione, temeva che dai loro occhi, se li avesse osservati bene, potessero uscire le immagini dell'incubo che stavano vivendo. A causa sua.
«Qualcosa mi diceva che ti avrei trovata qui». Genew sobbalzò dal ramo su cui era seduta. Si aggrappò al tronco per recuperare l'equilibrio e volse subito lo sguardo verso il fogliame, da dove spuntava una testa ricoperta di ricci neri un po' brizzolati.
«P-padre?» balbettò, confusa e agitata: se era lì era perché la stava cercando, e se la stava cercando era per dirle qualcosa, di sicuro in merito al suo operato degli ultimi giorni. Stava facendo troppo di testa sua? Dalla fine della battaglia non aveva più ascoltato nessuno, anzi, era scappata da chiunque volesse parlarle, usando la scusa di essere troppo impegnata. Sapeva che per la prima volta aveva agito senza seguire i consigli di nessuno e ne temeva le conseguenze: cos'avrebbero pensato gli altri adesso? E, primariamente, cos'avrebbe pensato suo padre? Finché aveva potuto, era fuggita, ma adesso non ne era più in grado: doveva scontrarsi con la realtà, fronteggiare il temuto giudizio. Volse il capo dall'altra parte, pronta a incassare l'ennesimo rimprovero.
«Portandoti sempre qui da bambina, devo averti trasmesso l'amore che provo per questo posto» rifletté il capo del clan, risalendo piano dal fogliame. Il suo tono non era risentito: la giovane si girò di nuovo e, scorgendo un sorriso sul volto del padre, ritornò quieta. Ma allora perché era venuto? Se non era arrabbiato con lei e non doveva mostrarle il suo biasimo, significava che stava operando nel modo corretto: cosa c'era da dire in più, allora? Non aveva il coraggio di chiederglielo: magari doveva comunque redarguirla, ma, come suo solito, lo faceva in quel modo così calmo che le portava ancor più sensi di colpa.
Il capo arrancò un poco ma alla fine, a discapito della gamba malconcia, riuscì comunque a sedersi alla sua destra, dove sempre si poneva prima di iniziare a parlare. Improvvisamente Genew si sentì piccola ed esile, senza i muscoli possenti che aveva formato in anni e anni di duro allenamento, senza le cicatrici di cui era costellata, persino senza la benda che le copriva l'occhio mancante. E al suo fianco il padre che aveva sempre visto grande, tanto più grande di lei, che sorrideva con lo sguardo immerso nell'orizzonte.
«È il posto più bello di tutta la nostra foresta» affermò con semplicità, non sapendo che altro dire: quando era con lui, la lingua si intorpidiva, quasi fosse consapevole di non poter dire nulla che eguagliasse i discorsi del genitore.
«Lo so, non l'avevo scelto certo a caso, quando ti portavo qui per parlare». E quel momento non poteva che ospitare uno dei loro incontri, anche se a distanza di così tanto tempo dall'ultimo. «Vedere il bello spinge a porsi delle domande. La prima è sempre la stessa: com'è possibile? Com'è possibile l'esistenza di una tale bellezza? Com'è possibile che conviva al fianco di un'altrettanta bruttura? Com'è possibile che talvolta riesca a coprirla, a sembrare che l'abbia sconfitta? E da questi primi "com'è possibile" se ne agganciano altri, tantissimi, prima rimanendo sempre sul concetto di bello, poi staccandosi da questo e andando a toccare cose che non c'entrano niente. È vedendo il bello che l'uomo ha iniziato a interrogarsi e a riflettere. Anche vedendo il brutto, in realtà, purché sia qualcosa che lo porti a emozionarsi. Io però, se posso, preferisco porre i miei occhi sul bello».
Ridacchiando, si volse verso Genew, che lo guardava incerta: ancora non capiva. Come sempre. Non capiva mai dove volesse andare a parare suo padre, con quei lunghi discorsi, finché non pervenivano al loro punto d'arrivo: solo allora, avendoli ripercorsi nel loro insieme, acquistavano un senso.
Il padre tornò a guardare il cielo, indicandolo con un cenno della testa anche alla figlia. «A te che domande sorgono, vedendo le rosee nuvole che si rincorrono, si raggiungono, si mescolano e, diventate un tutt'uno, creano nuove forme?»
«Solo quelle che dici anche tu».
«Ti provocheranno però qualche riflessione» la incalzò il genitore, che non si sarebbe accontentato di una risposta superficiale.
Genew guardò le nuvole di mille sfumature diverse. Erano meravigliose, ma anche in quella bellezza finiva per scorgere la situazione che doveva gestire e dalla quale si stava sottraendo: due nuvolette si stavano avvicinando l'una all'altra, il sole le tingeva di due rossi diversi, ma entrambi scuri e forti; pareva stessero per iniziare una battaglia. Lo scontro avvenne, ma nulla provocò, se non l'amalgamarsi perfetto delle due. Ciò che non era sicura che Tou Gheneiou e Tes Gheisas sarebbero riusciti a fare.
«Purtroppo sì» sospirò infine.
«Perché purtroppo?»
«Vorrei solo... non pensare. Ma non ci riesco. Anche guardando la serenità che mi trasmettono questi colori, il mio animo resta inquieto e pensa, pensa».
«Allora non ti cambierebbe molto venire giù, con tutti gli altri».
Genew rizzò la schiena e spalancò gli occhi: suo padre aveva capito che stava cercando di evitare a ogni costo il contatto con qualsiasi persona del suo popolo o di quello che sarebbe stato il suo popolo?
«Come sai che sono venuta qui per-».
«Oh, si capisce, si capisce eccome» la interruppe, con un gesto della mano. «Come si capisce che stai lavorando ancor più del tuo solito solo per aggirare un confronto diretto».
Genew raccolse le ginocchia al petto e vi appoggiò la fronte: com'era vile.
Il tocco morbido del genitore le carezzò una spalla. «Non serve che abbassi la testa».
«Sì, invece» ribatté lei, premendo più forte il capo contro le gambe. «Sto scappando. Un capo non dovrebbe mai farlo».
Silenzio: suo padre stava meditando.
«Da cosa scappi, Genew?» le chiese dopo qualche attimo, la voce dubbiosa: non era la sua solita domanda retorica per far nascere in lei la verità; lui stesso non capiva fino in fondo quella situazione. «Da tutta la vita sogni la gloria e, ora che ti si presenta davanti, ora che puoi ottenerla, non la vuoi più?»
«No... Quello l'ho capito: la gloria non è importante. Però non voglio sembrare poco coerente...» aggiunse poi: cos'avrebbe pensato di lei, suo padre, vedendola cambiare idea così repentinamente? Fino a pochi giorni prima, era stata una persona del tutto diversa.
«Non lo sembri. È normale che si cambi opinione, soprattutto alla tua età. Anzi, menomale si cambia opinione! Non credi?»
Genew alzò appena la testa e rivide di nuovo il sorriso del padre. Non avrebbe potuto fare un'allusione più chiara a ciò che la figlia era stata e non era più.
«Sì» annuì la giovane, mentre anche le sue labbra assumevano una piega lieta.
«Ma torniamo alla tua fuga» riprese il padre, appoggiando lateralmente la testa sulla mano, così da concentrare ogni sua attenzione sulla figura della figlia, che ormai non poteva più sottrarsi dal raccontargli la verità.
«Ho paura di star sbagliando tutto» si arrese a rivelare. «Nessuno mi sta dicendo cosa fare e mi sento... mi sento come una foglia che, troppo debole per stare attaccata al suo ramo, viene rapita dal vento e trasportata da una parte e dall'altra senza che sappia cosa stia facendo. Così mi sento».
L'uomo si passò più volte una mano tra i riccioli stretti, come a riflettere bene sulle ultime sue parole.
«Io credo invece che tu fossi così prima, non ora» ragionò. «Adesso non c'è nulla che ti stia costringendo: sei finalmente libera».
«Ma questa libertà mi spaventa».
«Certo: mentre eri una foglia in balìa del vento, non dovevi fare nulla; era ciò che ti stava intorno a farti muovere, dovunque volesse. Ora che sei libera, sei spaesata, non hai nessun appoggio. Giusto?»
«Sì».
«E invece ti sbagli» rise il genitore, spiazzando completamente la giovane.
«Ma lo hai detto tu!» controbatté, disorientata.
«L'ho fatto apposta» disse l'altro, portandosi una mano sulla bocca per coprire l'ilarità del momento. Con una boccata d'aria, tornò immediatamente in sé. «Ciò che sei ora deriva dalle tue esperienze e dalle persone che comunque, che tu lo voglia o no, ti stanno vicine. Tutto questo ti influenza, o meglio, ti sostiene nelle tue scelte, che, senza questo appoggio, non riusciresti proprio a compiere. Ma hai comunque paura di sbagliare, perché il tuo pensiero, formato dalla sintesi di tante esperienze, non è uguale a quello di un altro, che, pensando in una maniera diversa dalla tua, potrebbe screditare ciò che hai compiuto e stai compiendo. Quindi, piuttosto che paura di sbagliare, tu adesso hai paura di deludere qualcuno».
Genew annuiva meccanicamente: era proprio così ma lei non avrebbe mai saputo spiegarlo in una maniera così lucida. Solo un particolare mancava, e la giovane non se la sentiva di tenerglielo nascosto: «Ho paura di deludere te. Per un'altra volta ancora».
Altro silenzio. Suo padre non stava più sorridendo. Genew rabbrividì: aveva detto qualcosa di sbagliato?
Alla fine l'uomo scosse la testa: «Non potrai mai accontentare tutti. Non puoi scegliere per le persone: devi scegliere per un ideale. In quanto capo, sai già in virtù di cosa devono essere queste tue scelte».
«Il bene del mio popolo».
«Lo sono state?»
Genew rifletté a modo, per non dare una risposta scontata. Tou Gheneiou aveva vinto la guerra, riportato pochi morti e presto tutto sarebbe tornato alla normalità. Non vedeva che in qualche modo le sue azioni avessero nuociuto alla sua gente.
«Sì».
«Ma, in quanto essere umano,» proseguì il padre, «le tue scelte devono essere in virtù di un'altra cosa. Sai qual è?»
Genew non aveva più dubbi in merito: «È la vita» rispose subito, senza nemmeno pensarci. «Ed è ciò a cui ho pensato quando, prima di uccidere la Geisha, le ho promesso che avrei accolto tutto il suo popolo nel mio. I Gheisas, come i Gheneiou, non meritavano di subire altra violenza».
Il sorriso rispuntò sul volto dell'uomo, non più solo quieto e sereno: le sue labbra esprimevano una consistente felicità.
«E finalmente, sentendoti dire questo, so che i miei insegnamenti, pur imperfetti, hanno raggiunto il loro obiettivo. Finalmente,» disse, carezzandole il volto, «vedo brillare in te la futura anaxa di Tou Gheneiou».
Una gioia improvvisa immobilizzò Genew: non aveva parole per esprimerla, non sapeva come fare nemmeno a gesti. Fissava suo padre, gli occhi spalancati, come la bocca, ancora incredula di ciò che aveva udito. Avrebbe voluto saltargli al collo, stringerlo a sé, gridare che adesso la poteva riconoscere davvero come sua figlia, come sua erede, e che lei aveva raggiunto il suo scopo principale: renderlo fiero di lei.
Ma non fece nulla di tutto ciò. La sua figura le incuteva ancora un timore reverenziale: non se la sentiva di prendere tanta confidenza. Gli afferrò le mani e lasciò che il suo busto cadesse al suo cospetto, finché la sua fronte non arrivò a contatto con le dita callose del genitore.
«Quindi... quindi non sei più arrabbiato con me?» chiese. Per la troppa emozione, mentre parlava le tremolava il labbro inferiore, come tutto il resto del suo corpo.
«Hai fatto degli errori, ma stai rimediando».
«Ma non come faresti tu».
«Genew, sei ancora troppo vincolata a questa concezione: se uno agisce nel modo in cui vorrebbe un altro, allora quest'altro è d'accordo; altrimenti no e non lo sarà mai. Non è così, sennò ti avrei istruita come hanno fatto gli Anziani, ti avrei imposto il mio modo di vedere il mondo e ti avrei formata solo su quello. Mi sarei risparmiato tante rogne e non avrei corso il rischio di consegnare a Tou Gheneiou un capo dissennato, ma ne avrei plasmato uno uguale a me, con i miei stessi, innumerevoli, difetti: nulla sarebbe cambiato. Invece ti ho lasciato solo una dritta da seguire, alla quale però potevi scegliere di giungere per strade diverse». Sottrasse le mani dalla presa della figlia, stranita ancora una volta. Non voleva stare a contatto con lei? Aveva esagerato con quell'effusione? Rialzò la testa e vide le braccia del padre che si andavano a posare sulle sue spalle.
«Ora hai trovato la tua e forse, quando l'avrai percorsa tutta, Tou Gheneiou otterrà un capo anche migliore di me». E dolcemente la strinse a sé, nell'abbraccio più bello che Genew avesse mai ricevuto. Il suo occhio si inumidì e lasciò che anche il suo corpo, ancora rigido, rispondesse: timidamente lo avvolse a sua volta e si lasciò cullare dalla tenerezza di quel momento.
«Non credo potrà mai esisterne uno» bisbigliò, per poi immergere la testa nell'incavo tra la spalla e il collo. Non sapeva di aver sempre desiderato quell'abbraccio, finché non l'aveva provato.
«Figlia» la chiamò l'uomo, dopo aver prolungato l'abbraccio a lungo, anche se a Genew pareva ancora troppo poco.
«Sì, padre».
«Mi hai fatto venire in mente un'ultima questione: abbiamo parlato di capo e di essere umano, prima. Bene, devi ricordarti sempre che sei entrambi, né solo uno né solo l'altro».
«In che senso?» Come si ricollegava tutto questo al discorso avuto poco prima?
«Una persona ha bisogno di stare a contatto con gli altri, e non solo per discutere e risolvere i problemi, controllare che tutto funzioni nel modo corretto, aiutare nei lavori più pesanti... Devo andare avanti?»
«È quello che faccio io» si strinse nelle spalle Genew.
«Esatto, e fai bene. Ma, vedi, una persona ha bisogno anche di amore».
Genew distolse gli occhi e si discostò dal corpo del padre: quell'abbraccio era stato bellissimo, le aveva riempito il cuore, ma non l'avrebbe illusa.
«E chi mai vorrebbe avere intorno una che si è fatta odiare come me?»
«Sei pessimista».
«Sono realista» replicò con forza. «E non mi merito l'amore di nessuno. È meglio che continui a fare il capo e basta: è la giusta punizione che devo scontare».
Con la schiena girata verso di lui, non vedeva più suo padre, ma lo sentì sospirare profondamente.
«Fa' come vuoi. Il mio consiglio te l'ho dato, e credo che tu abbia capito anche con chi ti suggerisco di iniziare».
Genew annuì, sempre tenendo gli occhi fissi sul paesaggio: certo che aveva compreso il suo implicito consiglio, tanto quanto sapeva che un perdono da parte sua sarebbe stato almeno il doppio più difficile da ottenere, rispetto a quello di chiunque altro. Perché tentare?
«Vedrai tu. Adesso vado. A differenza tua, non riesco a star lontano troppo a lungo da chi amo». Il ramo si mosse un poco: si stava alzando.
Perché tentare? Perché tra tutte le questioni in sospeso che aveva, c'era anche quella e sapeva che se non avesse colto allora l'occasione non avrebbe più potuto farlo, tenendosi per tutta la vita il rimpianto di non averci nemmeno provato.
«Aspetta, padre». Si girò all'improvviso: la testa brizzolata era ancora dietro di lei. «Dove stai andando?» Aveva detto che sarebbe tornato da chi amava; ma chi tra i tanti? Se avesse tenuto occupato chi pensava Genew, la mezza idea che le era sovvenuta non avrebbe potuto essere nemmeno contemplabile.
L'uomo sorrise di nuovo. «All'Oikìa, prenderò parte ai festeggiamenti e vedrò di conoscere un poco i nuovi Gheneiou. Tranquilla,» fece, strizzandole un occhio, «lei sarà tutta per te».
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Sigh sigh... Non stiamo piangendo, è solo che siamo un po' commosse 🥲. Genew f era così insopportabile, prima, probabilmente per alcuni di voi lo sarà ancora, ma ripensando al percorso che ha fatto (pur essendo ancora in corso) e scrivendolo si è avvicinata a me in una maniera tale che fino a poco fa mi sarebbe sembrata impossibile! Anyway, Genew p è sempre il più saggio che possa esserci e mai nessuno lo supererà! Sono abbastanza soddisfatta delle riflessioni che gli ho messo in bocca, spero non troppo scontate (come invece lo erano quelle della prima versione... mamma, rabbrividisco 🥶). Se leggendo questo capitolo avete riconosciuto in lui qualche tratto del mio adorato Socrate, ebbene, è assolutamente voluto: da sempre ho voluto caratterizzare Genew come re-filosofo, ma fino ad ora non avevo mai avuto l'occasione per farlo in modo così preciso, tanto da poter citare persino la maieutica 🤩. Vabbè, non sto a rompervi con la filosofia, so che volete andare avanti, quindi... quale sarà mai la questione in sospeso che sente la giovane Genew? Penso l'abbiate capita tutti ma aspettate il prossimo capitolo per confermare le vostre ipotesi.
A prestissimo e intanto vi mandiamo un abbraccio caloroso come quello di Genew (almeno, ci si prova: abbracciare bene come Genew non è certo una banalità!) ❤❤❤
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