31
Una chioma fulva e una corvina si intravedevano tra il fogliame della foresta. Una davanti all'altra, si squadravano, girando in tondo su quel mastodontico ramo che avevano scelto come luogo dove combattere l'agòn.
Tutt'intorno, i guerrieri superstiti, ormai di egual numero dalla parte dei Gheneiou e da quella dei Gheisas, osservavano le due nemiche pronte a scagliarsi contro l'avversaria da un momento all'altro. Kairos e Morag sedevano fianco a fianco, la bocca chiusa e gli occhi fissi e trepidanti sulla scena sottostante.
Il più giovane dei due si mordicchiava un labbro per l'ansia e, senza guardare nemmeno di sfuggita l'amico, sapeva che era nella sua stessa situazione: quella di chi, per la prima volta, si era trovato faccia a faccia con la morte.
Era ormai trascorso del tempo da quando l'araldo era giunto sugli alti rami dove si erano nascosti e dove i Gheisas li avevano stanati e circondati, per avvertirli della scelta di sua sorella. Ma il brivido provato dopo essersi trovato schiacciato da un altro uomo e con un coltello puntato alla gola era rimasto impresso sulla sua pelle. Avrebbe dovuto passare altro tempo - non avrebbe saputo dire quanto - prima di lasciarselo alle spalle.
"Se fosse arrivato solo pochi istanti dopo..." Il nemico aveva ormai affondato l'arma nella sua carne, quando il messaggero, appena sopraggiunto, aveva chiamato a gran voce l'attenzione di ogni combattente, Gheisas o Gheneiou.
"Per ordine della Geisha e dell'anaxa di Tou Gheneiou, deponete immediatamente le vostre armi".
L'avversario, che probabilmente combatteva solo spinto dalla volontà di obbedire al proprio capo o, come Kairos, da quella di non morire, si era subito staccato dal suo corpo.
E così ora si trovava lì, insieme ad altre centinaia di uomini e donne, tra Gheneiou e Gheisas, a osservare sua sorella che stava dando la vita per il bene del proprio popolo. Bastava solo che morisse la Geisha, non per forza che riuscisse a prevalere, e Tou Gheneiou sarebbe stato salvo. Una volta morta lei, il suo popolo non avrebbe voluto proseguire nell'attacco. Li aveva visti combattere: nessun ardore, se non minimo, li aveva caratterizzati, passione che invece aveva impregnato lui nel corpo e nella mente, non appena quelli avevano teso loro l'assalto.
Più ci rifletteva sopra, più si convinceva che prestissimo avrebbe riabbracciato Raya, sua madre, i suoi fratelli...
La battaglia ancora non iniziava. Cosa aspettavano? Avevano smesso di muoversi come due belve prima dell'attacco e si erano avvicinate, come per dirsi qualcosa. Ma cosa? Le labbra della Geisha si muovevano, mentre teneva la testa abbassata, e Genew la guardava negli occhi, annuendo lentamente.
Genew. No, impossibile: quella non era la stessa Genew che gli avevano detto fosse sua sorella! Quella non era la stessa Genew che aveva sempre osservato chiunque con sufficienza, che aveva contribuito a rendere tremenda la vita di sua madre, che aveva colpito Raya solo la settimana precedente, che aveva tentato di uccidere Em. O forse quella era la vera Genew, mentre, per tutta la sua vita, aveva conosciuto solo un'ombra degli Anziani?
Era talmente assurdo che non riusciva a immaginarlo. Nella sua testa rimaneva così, sempre lontana, sempre fredda, sempre immersa nel suo ruolo di capo, in modo così radicato che nulla, se non un intervento sovrumano, avrebbe potuto smuoverla. Allora davanti ai suoi occhi doveva essere avvenuto davvero un miracolo degno delle storie che si raccontano durante le feste.
O forse era stato solo un cambiamento temporaneo e, una volta terminata la guerra, sarebbe tornata come prima. Era probabile, ma intanto, se non altro, aveva salvato lui e il resto del suo popolo. Si poteva accontentare.
Ma una parte di lui desiderava di più.
"Sorella, sei cambiata davvero? La guerra ti ha spinta a guardare dentro di te e hai compreso i tuoi errori, almeno qualcuno? Io lo vorrei, non soltanto perché desidero essere comandato, un domani, da un capo saggio, ma anche perché voglio conoscere quella sorella che da tutta la vita mi è stata estranea. Ma devi essere tu a darmene la possibilità".
Un mutamento nell'aria: la notte era divenuta ancor più silenziosa. Avevano smesso di parlare. Genew si allontanava dalla nemica, scuotendo la testa, quasi volesse svuotarla del tutto, mentre la Geisha, ponendo mano al laccio del mantello, lo disfaceva e gettava da un lato con un movimento rapido l'indumento bianco che la copriva completamente, restando con una semplice tunica corta del medesimo colore.
Si mossero all'unisono.
~
La notte stava giungendo al termine ma lo scontrarsi ripetitivo delle spade persisteva, senza aver mai abbandonato quell'angolo di foresta.
Quanto era passato dall'inizio dello scontro? Genew non avrebbe più saputo dirlo: tutto ciò che continuava, ripetutamente, a fare era colpire la spada della nemica, senza sforzarsi di essere originale o energica nei movimenti, come del resto l'avversaria. Erano esauste, spossate da quello scontro che non finiva più e che, d'altra parte, non potevano lasciare che finisse. Uno sforzo ulteriore per riuscire a prevalere sarebbe costato troppo a entrambe.
Continuavano a combattere per inerzia: un fendente, una stoccata, l'una arretrava, l'altra avanzava, l'ennesimo colpo e si ritiravano di nuovo. Sempre così. Passati i primi mille istanti dell'agòn, quelli decisivi, in cui i contendenti hanno ancora la possibilità di prevalere sull'altro, si sa che il duello prosegue in una lotta di logoramento, volta a sfinire fino alla morte chi vi ha preso parte.
Genew la vedeva sempre più vicina. Talvolta, al posto della foresta buia, intorno a sé vedeva solo nero e pensava che gli inferi la stessero reclamando.
"Aspettate, non ancora" supplicava chiunque governasse quelle terre che nessuno conosceva. "Lasciatemela uccidere, poi potrò venire".
L'oltretomba la terrorizzava, riempiendola di domande che mai le erano sovvenute: "Come posso a un tratto smettere di esistere? Non riesco a pensare che non sarò più nulla. O forse sarò ancora qualcosa. Ma cosa? Com'è morire? Fa male? Sentirò qualcosa? O, semplicemente, non sentirò più niente? E allora com'è non sentire più niente? Com'è non esistere?" E tanti altri erano i pensieri che le balzavano in mente, tra una parata e un fendente.
Ma la prospettiva della fine di Tou Gheneiou riempiva il suo cuore di una paura ben più forte. Non poteva abbandonare lo scontro: colei che si trovava davanti a lei non lo avrebbe mai fatto. Lo sapeva: glielo aveva rivelato lei stessa, poco prima che iniziasse l'agòn.
«Non avrei mai pensato di confessare tutto questo alla mia peggiore nemica» aveva iniziato quella, quasi ridendo della situazione, per poi incupirsi immediatamente. «Sono solo una disperata» aveva detto, un mezzo sorriso malinconico sul suo viso. «Una disperata con cui, a un certo punto, il destino ha deciso di divertirsi. Non posso dire di essere stata infelice per tutta la vita: quando ero ancora una bambina, non avevo problemi. Ho ricordi vaghi di quell'epoca, ma tutti sono vivacizzati da una luce di allegria e di spensieratezza. Dall'anno in cui compii sette anni, poi, ogni immagine che ho è sovrastata dal buio opprimente della solitudine».
Aveva abbassato la testa e il suo tono era mutato appena, come spezzato talvolta da impercettibili singhiozzi: «Avevo una bella famiglia. Ricordo poco o nulla di loro, ma so che era una bella famiglia. Ho dimenticato il viso di mio padre, ma mi è rimasta impressa la sua voce calda e comprensiva, sempre pronta a consolarmi; la mia mente ha cancellato l'aspetto di mia madre, però rammento ancora come fosse bello stringermi tra le sue braccia confortevoli. Puoi capirmi, vero? Avrai trascorso dei momenti felici anche tu».
Genew aveva distolto lo sguardo, con discrezione, perché la nemica non notasse l'ombra che era scesa sul suo viso sentendo ciò che le era sempre mancato.
«Poi, una notte come questa di diciassette anni fa,» aveva ripreso la giovane fulva, lanciando uno sguardo allo spicchio argenteo che illuminava la notte, «li persi. Un manipolo di Tou Gheneiou era giunto nella giungla per attaccarci. I nostri giovani erano fuori dai territori del clan, così i guerrieri veterani si erano armati velocemente per cercare di opporsi ai nemici, ma la furia incontenibile di una donna, il loro capo, non riuscì a essere contrastata da nessuno. In pochi sopravvissero. I miei genitori perirono, a detta dei superstiti, per mano di quella stessa donna». Aveva rialzato gli occhi, puntandoli gelidi in quelli dell'avversaria. «Costei portava il nome di Genew».
La giovane conosceva bene quell'evento, una delle ultime, grandi vittorie di Tou Gheneiou prima che sua nonna cadesse durante l'attacco a Mortino. Era riuscita a vederla con i suoi stessi occhi: pur non ricordando molto - allora aveva solo tre anni -, la sua memoria conservava ancora il clima di allegria di tutto il clan subito successivo alla schiacciante sconfitta dei nemici. Non aveva mai pensato di considerarlo dall'altro punto di vista.
«Capisco la tua collera, ma mia nonna doveva indebolire Mortino, così aveva deciso di attaccare tutti i vicini clan alleati per destabilizzare la sua potenza e tra questi, casualmente, c'era anche il tuo. E infatti, così facendo, pochi anni dopo riuscì a penetrare nei suoi territori, anche se alla fine non riportò alcun successo».
«Quindi mi stai dicendo che tua nonna avrebbe fatto bene ad attaccare noi?» aveva sibilato la Geisha, accigliata.
«Non fraintendermi. Dico solo che anche lei aveva delle motivazioni».
Un sospiro profondo, pieno di rancore. «Sangue chiama sangue» aveva detto il capo dell'altro clan, con una smorfia piena di disprezzo. «A un episodio di violenza ne segue sempre un altro».
«Qualcuno dovrebbe interromperli» aveva sospirato Genew, riuscendo finalmente a comprendere a pieno ciò che pensava suo padre. E lei, cieca, ci aveva messo così tanto...
«Che soluzione originale!» aveva esclamato l'altra, un ghigno di sarcasmo impresso sul suo volto. «Dopotutto, che difficoltà c'è? Dovrebbe essere la prima cosa che viene in mente a qualcuno, no?» Immediatamente il tono era cambiato, la fronte aggrottata in un'espressione cupa. «Ma prova a parlarne con chi non pensa ad altro da tutta la vita: gente simile ha fatto di tutto solo per vedere soddisfatta la propria vendetta. Prova a spiegarlo a loro, che dovrebbero deporre le armi e fare la pace, quando magari hanno rinunciato a tutto, persino alla propria libertà, pur di immergere la propria spada nel ventre del nemico. Prova a spiegarlo a noi».
E si era allontanata da lei: era finito il momento di parlare. Così aveva avuto inizio lo scontro.
La Geisha, Genew lo sapeva, non avrebbe mai ceduto: aveva rinunciato a qualsiasi altra cosa, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Cambiare idea all'ultimo momento sarebbe stato come vanificare tutti i sacrifici precedenti.
E nemmeno Genew poteva mollare proprio adesso: doveva salvare Tou Gheneiou e per farlo si sarebbe adoperata in qualsiasi modo. Quella di donare la vita per il suo popolo era forse l'unica scelta da capo che avesse mai compiuto. Una vita che, per di più, non aveva mai lasciato nulla di positivo, se non con quell'ultima, disperata, azione.
Della sua perdita non sarebbe importato nulla a nessuno: non era un buon capo, così impulsiva e infantile, e non capendo l'importanza di ogni membro della società del clan, dal più glorioso dei Guerrieri al più umile vasaio. Tutti lo avevano pensato, pur non rendendoglielo noto per paura di una ritorsione da parte sua. Come se un capo potesse essere tanto folle da voler imporsi e governare con la violenza: chi mai vorrebbe tenere il proprio popolo in un perenne timore, vederlo terrorizzato al proprio passaggio? Eppure lei aveva lasciato proprio quest'immagine dispotica.
Solo suo padre, l'unico che non la temeva, era arrivato a esporle e spiegarle tutti i suoi errori, sempre con la sua caratteristica calma: voleva aiutarla, fare in modo che capisse i suoi sbagli. E lei mai una volta lo aveva ascoltato, troppo sicura. Lui, così paziente e volenteroso, aveva continuato a venirle incontro, a cercarla ma lei, testarda, aveva seguitato a respingerlo, certa che lo avrebbe reso fiero, sorprendendolo, quando avesse dimostrato che aveva sempre avuto ragione. Ma aveva solo fatto in modo che anch'egli le girasse le spalle. Le ultime volte che si erano parlati era sempre stato freddo e distaccato: negli occhi del genitore aveva letto una profonda delusione.
E il suo unico obiettivo, proprio mentre cercava di raggiungerlo, si era disintegrato. Ormai, non avrebbe più recuperato la fiducia di suo padre, l'unico membro della sua famiglia che le era sempre stato accanto. Pensare infatti che a tutti gli altri importasse qualcosa del suo destino era semplicemente ridicolo: era sempre stata insensibile e dura con loro, forse perché non aveva mai potuto vivere in quel clima di amore che vedeva riflesso negli occhi sorridenti dei suoi fratelli.
Forse i soli Anziani, che più tra tutti l'avevano cresciuta, avrebbero sofferto della sua perdita. Non lo credeva. Le ritornavano alla memoria tutte le moine, tutti gli elogi, spesso fini a se stessi. Avevano solo voluto ingraziarsi l'erede al titolo di anax, così che, una volta morto Genew, avrebbero governato attraverso la loro debole e ingenua copia: avrebbero mantenuto la tradizione, non ci sarebbero stati cambiamenti. Tutto sarebbe rimasto nella fissità che tanto li rendeva sicuri e Tou Gheneiou avrebbe rivisto la gloria del passato, a cui tanto ambivano. A modo loro, volevano il bene del loro popolo, ma cercando di ottenerlo l'avevano ridotta a un mero mezzo per i loro scopi. E per la perdita di un oggetto solo un bambino può piangere; un adulto se ne può dispiacere, ma dopo poco lo dimentica.
Allora, forse, l'avrebbero pianta i membri della Squadra di Ricerca, quelli con cui, dai suoi sedici anni, aveva condiviso la maggior parte del proprio tempo, in giro per l'isola, nella vana speranza di raccattare degli indizi per il tesoro. Certo, infatti, quando fosse passata l'asse che avrebbe trasportato il suo corpo fino alle acque, avrebbero dimenticato i suoi attacchi d'ira perché non potevano muovere guerra agli altri clan, perché non trovavano mai nulla, perché i tempi di riposo al villaggio erano sempre troppo lunghi, perché... Sicuramente avrebbero dimenticato quanto sia sempre stata insopportabile.
E Rigel? Almeno lei, la sua migliore amica, l'unica tanto coraggiosa da sfidarla, pur non avendo alcuna autorità su di lei, ciò che aveva invece suo padre, la sola che era stata in grado di rimettere in funzione il suo cervello atrofizzato, avrebbe provato qualcosa, sapendola morta? Forse non era nemmeno più su questa terra. Ma se lo fosse stata - come si augurava -, come avrebbe potuto rimpiangere colei a causa della quale le erano state imposte un'infanzia e un'adolescenza dure, senza alcuna spensieratezza, solo perché, casualmente, era nata quasi nello stesso periodo della futura anaxa? Era stata costretta a diventare sua amica, forse fingeva soltanto di esserlo. Senza di lei, si sarebbe tolta un gran peso.
Dunque era sola. Ma ciò non mutava il suo ruolo: era il capo. Il fatto che nessuno si preoccupasse di lei era irrilevante: doveva ugualmente sbaragliare il nemico e proteggere la sua gente. La sua vita, considerato tutto questo, non contava.
Tirò l'ennesimo fendente, diretto a una gamba, la spada quasi le scivolò di mano. Stava perdendo sempre più l'originario vigore. La Geisha dovette accorgersene: si avventò subito su di lei e Genew non si spostò abbastanza celermente perché non la colpisse. Uno squarcio segnò il braccio sinistro. La giovane balzò all'indietro. Ansimava, non solo per la stanchezza: aveva paura, non più di morire, ma di non riuscire a mandare la Geisha all'altro mondo. Con quell'ultima ferita, sapeva che non avrebbe più potuto combattere a lungo. Mancava poco tempo. Per quanto invece l'avversaria sarebbe riuscita a sopravvivere?
Non poteva permettersi di restare nell'incertezza. Aveva scelto di invitarla a un agòn perché fosse lei la sola di Tou Gheneiou a continuare a soffrire, perché il suo popolo potesse salvarsi, perché aveva visto gli orrori della morte e non voleva che il suo clan li sperimentasse ancora. Non lo avrebbe più permesso, per nessuna ragione. Le sorti della battaglia non erano ancora certe, e lei doveva eliminare ogni dubbio sul futuro.
Genew radunò tutte le sue ultime forze e impugnò la spada con più sicurezza, facendola scontrare contro quella della Geisha con tanta potenza che l'avversaria fu costretta a indietreggiare, sorpresa come non era mai stata. E continuò a colpire l'arma nemica. Ormai era lei che governava il combattimento - la Geisha non riusciva a reagire - e riuscì a spostare la battaglia all'estremità del gigantesco ramo su cui si trovavano. Proprio dove voleva.
"Padre" si ritrovò a pensare Genew, per l'ultima volta. "Se non sono mai stata una figlia degna di te, sii fiero di me, almeno ora".
Ormai sull'orlo del precipizio, artigliò la mano libera dell'avversaria e, stritolandola tra le sue dita, di modo che non scappasse più, si lasciò cadere nel vuoto.
~
Alycia impattò, definitivamente, contro una superficie dura. Un dolore lancinante irradiava tutto il suo corpo. Aveva finito di cadere, dopo vari scontri con diversi rami che le avevano procurato più danni che tutti quelli subiti nel corso del combattimento: l'avambraccio destro, già abbastanza ferito di suo, si piegava in una posizione innaturale e il fianco nello stesso lato pulsava per le fitte. Provò a prendere una boccata d'aria, ma si ritrovò subito a rigettare sangue. Sforzandosi ad aprire gli occhi, capì che anche la vista era stata danneggiata: solo l'occhio sinistro era ancora capace di distinguere qualche particolare, sotto una densa patina rossa.
Ma, non volendo rassegnarsi alla sua fine, senza aver osservato prima ciò che desiderava, continuò a guardarsi intorno: la notte era ormai finita. Per quanto fossero cadute in basso, vedeva ancora, a tratti, il cielo, illuminato di quell'azzurro soffuso che annuncia l'arrivo del re del giorno. Davanti a lei, sullo stesso ramo, la sua nemica, sdraiata in una posa contorta e ricoperta di quel liquido viscoso che da sempre voleva vedere addosso a quelli della sua stirpe.
Sulla sua bocca si formò un sorriso insanguinato e subito iniziò a scaturire dalla sua ugola una risata di soddisfazione, alternata a ulteriori rigetti di sangue. Aveva vinto: la nipote della sua nemica giaceva davanti a lei. Morta. Aveva ottenuto giustizia e, pur in fin di vita, non poteva che goderne. Non era riuscita a sradicare la vita anche del padre, ma almeno per una parte ogni sua fatica era contata. Sarebbe morta serena, con quella piccola soddisfazione.
Contemplava il corpo dell'avversaria, dilaniato dalla caduta e dai suoi colpi: avrebbe potuto continuare per ore. Ma i suoi occhi si facevano sempre più pesanti. Alycia annuì tra sé. L'ora era giunta.
Cercò la posizione che le recasse meno dolore, almeno per non morire in agonia, e proprio in quegli istanti il rosso infuocato e piacevole delle prime ore del mattino si mostrò tra le fronde degli alberi.
"Che bello questo paesaggio. Natura, che meraviglioso saluto mi stai dando". E, mentre si rivolgeva a quel luogo così accogliente e piacevole, un mugugno scaturì dalla figura davanti a lei.
Alycia sbatté le palpebre. Non era possibile. L'aveva uccisa, il soffio vitale aveva abbandonato il suo corpo, era morta, proprio come di lì a poco sarebbe stata lei.
Ma quella, poco alla volta, riprendeva a muovere ogni suo arto e, lenta e affaticata, si metteva in ginocchio. Ammaccata, piena di ferite, ricoperta di sangue, la tunica a brandelli, Genew si alzò. La spada era salda nella sua mano. La stella del giorno albeggiava piena e sicura e illuminava da dietro la giovane che, come una dea tornata dalle tenebre, avanzava ora verso di lei, mortale.
Alycia sbiancò, ma si impose di non pensare a come quella incombesse ancora davanti a lei: non doveva distrarsi. Non era ancora finita, doveva combattere. Ma dov'era la sua spada? Nei vari scontri con gli alberi doveva averla perduta. L'agitazione si impossessò di lei. Iniziò a muoversi, a cercare di spostarsi per trovare l'arma.
"Dove sei, dove sei?" si interrogava, tremando, gli occhi sgomenti: non scorgeva da nessuna parte quella che era sempre stata la sua compagna. Un prurito ancora più intenso le attraversò le cavità aeree e la costrinse a piegarsi su se stessa: l'ennesimo rigetto di sangue andò a imbrattare il ramo sotto di lei.
Al bruciore provocato da tutte le emorragie che riportava, si aggiunse quello delle lacrime, che cercava comunque di tenere dentro. Anche quell'agòn era stata l'ennesima scelta errata: convinta dalle parole di Genew, aveva pensato di salvare almeno chi era rimasto dei suoi guerrieri. Certa di vincere, credeva che avrebbe mantenuto fede alla promessa di non vanificare le vite perdute dei caduti, realizzando almeno in parte il suo disegno. Invece stava mandando il suo intero popolo a morire: non appena avesse finito con lei, Genew sarebbe tornata di sopra a dare l'ordine di imprigionare tutti quanti e di ammazzarli. Ed era stata solo colpa sua.
Genew, stante, la spada luccicante, arrivò davanti a lei, in ginocchio, inerme, sconfitta. Il sole continuava a fiammeggiare dietro di lei, ma ora riusciva a discernere il suo volto adombrato: aveva perduto un occhio, al cui posto si trovava una chiazza scura, ma l'azzurro dell'altro brillava come l'astro alle sue spalle. Alycia abbassò la testa davanti a quello sguardo.
«Hai combattuto con onore» mormorò, non potendo tacere il suo pensiero a un'avversaria di tale valore. «Sei stata brava. Sei brava. Sei molto più brava di me. Sia come guerriera, che come capo. Fino a poco fa pensavo che ti avrei uccisa, o almeno che saremmo morte insieme. Invece mi hai sorpreso. Non so se quello che hai appena fatto ti sia stato infuso da un dio disobbediente o se sia stato solo merito tuo. Però sei stata brava, non c'è dubbio».
Genew pose la lama della spada sulla spalla destra di Alycia, senza che le toccasse il collo. La Geisha chiuse gli occhi, in attesa del colpo finale e ormai rassegnata alla sua sconfitta. Ma quello non arrivava. Rialzò lo sguardo e fu colpita dalla profonda calma dell'occhio della nemica: mai uno sguardo era stato segnato da una così perfetta imperturbabilità.
«Avanti, cosa aspetti?» la esortò.
«Non ho intenzione di ucciderti» disse con semplicità l'altra. Seguì un colpo di tosse e anch'ella dovette sputare una buona quantità di sangue. Subito riacquisì la tranquillità di prima.
«Non scherzare» ridacchiò l'altra, con ironica amarezza. «Hai vinto, è ovvio che mi ucciderai e poi...» Tirò un profondo respiro, prima di annunciare la dolorosa fine a cui stava andando incontro il suo popolo, che faceva fatica anche solo a pronunciare. «E poi sterminerai il mio clan. Avanti, uccidimi, fa' presto: così potrai procedere con l'inevitabile distruzione di Tes Gheisas».
Genew dissentì con il capo. «Non ti ucciderò, Geisha, e non ucciderò il tuo popolo. Forse, prima del nostro incontro l'avrei fatto senza alcuna esitazione e, anzi, con tutta la crudeltà che potesse uscire dal mio animo per l'odio che provavo per te. Ma ho visto il tuo estremo valore, quanto sia alto l'onore che porti dentro di te, così, mentre stavamo combattendo, ho riflettuto sulle tue parole, proprio perché ti stimo degna del mio ascolto: se ti avessi creduta una qualunque non avrei perso tempo».
Si interruppe un istante, riprendendo fiato: continuava comunque a essere in affanno, ma non sembrava voler rinunciare a rivelarle ciò che aveva meditato.
«"Sangue chiama sangue". Così hai detto, prima che il nostro agòn avesse inizio. Avevi ragione. Secondo questa logica, io ora dovrei ucciderti, siccome tu mi hai sottratto amici e compagni, probabilmente molti più di quanti io stessa creda. Ma non lo farò. Un giorno una persona a te cara, o suo figlio, o, addirittura, il figlio di suo figlio potrà giungere da me e minacciare nuovamente il mio popolo, per vendicare la tua morte. Ho intenzione di interrompere questo filo di orrori, violenza e guerra, per far vivere al mio popolo la vita più tranquilla possibile, dedicandoci alla nostra vera, unica missione: trovare quel dannatissimo tesoro e fuggire da questa maledetta isola, piena solo di odio e paura».
Alycia non sapeva cosa ribattere a quelle parole: si sentiva sempre più inferiore, così corrotta e annebbiata dalla vendetta com'era stata. E lei come faceva a non esserlo?!
«Parli bene, figlia di Genew. Ma su una cosa ti devo contraddire: non sono degna di alcuna stima» biascicò, mentre percepiva un liquido caldo scenderle sulle guance. «Ho mandato a morire centinaia di miei guerrieri, di miei compagni, solo per soddisfare un mio desiderio, nemmeno comune ad alcuni tra noi, ma solo mio. Che razza di guida sono stata per loro? Non merito la tua clemenza, soprattutto per quello che sarò portata a fare. Tu sei riuscita a perdonarmi, o forse no, ma cerchi di farlo per questo tuo più alto obiettivo. Io mentirei soltanto, dicendo di non volere più alcuna vendetta: non so come tu faccia a non odiarmi, perché io non riesco a reprimere il mio rancore e sento il bisogno di sfogarlo su qualcuno. Potresti ospitarmi nel tuo villaggio, ma con il rischio di trovare morta la tua intera famiglia già il giorno successivo».
Qualunque cosa fosse successa, non era come Genew: la sua morale strisciava per terra invece che volare tra le alte nuvole del cielo. Anche allora, dopo aver sentito il discorso dell'avversaria, dopo che le era stato concesso il perdono, la vendetta continuava a essere il suo più grande desiderio. Oh, perché non era capace di annullarla?
«Ti prego, non farlo!» gridò, lasciando sgorgare lacrime abbondanti. «Uccidimi e basta. Lasciami riposare negli inferi, qualsiasi essi siano. E non temere che qualcuno voglia vendicarmi: di tutti i superstiti, è impossibile che uno di loro non abbia subito almeno una perdita, più o meno grave, a causa della mia scelleratezza. Se però sei davvero così magnanima come dici, risparmia loro, tutti loro. Ascolta dunque, Genew, la mia ultima volontà: uccidi me, se con clemenza o con furia starà a te deciderlo, e risparmia il mio popolo. Lascia libero ognuno di decidere se vorrà entrare nel tuo clan o vorrà assoggettarsi a qualcun altro, accogli gli orfani che ho prodotto e fa' sì che si sentano accolti, amati, per poi tornare un giorno a essere felici. Fa' in modo che non diventino come me» concluse, fissando il suo occhio supplicante in quello di lei. «Questo ti chiedo, anche se può sembrare tanto». E riabbassò lo sguardo, aspettando, paziente, che Genew menasse, un'ultima volta, la spada.
L'altra la guardò attentamente e le si strinse il cuore: erano così simili, essendo state le loro menti per lungo tempo offuscate da futili pensieri, così tanto che solo in punto di morte avevano compreso ciò che davvero era importante. Non avrebbe voluto ucciderla: grazie a lei aveva imparato tanto ma sapeva di dover affrontare ancora molte altre lezioni, e viceversa.
Quella che si trovava ora ai suoi piedi sarebbe diventata una dei migliori capi che Tes Gheisas avesse conosciuto. Sarebbe stato ingiusto privare il suo clan di un capo così fiero, capace di chiedere di morire perché ha la consapevolezza dei propri limiti, e allo stesso tempo in grado di rivolgere l'ultimo pensiero al proprio popolo.
Ma disobbedire al suo volere avrebbe significato che, dopotutto, non la stimava quanto diceva, tanto che poteva prendere lei la decisione di privarla o meno della vita, senza considerare la sua volontà.
Con profondo rammarico e dispiacere, alzò appena il bronzo, sfiorandole il collo candido: scese un rivolo scarlatto, fino a imbrattare l'orlo della bianca veste.
«Farò come mi ordini, anaxa».
~
E così la vittoria di Genew portò la guerra al suo termine. Ma le vicende per la nostra giovane anaxa non sono certo finite, anzi, sono appena iniziate: la sua crescita è appena iniziata. Ma di questo avremo modo di occuparcene in seguito. Passiamo piuttosto a esaminare un pochino il capitolo della battaglia finale: vi aspettavate qualcosa di epico, uno scontro alla "Ettore e Achille" o alla "Turno ed Enea"? Ebbene, vi ho delusi: lo scontro è volutamente appena accennato, per di più nella sua fase conclusiva, quando di epico e guerresco non c'è più nulla ma sono rimaste solo le intenzioni delle guerriere coinvolte, per rendere il più possibile evidente il flusso di pensieri di Genew (anche degli altri due personaggi di cui vediamo il punto di vista, ma soprattutto il suo). Avremo modo di trattare altre battaglie, ma qui era meglio esaminare il secondo passo del cambiamento di Genew :3
Prima di lasciarvi, ecco però due piccole precisazioni, perché poi su questo capitolo non ho molto altro da aggiungere (i simboli, in particolare la contrapposizione ombre-luce che corrisponde alle situazioni guerra-pace, che ho sparso qua e là mi sembrano tutti abbastanza chiari): quando Alycia la vede rilazarsi e venirle incontro, ricordate che è la sua soggettività che gliela fa percepire come un essere divino. I daimona non hanno combinato davvero nulla, Genew ne è uscita con le sue sole forze, per quanto anche lei malconcia quasi quanto la Geisha. L'altra è invece sull'ultima affermazione di Genew, che chiama anaxa la sua nemica: be', come la Geisha idealizza Genew, anche Genew idealizza la Geisha, vedendola come un ottimo capo e nutrendo una profonda stima per lei, più perché è rimasta sorpresa da lei che per le sue mere azioni; per questo decide di assecondare il suo volere, lasciandola libera di scegliere, e infine, per dimostrarle il rispetto che prova, si appella a lei con il titolo di anaxa (ben diverso rispetto al nome con cui l'ha sempre chiamata, Geisha, che aveva finito per assumere un connotato negativo se pronunciato da lei).
Sperando che questo capitolo vi abbia soddisfatto tanto quanto ha soddisfatto noi, vi mandiamo un caro saluto!
~ 🐼🐢
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