26
«Ti capita mai di vivere giornate in cui notte e giorno non si distinguono? Quando l'oscurità della notte, la sua brezza fredda, il suo imperituro silenzio, rotto talvolta dai mormorii di qualche animale si impossessano del dì, tanto che il sole sembra scomparire e la vitalità inibirsi?
Ti capita mai di percepire te stessa sola e in compagnia allo stesso tempo? Quando intorno a te non ci sono persone ma soltanto volti sconosciuti, falsamente uguali, che ridono e scherzano in un'atmosfera di sorrisi spenti e monotoni? O quando la gente che ti circonda è così silenziosa da essere più in simbiosi con il paesaggio circostante che con le persone?
Ti capita mai di vivere giornate in cui morte e vita sono inscindibili? Quando il giorno diventa una notte perpetua, il cui manto di stanchezza toglie l'energia agli esseri umani? In questa notte nulla succede, perché non è una semplice notte, che sai che prima o poi finirà. Eppure sei viva: respiri, il tuo cuore batte, il tuo cervello mette in funzione il resto del corpo. Eppure sei morta.
Ti piace questo aforisma, Bellatrix?»
Nessuna risposta. Si percepiva soltanto il solito lamento incostante ma perenne, che rallegrava quella cupa atmosfera oscura. Non che fosse piacevole, ma almeno, se riusciva ancora a emettere un suono, significava che era ancora in vita. Per quanto potesse definirsi vita quella che stavano trascorrendo.
«Hai ragione, è davvero orribile» disse Mijime, spazzando via con una mano le lettere che aveva scritto sulla terra polverosa. Sotto alle sue dita capitò qualcosa dalla consistenza diversa rispetto a quella del terreno. Il giovane guardò meglio e notò con molto piacere che aveva bloccato un insetto di grandi dimensioni: corrispondeva circa al suo palmo. Lo prese tra indice e pollice e lo portò vicino all'occhio, per vedere di che cosa si trattasse, ma fece troppa pressione su di esso, rendendo impossibile il riconoscimento della sua specie. Pazienza, ne avrebbe fatto a meno.
Si alzò da terra e si diresse, sempre con l'insetto in mano, verso i cinque grandi vasi che si trovavano al centro dell'ambiente.
"Nella sfortuna siamo anche stati fortunati". La stessa notte che Bellatrix era stata mutilata, una pioggia torrenziale si era abbattuta su quell'angolo di giungla. I bambini avevano dimenticato aperta la botola e Mijime aveva colto l'occasione per riempire tutti i contenitori che ci fossero con dell'acqua. Ed era stato un bene approfittare di quel momento: già il giorno seguente i bambini avevano richiuso il passaggio. Erano passati quattro giorni: pur non vedendo una vera e propria differenza tra giorno e notte, percepiva lo scorrere del tempo ascoltando le conversazioni dei bambini di sopra, di cui aveva ormai imparato a memoria la monotona routine.
Si svegliavano la mattina presto e si radunavano sopra la loro prigione: lì rendevano grazie ai daimona e in particolare a Keizah e maledicevano ogni adulto sull'isola e nell'Exo. In seguito alcuni andavano ad attaccare briga con altri clan, mentre i restanti rimanevano all'accampamento. Tornavano al punto di incontro verso l'ora di pranzo e mangiavano insieme, dopodiché chi non era uscito dall'accampamento la mattina, andava a svolgere le proprie mansioni nella giungla, mentre gli altri si coricavano nel cosiddetto "riposino", e altri ancora lavoravano all'interno del campo. Dopo essersi nuovamente radunati per la cena, alcuni di loro stavano svegli tutta sera a giocare con i Nobili, che non lavoravano mai. I momenti più tranquilli erano sicuramente il mattino e il pomeriggio ma il luogo che li sovrastava non era mai completamente vuoto: provare a tentare una fuga in quelle giornate tipiche e con Bellatrix sulle spalle sarebbe stato davvero impossibile.
Si avvicinò a uno dei vasi e prese un recipiente vuoto, che immerse dentro al più grande contenitore d'acqua, ma di pochissimo. Si era imposto di razionare ogni cosa: non sapeva quanto a lungo sarebbero rimasti lì dentro - e soprattutto se se ne sarebbero andati - e non poteva permettere degli sprechi. Aveva rinunciato anche a una buona parte della sua razione per poterla cedere a Bellatrix, che ne aveva più bisogno.
Non era neanche un sacrificio così considerevole: era capace di accontentarsi di un bicchiere d'acqua al giorno e di sopportare il digiuno anche per oltre una settimana, in casi estremi. Dopo ciò che gli era successo da piccolo, aveva sviluppato una capacità di resistenza fuori dal normale.
Non avrebbe mai pensato che sarebbe tornato in una simile situazione; ed era proprio per questo che doveva tenere la mente sempre occupata, che fosse frugando negli averi dei bambini oppure ascoltandoli mentre trascorrevano la loro giornata oppure ancora scrivendo sul terreno sabbioso quello che gli passava per la testa: non poteva pensare al passato.
Dopo essersi portato il recipiente alle labbra e aver bevuto giusto poche gocce, lo riempì di nuovo, questa volta colmandolo, e si mosse verso un altro lato dell'angusto ambiente: per terra aveva precedentemente posizionato un'altra piccola ciotola dentro cui v'era una sorta di poltiglia scura. Fece pressione tra le due dita che tenevano l'insetto e lo schiacciò dentro al recipiente. Versò poi un po' dell'acqua che aveva attinto prima e iniziò a mescolare l'intruglio con un oggetto metallico che aveva trovato tra gli averi dei bambini. Pensare che quello sarebbe stato il loro pasto lo metteva di buon umore: almeno avevano qualcosa da mangiare.
Sebbene riuscisse a resistere a lungo senza cibo, preferiva di gran lunga non patire i morsi della fame; quell'insieme di acqua e insetti riusciva a tenere lontana quella sua vecchia nemica. In particolare, per come stava Bellatrix, era bene che almeno lei non rimanesse senza nulla di cui nutrirsi.
Continuò a mescolare finché non fu soddisfatto del miscuglio quasi omogeneo ottenuto: quella poltiglia era disgustosa, certo, ma era capace di placare sia la sete sia la fame e, soprattutto, permetteva di mangiare senza fatica a Bellatrix, che non era più nella condizioni adatte per ingoiare qualcosa di solido.
«Bellatrix, è pronta la cena» annunciò, appoggiando il recipiente e sedendosi di fianco alla giovane, distesa a terra con metà del busto superiore appoggiato alla parete polverosa, con i monconi adagiati su un cuscino ricavato dai vecchi e laceri vestiti dei bambini, che si era spostato un po' troppo sulla destra.
Mijime si premurò subito di sistemarlo: le caviglie, grazie alla lozione di Anita, erano guarite alla perfezione, ma erano comunque una parte sensibile ed era meglio che non subissero altri traumi. Si spostò quindi verso la spalla destra, sollevandola appena e scostando il vestito appiccicato alla pelle e all'altra ferita, quella che aveva portato alla maggior parte dei problemi e di cui si era accorto solo quando la lozione era ormai terminata. Il tessuto, incrostato di sangue e pus, si staccò a fatica, rivelando l'infezione già in corso da giorni. Quella, Mijime ne era certo, era la causa delle febbri altissime che affliggevano la sua compagna. Con un ritaglio di un altro abito, cercò di ripulirla, per poi rimettere tutto a posto, sospirando: sapeva che, quando l'avesse ricontrollata, sarebbe stata di nuovo intrisa di quel disgustoso pus giallognolo.
Mijime toccò la fronte della giovane, per accertarsi che la temperatura non fosse diventata ancora più alta; aspettò in quella posizione per vedere se si accorgesse della sua presenza ma, come ogni altro tentativo, fu vano. Si svegliava solo quando lo decideva lei, e, negli ultimi due giorni, questi segni di vita si erano fatti sempre più rari. Di solito stava quasi tutto il tempo in uno stato vegetativo, senza parlare o muoversi, ma emettendo solo un unico suono sordo e grave, quando era solo afflitta dal dolore, oppure ansimando frequentemente, nel caso la febbre le provocasse anche degli attacchi di panico; altre volte dormiva, ma il suo sonno non era mai tranquillo e parlava in continuazione. Poche volte aveva la lucidità mentale per rimanere sveglia e dire qualcosa, e Mijime doveva aspettare con pazienza quei momenti, per poterle amministrare acqua e cibo.
La guardò meglio: gli occhi erano semiaperti e arrossati, la pelle del viso smunta ed estremamente pallida, le guance e i polsi erano già più esili. E pensare che non era passata neanche una settimana. Avrebbe dovuto mangiare di più, Mijime lo sapeva, ma, memore del primo giorno, per evitare che rigettasse tutto, le dava porzioni piccolissime, sperando che potesse trattenere almeno quel poco.
«Oggi non parli con la nonna?» chiese Mijime, rivolgendosi alla convalescente, come faceva spesso, per quanto non potesse rispondergli. Si riferiva ai lunghi dialoghi provocati dal delirio della febbre, tutti rivolti a questa nonna. Dovevano essere dei ricordi di quando era piccola e, mentre li rievocava nella sua mente come in sogno, li esternava.
Era tutto ciò che avesse trovato Mijime di piacevole, in quell'immondo soggiorno. I dialoghi tra quella bambina sempre gioiosa ed euforica per ogni accadimento e l'anziana nonna, saggia e bonaria, gli rimanevano impressi e avevano un potere di distrazione ammirevole.
«Nonna, ti va di giocare?»
«Va bene, stellina, cosa hai voglia di fare?»
«Scacchi!»
«Ancora? Ma ci abbiamo giocato tutto ieri».
«Sì, ancora!»
«E va bene. Tu vuoi sempre i neri?»
«Ovvio!»
Quella era stata la prima delle conversazioni che aveva sentito: non era la più tenera, non doveva essere la più importante, ma gli era ugualmente rimasta dentro.
Bellatrix era rimasta in silenzio per un po', quasi la partita a scacchi fosse realmente avvenuta nella sua testa. A un certo punto, poi, aveva ripreso a parlare.
«Evviva! Ho vinto!»
«Come al solito. Sei così brava!»
«Nonna, ma non mi farai mica vincere?»
«Certo che no. Non voglio certo montarti la testa. Quando riesci a vincere con me, è perché hai usato le tue sole forze: nessuno ti ha agevolato».
«Ecco perché quando facciamo le gare di chi sbatte gli occhi prima perdo sempre!»
«Be', ognuno ha i suoi punti di forza».
«Ma pensi davvero che sia così brava?»
«Certo».
«Allora domani ne parlerò a tutti di quanto sia brava a giocare a scacchi e ai giochi di società!»
«Tesoro, non devi vantartene: anche se sei brava, non devi renderlo noto a tutti. Chi vorrà vedere il tuo potenziale lo percepirà da solo. Quello che puoi fare tu è condividerlo con gli altri, aiutare chi è meno fortunato di te, ma non per ottenere qualcosa indietro, nemmeno per la gloria o per la fama. Alla fine dei conti, tutto questo presunto guadagno è qualcosa di irrilevante».
«Non è vero. Se qualcuno mi noterà, un po' alla volta la notizia arriverà anche alla mamma e anche lei...»
«Oh, la mamma prima o poi ti considererà, anche senza che tu lo renda manifesto a tutti. Se non lo facesse, sarebbe più sciocca di quanto già non sia».
«Io non credo che lo farà... Ho troppa immaginazione».
«E ti pare poco? Quello che hai è un dono».
«La mamma non la pensa così...»
«Sempre a parlare della mamma... Quando vedrà che farai grandi cose con la tua immaginazione-».
«Ehi, non ho solo l'immaginazione! So anche giocare a scacchi!»
«Va bene, tesoro, allora, quando ammirerà le altissime vette che riuscirai a scalare con la tua immaginazione a dir poco stupenda e la tua intelligenza, non potrà che rincorrerti e chiederti perdono».
«Lo credi davvero, nonna?»
«Certo! Ma non succederà se te ne vanterai, no. Capito? Non andare a urlare ai quattro venti le tue doti. L'umiltà è qualcosa di essenziale».
«Questo la mamma non lo sa».
«Oh, la mamma non sa tante cose».
Era incredibile! Era come se Bellatrix, trovandosi in una situazione al limite delle facoltà umane, si consolasse ricordando momenti sicuramente piacevoli della sua infanzia, adombrati certo dalla presenza - o assenza - di questa madre ambigua, ma lo stesso gioiosi: quello era il tono che la caratterizzava mentre dava voce alla nonna e alla lei bambina. La sua mente, strenua e combattiva, proprio come voleva il suo nome, cercava di aggrapparsi alla felicità di un tempo, per provare a controbilanciare la tragicità del presente.
Ma quel giorno non stava accadendo. Anche la sua forza d'animo si era arresa.
Mijime appoggiò la testa contro la parete: non poteva essere vero. Gli sforzi di una vita per raggiungere un minimo miglioramento non potevano venire vanificati così, solo perché erano stupidamente incappati in una mandria di bambini selvaggi! Allora che senso aveva avuto non farla finita tanti anni prima? Sarebbe bastato non mangiare e non bere in quei lunghi sei mesi nello scantinato. Sarebbe stato pietoso, atroce, ma almeno si sarebbe risparmiato gli anni seguenti e il degrado che avrebbero portato con loro.
Devi imparare a tenere la bocca chiusa.
Erano passati diciassette anni, ma riusciva ancora a sentire le sue parole, mentre le pronunciava, l'inconfondibile sibilo delle S, le gocce di saliva che partivano sempre sulla sua faccia mentre gli parlava. Gli teneva sempre la testa vicina, puntandogli gli occhi addosso e allora lui aveva sempre chiuso i suoi: chissà per quale motivo, se li teneva serrati, le botte facevano meno male. Così sentiva soltanto la sua voce rauca e gli sputi che gli bagnavano il viso.
"Quando sarò grande," si ripeteva sempre da bambino, "non parlerò mai così. Imparerò qualsiasi altra lingua pur di non parlare la sua!"
Un uomo deve sapere quando è il momento di tacere. Altrimenti si rimane una fighetta che va sempre a fare la spia.
Erano passati diciassette anni, eppure percepiva ancora ogni singola sillaba, scandita proprio come faceva lui, e intanto rivedeva nella sua testa il suo volto; o meglio, vedeva gli occhi, scuri e piccoli, simili a quelli di un suino, ma soprattutto malvagi; e la bocca, con i denti ingialliti e storti, alcuni cariati e altri placcati d'oro, circondata da una barba mal rasata che dava l'idea di sporcizia.
"Quando sarò grande," si diceva sempre, "non la terrò mai sul mio volto".
La prossima volta ci penserai due volte prima di andare a spifferare in giro che non ti do da mangiare, stronzetto.
Erano passati diciassette anni, ma non aveva dimenticato le sue mani, grandi, pelose e con le unghie sporche, ma piene di gioielli vistosi e pacchiani, sulle quali, in bella vista, spiccava un rubino di grandi dimensioni, incastonato in un anello dorato.
"Quando sarò grande," si ammoniva, "le mie mani non saranno mai come le sue, ma sobrie e ben curate. Non gli assomiglierò in nessun modo, neanche lontanamente!"
Ricordava il suono che emettevano quando si infrangevano sulla sua testa e il rumore sordo di cui rimbombavano le sue orecchie per diversi minuti dopo aver incassato il colpo.
Ricordava come lo avessero tirato su da terra, mentre lui cercava di dimenarsi piangendo, come avessero continuato a stringergli il torace mentre scendeva le scale e raggiungeva la cantina, come avessero aperto la porta e come ce lo avessero gettato dentro, diventato meno persino di un oggetto.
E poi erano passati sei mesi; sei mesi in cui era rimasto accucciato in un angolo buio, aspettando che almeno una volta al giorno arrivasse qualcuno con un bicchiere d'acqua. Capitava poi che trascorresse più tempo da una volta in cui aveva la possibilità di bere a un'altra. Allora, quando la porta si apriva, gioiva nel vedere quella luce accecante che significava la salvezza: certo, oltre all'acqua gli venivano somministrate anche numerose botte, ma almeno si dissetava.
Per il cibo era molto peggio: il più delle volte passava una settimana. Ma non c'erano tanti insetti come in quell'umido ambiente in cui era ora. Magari ne avesse avuti! Avrebbe festeggiato per un evento tanto gioioso! Ma silenziosamente, perché se lui lo avesse sentito avrebbe aumentato la distanza tra i giorni in cui gli portava di che nutrirsi.
Buio. Non c'è altro che buio. Lui, solo. E il buio. Dietro questo, qualsiasi cosa. Il silenzio lo assorda: non c'è mai così tanto silenzio. Se c'è, sta per accadere qualcosa. Ma questo qualcosa non arriva mai. Passa il tempo, scorre via e lui è solo, al buio e in silenzio. Perché? Aveva parlato con la maestra. Cosa aveva detto di male?
«Perché rubi la merenda agli altri bambini?»
«Ho fame».
«Portati la tua, di merenda!»
«Non posso. E ho fame».
«Come non puoi? Chiedi alla mamma di dartela».
«Ma nessuno me la dà. Devo tenere le merendine per quando torno a casa, sennò non ne ho abbastanza».
«Come sarebbe? Le merendine? Cosa mangi a casa?»
Quante domande! Però nel libro di scuola quel giorno aveva letto che era giusto dire sempre la verità, quindi le aveva detto tutto: a casa può mangiare quando gli altri hanno finito e può prendere solo i pacchetti di merendine che gli comprano.
«E la frutta? E la verdura? E la carne? E il pesce?» aveva continuato quella.
«La frutta e la verdura ogni tanto, quando avanza. La carne quasi mai. Il pesce non l'ho mai sentito».
E adesso è al buio, solo. Ha freddo, ha solo una maglietta addosso ed è sottile. Ha fame; in realtà ha sempre fame, perché le merendine non riempiono tanto e sono sempre poche, ma adesso ne ha molta di più, centinaia di volte di più. Sente i soliti rumori provenire dal ventre, ma molto più forti, così tanto da fargli male. Ha sete. La gola è secca, arida come il deserto; sente che si sta sgretolando, piano piano. Non ha più lacrime da leccare per dissetarsi: non ne escono più. E poi c'è il buio. Buio pesto. Non vede nemmeno le sue stesse mani. Cosa c'è là dietro? Chi si nasconde? I mostri delle favole? No, non avrebbe paura se fossero solo quelli. C'è lui. Spunterà da un momento all'altro, se lo sente, e riprenderà a picchiarlo. Arriva, adesso arriva, prima o poi arriva, lo sente. Ma non arriva mai. E con lui restano solo il buio, la fame, la sete, il freddo. E il buio. E la fame. E la sete. E il freddo... Ha così tanta paura...
Basta!
Doveva smetterla! Quei pensieri angoscianti lo avrebbero portato alla follia, se non era già caduto dentro quel baratro! Si era fatto una promessa anni prima: avrebbe dimenticato tutto ciò che gli era successo, dal principio delle sue disgrazie alla fine. Gli unici suoi ricordi dovevano essere il periodo della sua rimonta dal punto di vista sociale ed economico. Tutto il resto doveva essere solo spazzato via, cancellato completamente. Doveva sparire. Tanto era passato: cosa mai poteva importare?!
«Mijime». Una voce flebile lo ridestò subito. Si accorse che non era più seduto con la schiena contro la parete ma il suo corpo si era involontariamente spostato, racchiudendosi in posizione fetale, sdraiato sul lato sinistro. La stessa che aveva mantenuto per il lungo periodo nello scantinato.
Riprese in fretta il controllo del suo corpo e si girò verso la voce che aveva appena udito. Bellatrix aveva alzato appena la testa e aperto quasi del tutto gli occhi. Il suo volto era totalmente inespressivo, una maschera di solo dolore che impediva alle emozioni di mostrarsi.
«Ah, ecco. Ti sei svegliata» commentò Mijime, tanto per dire qualcosa. Si avvicinò alla compagna porgendole il recipiente con dentro la poltiglia di insetti. Non aveva intenzione di imboccarla: non voleva fare in modo che si sentisse ancor più inferma di quanto già non fosse. Mantenere un minimo di indipendenza le avrebbe giovato a livello mentale. I giorni precedenti era riuscita a mangiare da sola e, era convinto, ce l'avrebbe fatta ancora.
Ma il corpo di lei sembrava intendere tutto il contrario. Le braccia stese lungo il corpo non accennavano alcun movimento. I suoi occhi lo guardavano fissi, spostandosi solo talvolta a osservare la brodaglia che le veniva offerta. L'espressione persisteva nella sua apatia e su di essa si poteva notare solo un minimo di disgusto mentre scrutava gli insetti pestati.
«Dai, qualcosa devi pur mangiare» la esortò Mijime con pazienza e provando ad addolcire la voce; sorrise appena, sperando che lei lo vedesse: magari le avrebbe infuso un po' di ottimismo. Se avesse pensato positivo, se avesse continuato a sperare, magari avrebbe avuto la forza sufficiente a combattere contro la sua infermità. Ma, effettivamente, cosa poteva sperare?
Alla fine Bellatrix afferrò la ciotola, tenendola in mano precariamente, per le mani tremolanti. La appoggiò in grembo e tornò a guardare Mijime; questa volta non era più del tutto inespressiva, ma gli occhi avevano un barlume dettato dalla malinconia.
«Ti posso chiedere... una cosa?» cercò di dire, parlando lentamente e tenendo un tono della voce abbastanza basso: era evidente che faticava anche solo ad articolare le parole. «Tu come stai?»
Mijime rimase spiazzato da quella domanda. Si sarebbe aspettato di tutto, tranne quel reale interesse verso di lui da parte della giovane: Bellatrix non avrebbe sprecato le sue poche energie per chiedergli una cosa di cui non le importava. Ma cosa significava? Perché proprio adesso si preoccupava per la sua salute?
«Io?» mormorò Mijime, ancora incredulo. «Non importa. Non sforzare la voce...»
«Invece mi interessa» sottolineò Bellatrix seria, cercando di rafforzare la voce. Sgranò persino gli occhi, per assumere quella sua tipica espressione di chi non ammette più repliche.
«Be', dirti che sto bene sarebbe una bugia clamorosa, ma sono anche stato peggio» rispose Mijime, non celandole la verità: in quelle condizioni avrebbe ugualmente percepito la menzogna e non l'avrebbe certo fatta stare meglio.
Dopo la sua risposta, rimasero in silenzio: la testa di Bellatrix si era piegata di nuovo verso il basso, pensando a chissà che o, forse, solo per la stanchezza. A un tratto la rialzò e riprese a parlare, la voce tornata piatta: «Di' la verità. Starmi dietro tutto il tempo è un incubo, sentirmi è un incubo, vedermi è un incubo. Questo posto è un incubo, ma io lo peggioro. Non dire che non è così».
Mijime era sempre più sorpreso dalla piega che stava prendendo quella conversazione: da quando le erano stati amputati i piedi non aveva mai parlato così tanto da cosciente.
«Non ti preoccupare; ti ho detto che sono stato peggio» minimizzò lui. «Davvero, stai tranquilla. E adesso mangia» la esortò ancora, prendendole le mani e facendo in modo che afferrassero il recipiente. Lei non oppose resistenza ma, appena ebbe la ciotola di nuovo tra le mani, lasciò ancora la presa, ponendo lo sguardo su Mijime. Questa volta era davvero vigile e sembrava tornata nel pieno delle sue facoltà cognitive: lo sforzo che stava facendo doveva essere enorme.
«Tu, a differenza mia, hai ancora una possibilità» disse, per poi spostare gli occhi dal suo interlocutore alla botola in alto.
«Non pensarlo neanche» sbottò Mijime, scuotendo la testa: con tutto quello che aveva fatto per lei in quei giorni, non avrebbe vanificato il suo lavoro. Avrebbe potuto prendere quella decisione già da subito, però aveva desistito: se lei fosse morta, lui avrebbe avuto molte più possibilità di perdere la vita a sua volta. Chi poteva sapere della situazione che c'era a Tou Gheneiou? In fondo, però, non era quella l'unica motivazione. «Non ti lascerò qui da sola».
«Infatti non mi lascerai da sola» continuò lei, piegando ancora una volta la testa, raccogliendo ogni energia per puntare gli occhi sul giovane che aveva di fronte. Grandi, lucenti, profondi. Supplicanti.
«Uccidimi».
Mijime si sentì gelare il sangue a quella richiesta: era certamente il delirio della febbre. Non sapeva quello che stava dicendo.
«Stai scherzando?!» esclamò, allibito.
Ma Bellatrix non stava scherzando; il suo volto non era mai stato così serio nell'affermare qualcosa. «Hai un coltello. Fallo. Io è come se fossi già morta» sospirò profondamente, quasi per espirare tutto il dolore che affliggeva il suo corpo; la voce non era più ferma e sicura, ma era tornata a tremare, in preda alla sofferenza. «Non ne posso più. Sono un vegetale per la maggior parte del tempo, e le poche volte in cui riprendo coscienza mi accorgo di quello che sono diventata. Non riesco a resistere. È estenuante. E il dolore che si è impossessato del mio corpo non passa, ma diventa sempre più grande. Non ci riesco proprio. Sono debole? Forse. Mi sono sempre sopravvalutata. Invece è chiaro che non valgo niente. Uccidimi. Non mi hai mai sopportata e io non ho mai sopportato te, ma, se hai un minimo di umanità, liberami da questa sofferenza. Ti prego. E poi scappa e vivi la tua vita. Cerca di trovare il tesoro e scappa pure da questa dannata isola. Io sono solo un peso per te, lo sono sempre stata. Uccidimi e vattene da questo inferno».
Mijime guardava verso il basso, non osando più incrociare gli occhi della compagna. Il suo corpo si era irrigidito e i respiri si erano fatti più lunghi. Fremeva di rabbia, sentimento che sapeva che di lì a poco avrebbe esternato impetuoso ma che per ora si limitava a fermentare nel suo animo.
Più di una volta, a partire dall'esperienza in quell'orribile scantinato, aveva pensato di togliersi la vita. La sofferenza che aveva provato sulla sua pelle era sempre stata insopportabile, la frustrazione per essere inutile e odiato da tutti lo tormentava ogni giorno. Arrivava puntualmente ogni sera, mentre si accingeva ad addormentarsi, e gli ricordava che non sarebbe mai stato amato da nessuno, che sarebbe per sempre stato infelice. Che senso aveva, allora, continuare una vita simile, aggravata da continue violenze?
Sarebbe stato semplice abbandonare il mondo: smettendo di mangiare, quando era stato nello scantinato, usando la pistola che gli avevano dato quando era cresciuto, lasciandosi cadere dall'ultimo piano della villa, bevendo i detersivi che si trovavano nel bagno, legandosi una cintura al collo. Le opzioni erano innumerevoli ma lui non aveva mai scelto nessuna di queste. Aveva sempre scelto la vita, che, si era promesso, si sarebbe tenuto stretto fino alla fine.
Lui aveva un unico obiettivo: trovare la felicità che da sempre aveva solo potuto immaginare. Ma per ottenerla aveva bisogno della vita: da morto, cosa avrebbe potuto fare per riuscire nel suo intento?
«Ti rendi conto di quello che hai appena detto? Sai qual è l'unica cosa che ti è rimasta? È la vita, che, tra l'altro, è ciò che noi abbiamo di più importante. Senza di lei tutto il resto sarebbe assolutamente inutile. E tu vuoi buttarla così, nel nulla, vanificare tutto quello che sei stata finora, arrenderti per sempre? Dopo questa decisione non avrai una seconda occasione. Non ti fidi del mio parere perché non mi sopporti? Bene, pensa allora a quello che potrebbe dire tua nonna, quella con cui giocavi a scacchi, che ti diceva di condividere la tua intelligenza invece che vantartene e basta, quella donna sicuramente saggia. Pensa se ti vedesse in questa condizione, cosa potrebbe dire, cosa potrebbe pensare. Sua nipote che vuole morire perché pensa che non ci sia più niente da fare e che lei non valga niente. Non è vero che non c'è più niente da fare! È una frase che ha senso affermare soltanto da morti. Finché sei in vita puoi ancora sperare che qualcosa cambi, o grazie alla fortuna, quasi mai, o grazie a te stessa. Certo, non è detto che cambi, ma almeno, quando giungerà davvero la tua ora, potrai dire di averci provato, di aver resistito, di essere stata forte. E non è vero che tu non vali niente! Le cose che ti dissi quando partimmo da Tou Gheneiou, anche se probabilmente non ci hai creduto allora, erano vere, non ti ho mentito. Penso ancora che tu sia intelligente, che tu sia forte, che tu abbia abilità non comuni. Non sei comune, Bellatrix, e se adesso lo credi è soltanto perché quest'isola ti sta confondendo. Ma credimi: non lo sei!»
Lasciò cadere la schiena contro la parete, iniziando a respirare sonoramente ma di nuovo a un ritmo naturale. Era stato corretto dirle tutto questo? Oppure l'immagine distorta che si era fatta di lui - e nemmeno così lontana dalla realtà - avrebbe prevalso anche in quello stato di miseria fisica ed emotiva, portandola alla conclusione che le parole che aveva sentito non fossero che altre menzogne?
«Non ti ucciderò» aggiunse, poi, a tono decisamente abbassato, senza più il trasporto di prima. «E non ti lascerò nemmeno il mio coltello, nel caso volessi farlo da sola. Non permetterò che tu venga privata dell'ultima cosa che ti resta».
Calò il silenzio dopo quell'ultima risposta. Mijime ripensò alle parole così concitate e veementi che aveva riversato sulla compagna come una tempesta improvvisa. Non avrebbe mai pensato che sarebbe riuscito a produrre un discorso come quello, se non mentendo. E invece aveva esposto il suo vero essere, scoprendo di conseguenza le sue debolezze. Non aveva nemmeno ragionato prima di parlare: le frasi, una dopo l'altra, gli erano uscite dalla bocca di getto, senza mai fermarsi. Eppure era convinto di aver agito nel modo più giusto.
«Mijime». Sentì di nuovo che Bellatrix lo stava chiamando, la voce appena alterata. Si voltò un poco verso di lei e notò che sul suo viso stavano scorrendo lacrime silenziose: non doveva essere abituata a piangere e, pur nella sua situazione, non riusciva a manifestare completamente il suo dolore, dandosi sempre un minimo di contegno. «Scusami. Scusami. Scusami, Mijime».
«Bellatrix, sta' tranquilla» disse Mijime, interrompendo le mille scuse della giovane e prendendo le mani di lei tra le sue; erano fredde e bagnate ma non importava: voleva che sentisse la vicinanza del suo corpo, così da cercare di infonderle un po' di quiete. «Te lo dico con sincerità,» continuò a sussurrarle con voce pacata, «non posso prometterti che ti trarrò in salvo, ma ci proverò, a costo di trasportarti in spalla fino alla bocca del Vulcano. Una piccola idea in realtà ce l'ho, ma non è importante che tu lo sappia. Tutto quello che devi fare è cercare di mantenerti nella miglior forma possibile, va bene?»
Bellatrix gli sorrise, piegando le labbra in un'espressione stanca ma rasserenata. Staccò le sue mani da quelle di lui e, molto lentamente, riprese la ciotola con dentro la poltiglia di insetti. Con un'aria disgustata se la portò alla bocca, prendendone quasi metà, con estrema soddisfazione di Mijime: era raro che mangiasse tanto. Appoggiò poi la testa al cuscino di cenci e mormorò flebilmente un grazie, per chiudere infine gli occhi e abbandonarsi a un sonno tranquillo.
Mijime continuò a osservarla, sorridendo a sua volta: avrebbe cercato di salvarla, in ogni modo. Non scherzava quando diceva di avere un piano: da quando erano arrivati non aveva mai smesso di analizzare meticolosamente il luogo e aveva ormai imparato tutto ciò che succedeva fuori dal sotterraneo. Sapeva bene che a ogni ora del giorno c'era sempre qualcuno che stava facendo qualcosa e non avrebbero mai trovato un momento per scappare. Se fosse stato da solo, avrebbe anche potuto tentare, ma, dovendo trasportare Bellatrix in spalla, aveva bisogno che non ci fosse alcun moccioso nelle vicinanze.
Capitava alla perfezione una battaglia che si sarebbe dovuta svolgere di lì a quattro giorni contro un certo clan chiamato Ton Thanatoforon, in cui avrebbe preso parte più della metà dell'intero Ton Paidon. Allora avrebbe aspettato il momento del "riposino", che avrebbe tenuto occupati i bambini rimasti al clan almeno per un'ora e mezza, e sarebbe uscito arrampicandosi sui vasi e sugli altri contenitori ammassati là sotto.
Dovevano aspettare solo quattro giorni e poi ancora qualcuno, il tempo necessario per giungere al Vulcano. Non avrebbe dormito né mangiato: si sarebbe dedicato soltanto a muoversi il più velocemente possibile verso la loro meta in una corsa sfrenata contro il tempo. Era la loro unica possibilità di salvarsi.
Guardò ancora Bellatrix, la testa piegata naturalmente su un lato e gli occhi serenamente chiusi. Il respiro era regolare e profondo. Il giovane accrebbe il suo sorriso: era da tempo che non la vedeva stare così bene. Le pose una mano dietro la testa per raddrizzarla sul cuscino e con l'altra le scostò i riccioli corvini dagli occhi addormentati.
All'improvviso si spalancò la botola di sopra. Una risata agghiacciante, a cui si aggiunsero man mano tante altre dello stesso tipo e dal timbro analogamente acuto, lo ridestò dal suo torpore.
«Ah! Gliel'abbiamo fatta! Hai visto come si è spaventato, l'adulto!» esclamò Fossa dall'alto, ghignando dietro il muso ligneo di felino.
«Voglio tagliare!» si sentì da dietro Joao.
«Joao, che palle che sei! Non ancora, altrimenti poi ci prendiamo sotto noi» lo zittì Defe, per poi togliersi la maschera di aquila e mostrare al giovane nel sotterraneo il suo sorriso maligno. «Ed è proprio per questo che siamo qui ora. Sapete, cari adulti, le maghe ci hanno dato il via libera. Quando la luna avrà finito di percorrere la seconda metà del suo ciclo calante, potremo finalmente riprendere a fare sacrifici!»
Un grido di approvazione si levò dalla moltitudine dei bambini. Sul volto di Mijime si dipinse un'espressione di orrore: se prima di essere imprigionato aveva osservato bene il cielo notturno, la loro fine sarebbe giunta soltanto...
«Quindi significa che vi faremo a fettine dopodomani! Spassatevela con le vostre sconcerie da adulti, finché potete» concluse Fossa per poi lanciare un sasso con una fionda contro Mijime, che scansò prontamente. Il bambino ne scagliò un altro, questa volta diretto a Bellatrix, che, ancora addormentata, non poté evitare. Si risvegliò quasi subito, tornando ad ansimare in preda all'ansia nello stato vegetativo che poco prima sembrava aver soppresso. Fossa, euforico per il risultato ottenuto, si buttò a terra, non contenendo più le risate.
Defe, dall'altra parte, iniziò a ridere molto più forte, imitato subito da tutti gli altri e, rivolgendo un ultimo ghigno malefico a Mijime, diede un calcio alla porta della botola, che si richiuse con un rumore sordo. L'ambiente fu di nuovo immerso nel buio. Le risate dei bambini si smorzarono subito, grazie al legno che le separava dal sotterraneo, vivacizzato ormai soltanto dal suono di morte emesso da Bellatrix.
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Capitolo inutile per quanto riguarda la trama ma... essenziale per le backstory dei nostri miserabili amici! Non ho lanciato dei sassolini solo di uno dei due ma di entrambi! La loro situazione, per il resto, non cambia, anzi, è davvero al limite della sopportazione e dopo questo finale lo è ancora di più: il giorno successivo a questo, oltre ad avvenire la battaglia di Tou Gheneiou, i bambini riprenderanno i loro sacrifici e i nostri Bellatrix e Mijime saranno i primi a sperimentarli... E adesso? Mijime aveva abbozzato un piano, ma ormai non è più attuabile. Come riusciranno a uscirne? Noi vi lasciamo con questa domanda, e ritorniamo a Tou Gheneiou. Una piccola curiosità: quale delle due storie parallele vi preme maggiormente conoscere, tra quella di Bellatrix e Mijime e quella a Tou Gheneiou?
Detto questo, ci rivediamo al prossimo capitolo 😃
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