19
Terminata l'assemblea, tutti si rimisero all'opera con le loro mansioni. Chi quel giorno aveva il dovere di ispezionare tornò insieme al resto del gruppo in esplorazione, chi doveva svolgere compiti all'interno del campo riprese la propria attività. Sembrava essere tornato tutto alla normalità, anche se così non era. Il turbamento provocato dalle vicende di quel pomeriggio aveva sconvolto Ton Paidon.
Lenny stava portando dalla foresta al campo la legna che aveva tagliato. Di solito era veloce a svolgere i propri compiti, per poter giocare la sera con i suoi compagni: quando non era di esplorazione, spesso terminava tutto in mattinata, così dopo pranzo aveva il tempo per divertirsi e riposare. Ma quel giorno era lento, camminava strascicando i piedi, talvolta inciampava nelle radici degli alberi, a causa della disattenzione. Doveva ancora trasportare sedici fascine ed era già pomeriggio inoltrato. L'incontro con quei due sudici adulti lo aveva destabilizzato. Erano riaffiorati così tanti ricordi...
«Ehi, Lenny». Una voce familiare lo riscosse dal suo rimuginare. «Va tutto bene?»
Erika era dietro di lui, un cesto pieno di frutta raccolta nella foresta in equilibrio sul suo capo. Non era euforica come al solito e, anzi, tutta la sua inestinguibile energia pareva essersi spenta. I loro occhi si incrociarono ed entrambi arrossirono, distogliendo subito gli sguardi.
«Non esattamente...» mormorò il ragazzino, voltandosi per proseguire per la sua strada, mentre la bambina gli si affiancava timidamente.
«Ti capisco. È stato brutto ricordare».
«Anche tu hai...»
«Già».
«Non sembrava».
«Molti di voi no, ma io non ho perso la capacità di dire delle buone bugie».
Tacque e Lenny non insistette ulteriormente: sapeva quanto anche lei stesse soffrendo.
Ripresero a camminare, in silenzio, fianco a fianco, ma non troppo vicini, oppressi da un timore che non comprendevano. Fugaci, talvolta si lanciavano vicendevolmente degli sguardi, per controllare che l'altro fosse ancora lì, procedesse con il proprio carico, non si fosse fermato a piangere ancora.
«Non so fino a che punto hanno ricordato gli altri, ma io ho ricordato anche troppo...» sospirò ancora Erika, rompendo la quiete burrascosa che persisteva tra loro.
«Anche io».
Lenny sentì la mano di Erika sfiorargli il braccio e si fermò, girandosi: l'amica si era tolta la maschera da battaglia e i suoi occhi si erano velati di una patina lucida. Buttò a terra i frutti che stava trasportando e si avvicinò di più a Lenny, che gettò la fascina di legno, per stringerlo a sé in un forte abbraccio. Il piccolo, dopo pochi istanti di titubanza, avvolse a sua volta la schiena dell'amica e si abbandonò a lei, in quella stretta consolatoria e di appoggio l'uno per l'altro.
Erano della stessa altezza e, quando Erika si lasciò sprofondare tra le braccia di Lenny, il bambino percepì le lacrime calde e silenziose di lei inumidirgli l'orecchio sinistro e i capelli da quel lato della testa. Presto anche dai suoi occhi ripresero a sgorgare grandi gocce, che gli bagnarono tutte le guance e la maschera a contatto con la sua pelle.
Da quanto tempo aveva dimenticato tutto: cento, duecento anni? Era passato così tanto tempo... E dire che era stato uno degli ultimi: alcuni si erano lasciati alle spalle il loro passato addirittura tre secoli prima di lui, appena erano giunti sull'isola, mentre la mente della maggior parte si era completamente svuotata dopo cento anni dal loro arrivo. Solo lui aveva cercato di non cedere, destando le antipatie dei Nobili, che non lo avevano mai sopportato, punendolo sempre con lavori pesanti e lasciandogli meno tempo per giocare. Ma il sentimento che aveva provato era stato troppo forte da dimenticare. O almeno così aveva pensato: alla fine, era riuscito a portare a termine anche lui quell'azione che un tempo gli era parsa impossibile.
~
Correva l'anno 1529 o 1530. Lui era un bel giovane di ventitré anni, ricco e con un prospero futuro davanti, dicevano. La sua era un'importante e facoltosa famiglia di mercanti veneziani: suo padre deteneva il monopolio del commercio all'interno del Mediterraneo, anche in una situazione così particolare come il clima di tensione presente da anni tra Oriente e Occidente. Era conosciuto e rinomato in tutti i territori d'Italia, le cui corti erano ansiose di poter comprare da lui le raffinatissime sete del Catai o le preziose spezie della Persia, e commerciava persino in alcuni luoghi del Nord Europa. Lui e suo fratello maggiore avrebbero ereditato l'azienda ed erano destinati a farla crescere ancora e ancora.
Da un anno si era sposato con una donna poco più giovane di lui, appartenente a una nota famiglia di banchieri: oltre la bellezza, la caratterizzava anche un'acuta intelligenza, con cui aveva dato a lui e a suo padre preziosi consigli per amministrare meglio il patrimonio. Erano uomini con una mente abbastanza aperta da ritenere un'idea valida anche se formulata da una donna, e, dopo aver compreso che erano davvero brillanti e averle messe in pratica, avevano subito notato la loro fruttuosità.
Sembravano terminati i conflitti tra spagnoli e francesi sul suolo italiano e per i mercanti era il momento di approfittarne. Dopo un lungo periodo in cui erano riusciti a commerciare solo con il resto dell'Europa, era finalmente tornata la richiesta da parte delle corti italiane: i ricchi signori avevano ricominciato a vivere su un territorio tranquillo e non più scombussolato dai continui combattimenti tra i due schieramenti nemici che si contendevano la penisola. A loro non importava chi fosse a governarli, piuttosto stava loro a cuore vivere in un clima sereno dove potessero sfoggiare agli occhi degli altri aristocratici le proprie ricchezze, commissionando opere ed edifici, arricchendo i propri palazzi o dando feste sfarzose nel lusso più totale. Tutte cose impossibili in tempo di guerra, anche se non si era effettivamente coinvolti.
D'altra parte le guerre nel Medio Oriente si facevano sempre più aspre. Da quando era caduta Costantinopoli sotto mano degli Ottomani, era difficile per i cristiani commerciare con l'Asia. Ciononostante, suo padre aveva avuto la fortuna di essere in buoni rapporti con un mercante turco, più preoccupato dei suoi averi che dei precetti religiosi dell'Islam. La sua famiglia era dunque riuscita per lungo tempo a continuare a commerciare con l'Oriente, anche in un periodo in cui pareva impossibile.
Quell'anno la sua intermediazione sarebbe stata fondamentale e avevano già previsto un cospicuo guadagno, per lo meno il doppio rispetto a quello delle annate precedenti. Tuttavia, a lungo andare la negligenza del loro socio in affari verso i precetti imposti dagli imperatori Ottomani si era rivelata dannosa: venutosi a sapere che era in rapporti con gli infedeli, era stato incarcerato e condannato a morte.
Un pesante sconforto li aveva avvolti. Un altro modo per raggiungere le lontane terre dell'Asia non c'era e iniziare a commerciare prodotti locali su scala europea non avrebbe portato loro alcun profitto: i mercanti che vendevano quella merce erano numerosi e chi aveva fatto fortuna era riuscito a ottenerla mantenendo prezzi bassi per un'ottima qualità; qualcosa che si poteva fare solo con anni di esperienza e di conoscenze in quel ramo del commercio, che la sua famiglia certamente non aveva.
Fu allora sua moglie a proporre una brillante soluzione: se non si poteva più commerciare con l'Oriente, che ci si volgesse dall'altra parte. Il Nuovo Mondo. Non erano passati neanche cinquant'anni da quando la gente era venuta a scoprire l'esistenza di una nuova terra: si diceva che fosse ricca e prospera e che donasse prodotti mai visti prima. Era abitata da uomini che non conoscevano la civiltà e la religione, vivevano senza una legge, come dei veri selvaggi, quasi fossero delle bestie, si diceva.
Per questo diversi luoghi erano già stati conquistati dalla corona spagnola e convertiti a campi da coltivare: gli indigeni, che venivano impiegati come schiavi in queste piantagioni, però, non erano adatti a tali lavori e, per qualche ignota ragione, erano anche deboli di costituzione e si ammalavano di continuo. Ma i governatori avevano bisogno di manodopera gratuita e seguitavano a sfruttare i selvaggi che stavano pian piano estinguendosi totalmente. Nel giro di anni non ce ne sarebbero più stati e le piantagioni sarebbero rimaste incolte: avevano bisogno di altri schiavi.
Lungo le coste dell'Africa i commercianti locali vedevano la loro più grande risorsa nei prigionieri delle loro guerre tribali, che vendevano a prezzi stracciati; al contrario, i governatori del Nuovo Mondo avrebbero sborsato varie ricchezze per avere una manodopera forte e robusta, come i possenti giovani africani. Oltre all'oro dei governatori, avrebbero potuto inoltre ottenere, limitando le spese anche in questo campo, le varie materie prodotte solo in quella nuova terra, che avrebbero infine venduto in tutta Europa, sempre richiedendo importanti somme di denaro.
Tra tutte le idee di sua moglie, questa era certamente la più promettente ma dovevano sbrigarsi a metterla in atto: ai mercanti spagnoli e inglesi era già sovvenuto qualche progetto simile e non avevano denigrato l'occasione che stava dietro a quella miniera d'oro. Se non si fossero affrettati anche loro, la concorrenza avrebbe monopolizzato quell'inesauribile risorsa.
Fecero un'associazione con altri tre grandi commercianti italiani e insieme finanziarono la loro spedizione, alla volta del Nuovo Mondo, investendo quasi tutti i loro risparmi. L'anno successivo partirono tutti insieme: lui, sua moglie, suo fratello, la compagna di lui e il loro bambino. Solo il padre, ormai anziano, aveva deciso di rimanere in continente, attendendo con pazienza il loro ritorno. Insieme a loro, oltre all'equipaggio, partirono anche gli altri tre mercanti, un piccolo manipolo di dieci uomini, nel caso nel Nuovo Mondo avessero trovato dei selvaggi che avrebbero messo a rischio la loro incolumità, e diversi membri della servitù.
Era primavera e il mare era buono: non avrebbero dovuto avere problemi secondo i calcoli di alcuni astronomi che avevano contattato. Ma mentre navigavano alla volta del primo scalo, le isole Canarie, le acque dell'Oceano sommersero la loro nave e distrussero, insieme agli scafi dell'imbarcazione, ogni loro speranza di successo. Per grazia divina riuscirono a salvarsi tutti dalla tempesta, capitando su un'isola che pareva deserta, che nessuno capiva che terra fosse. Era forse il Nuovo Mondo? No, impossibile: non ci avrebbero impiegato così poco tempo e, prima di giungere là, sarebbero morti in mare.
Eppure, dovunque si voltassero, erano certi che quella su cui erano approdati era la nuova terra decantata dagli avventurieri di ogni nazionalità: il terreno era fertile e prospero e crescevano frutti senza il diretto intervento dell'uomo. I paesaggi che vedevano erano completamente nuovi ai loro occhi: alberi giganti, foreste rigogliose, fiori di mille colori, uccelli dalle piume sgargianti, animali che sembravano usciti da un bestiario. E quali altre meraviglie si nascondevano in quell'isola portentosa?
Per poter essere associata alla nuova terra dell'Occidente, mancavano soltanto gli indigeni senza civilità e religione. Solo questo particolare, e la velocità con cui erano giunti sull'isola, li faceva desistere dall'affermare di essere approdati sul Nuovo Mondo. Ma perché doveva essercene per forza uno solo di questi altri mondi rimasti nascosti agli uomini per millenni? Poteva essere l'ennesima terra inesplorata, un'altra ancora.
Che scoperta sensazionale! Neanche da paragonare al commercio che si erano prefissati: avrebbero comunicato dell'esistenza di questo mondo all'imperatore Carlo V in persona, che l'avrebbe aggiunta al suo vasto regno su cui non tramontava mai il sole, e, in facoltà di esploratori che l'avevano trovata, si sarebbero fatti investire come signori dell'isola. Ormai fremevano per poter tornare in Europa e comunicare al più presto la loro scoperta.
Gli uomini iniziarono subito a costruire una nuova imbarcazione, seppur rudimentale, che li avrebbe trasportati nel primo luogo vicino. Ma uno straordinario avvenimento sconvolse profondamente i loro piani. Piccoli esseri magici comparvero a loro per comunicare che dall'isola non avrebbero potuto andarsene, ma che al suo interno c'era un tesoro dal valore inestimabile a cui ognuno di loro ambiva.
Fu da quell'incontro che il giovane diventò Lenny, sua moglie Erika, suo fratello Danio, la sua compagna Anya e il loro bambino Joao; il nome che li aveva contrassegnati da sempre era andato dissolto.
Due degli altri tre commercianti, rinominati Fossa e Defe, dopo la notizia di cui erano venuti a conoscenza, presero ad atteggiarsi da tiranni verso tutti gli altri: erano stati loro a mettere i soldi per il piccolo manipolo ed era a loro che questo ubbidiva, perciò dovevano essere loro, e loro soltanto, a detenere il comando. Per sottolineare la loro superiorità, assunsero l'appellativo di Nobili.
Agli altri, dei loro modi dispotici non importava: ciò che premeva loro era tornare in Europa, dove quei due sarebbero stati di nuovo gli uomini insignificanti di un tempo. Perciò la decisione fondamentale era stata condivisa da tutti: trovare il tesoro, sicuramente un oggetto che li avrebbe aiutati a scappare dall'isola, e ritornare nel Vecchio Mondo per esporre le loro scoperte.
Trascorse un anno. I membri della comitiva, che aveva ricevuto il nome di Ton Paidon, erano avviliti e ormai prossimi a perdere la speranza. Lenny non riusciva a pensare ad altro che all'anziano padre, rimasto completamente solo, in attesa delle notizie dei suoi figli: era ormai prossimo alla morte e, negli ultimi attimi della sua vita, non avrebbe potuto avere accanto i suoi cari. Probabilmente li credeva già deceduti: le notizie tardavano ad arrivare ma non giungevano mai così lentamente. O, peggio ancora, sebbene tutti ormai sostenessero che la sua famiglia era morta, lui continuava a persistere nell'idea che fossero ancora vivi, che prima o poi sarebbero tornati. Ma quel momento non sarebbe mai arrivato: giorno dopo giorno Lenny nutriva sempre più la consapevolezza che non avrebbero mai trovato quel tesoro.
Solo una splendida novità riuscì a fargli tornare il sorriso: Erika era incinta. Cercava di convincersi che, dopotutto, avrebbe potuto costruire una famiglia felice anche su quell'isola: il suo avvenire non era come avrebbe immaginato, ma, se fossero stati felici, se lo sarebbe fatto bastare.
Erika condivideva gli stessi pensieri e cercava di fargli forza, di incoraggiarlo che tutto sarebbe andato per il meglio. Con questi pensieri si coricarono una notte, ancora felici, ignari di ciò che stava per accadere loro.
La mattina seguente, Lenny si svegliò, ma al suo fianco non v'era sua moglie, ma una bambina di otto anni. Urlarono insieme, scoprendo l'accaduto, e ascoltando il timbro della sua voce fu assalito da un terrore ancora più grande: non solo Erika, ma anche lui era stato colpito da una maledizione. Non era più il giovane che credeva di essere. Era un bambino.
Uscì di corsa dalla loro capanna, in lacrime e sentendo il bisogno di essere consolato da una figura più grande di lui: era da anni che non provava una simile sensazione. Ma, ancora, non era il solo: dozzine di bambini spauriti e disperati si stavano riversando al centro dell'accampamento. Ma cos'era successo?
Tra la folla riconobbe la chioma arricciata che non poteva essere che del Nobile Defe e il bambino paffutello di fianco a lui doveva essere il Nobile Fossa. Erano gli unici che non sembravano turbati, anzi, sorridevano anche - non avrebbero persistito ancora a lungo: «Temevate la morte? Temevate l'Inferno? Ora non serve più. Siamo immortali, siamo immortali! La divina Keizah ci ha dato questo privilegio, ma siccome questi dei non potrebbero aiutare noi mortali, per mascherare la sua opera buona, ci ha resi bambini. In cambio dovremo solo esserle sempre fedeli e...»
Ma Lenny aveva smesso di ascoltare: piangeva, il viso rivolto verso l'alto perché tutti sentissero il suo grido di dolore, che copriva ogni suono intorno a lui. "I Nobili sono cattivi!" riusciva soltanto a pensare. Non voleva essere un bambino, non gli importava di essere immortale. Nessuno gli aveva chiesto il suo parere e i Nobili avevano fatto quello che pareva a loro. Erano cattivi, cattivi, cattivi. No, erano più che cattivi, ma... non sapeva più con che parola definirli. Perché? Perché non gli venivano le parole? Che sensazione frustrante! Un acuto ben più stridente di prima uscì dalla sua bocca.
Erika era di fianco a lui e gli afferrò la mano, ma Lenny la ritrasse subito, senza motivo. Non la voleva, non voleva che lo toccasse, non voleva nemmeno che gli stesse vicino. Ma cosa pensava? Era sua moglie, era ovvio che si comportasse in quel modo. Sua moglie? Ma potevano essere ancora considerati marito e moglie, ora che erano bambini: il matrimonio è una questione degli adulti. Troppi problemi, troppi problemi! Scappò nella sua capanna e si chiuse dentro, senza badare a nessuno, limitandosi a continuare a piangere.
Passarono i giorni e le sue condizioni non cambiavano. Presto scoprì che nessuno gioiva della loro immortalità, nemmeno i Nobili, che, terrorizzati dalle fiamme dell'Inferno, avevano acconsentito alla proposta di Keizah senza neanche riflettere: come lui, tutti possedevano ancora i ricordi passati, alcuni segnati da momenti felici, altri da eventi amari, ma, qualsiasi essi fossero, non riuscivano più a comprenderli. Perché solo fino al giorno prima avevano avuto comportamenti così strani? Così... non sapevano più come definirli. Non riuscivano più ad articolare bene i propri pensieri. Eppure, fino alla sera prima erano stati normali. Non erano tornati bambini solo nel corpo.
Presto capirono che, se non volevano ritirarsi per sempre in quei pensieri strazianti, avrebbero dovuto dimenticare, scordarsi di tutto ciò che era accaduto loro prima di allora. Costruirono delle maschere di legno, così non si sarebbero riconosciuti a vicenda e avrebbero smesso di pensare al passato ogni volta che incrociavano gli occhi di qualcuno di conosciuto. Smisero di parlare del Vecchio Mondo e di ciò che avevano lasciato laggiù, pur continuando a dedicarsi alla ricerca del tesoro. Non per un motivo preciso, ma per dimenticare meglio, distraendo la mente. E ripresero a giocare: perché non giocavano più da così tanto tempo? Un forte impulso di divertirsi e muoversi si era impossessato di loro: non poteva che essere quella l'unica strada per essere felici. Ma quella felicità a cui ambivano non era raggiungibile finché avessero avuto davanti agli occhi il passato.
Quella sull'isola, quella di eterni bambini sarebbe stata la loro vita, l'unica che conoscessero: il resto era da dimenticare.
~
Erika staccò la faccia dalla spalla di Lenny e lo guardò intensamente con i suoi occhioni azzurri, da cui ancora scendevano lacrime silenziose. Gli tolse la maschera, rivelando il viso di lui, completamente bagnato.
La guardò a sua volta, dietro all'umido velo che si era formato sotto le palpebre. Guardò le sue guance, che erano solite pigmentarsi di rosso ogni volta che si incontravano, appena conosciuti; guardò i suoi occhi, spiraglio da cui aveva sempre scorto il barlume della sua intelligenza; guardò i suoi capelli, ora incrostati di fango, in cui aveva adorato immergere la faccia, respirando il loro profumo inebriante; guardò le sue labbra, che aveva amato e baciato con passione e tenerezza.
Ricordava il sentimento che aveva provato nei suoi confronti, già dai primi istanti, quando l'aveva conosciuta; lo aveva chiamato amore, ricordava. Ma cos'era esattamente? Perché adesso tutto ciò che sentiva per lei era solo un enorme affetto? Perché si vergognava a starle vicino, a tenerla per mano, a farle una carezza, perché il più delle volte la respingeva? Pensare a tutto quello che avevano fatto insieme lo imbarazzava come null'altro, e quella condizione che arrivava inconsciamente lo faceva stare ancora peggio: aveva vissuto momenti bellissimi e felici, perché ora doveva denigrarli in questo modo?
La guardò ancora: avrebbero potuto essere così felici. Stava aspettando il loro bambino, quando erano ritornati piccoli: come inevitabile conseguenza, l'essere che stava pian piano crescendo nel suo ventre era scomparso. Ma forse era stato meglio così: se fosse nato, cosa gli sarebbe successo? Forse lo avrebbe toccato un destino sventurato come quello di suo nipote Joao, di cui, essendo già un bambino, soltanto la mente aveva subito il regresso che aveva colpito tutti loro: nelle sue azioni, nelle sue parole, in tutto ciò che faceva, era diventato ancor meno di un bambino.
E, come a tutti gli altri suoi compagni, non gli era concesso nulla, nessun presagio di miglioramento, nessuna speranza; nemmeno la morte sarebbe sopraggiunta ad affrancarlo da quel misero destino.
Sempre con gli occhi intrisi di lacrime, guardò ancora una volta Erika: non sapeva perché stesse piangendo, ma sentiva che doveva svuotarsi da tutta la tristezza accumulatasi in tanti anni. Si sentiva in colpa per essersi dimenticato del suo amore per quella che era stata sua moglie, per vergognarsi nel ricordare ciò che erano stati. E si sentiva così arrabbiato: contro i Nobili, che gli avevano sottratto la felicità; contro gli adulti, che potevano godere della stessa piena letizia che aveva provato anche lui, pensare in modo articolato ed esprimersi facendosi capire; contro se stesso, che non riusciva a reagire come avrebbe voluto in quella circostanza, ma continuava soltanto a piangere, mentre le memorie gli scivolavano addosso, inondandolo di tristezza e nostalgia: la festa dove l'aveva vista per la prima volta, i pomeriggi passati insieme nella casa di suo padre, ben sorvegliati dalla servitù, a leggere poesie d'amore, il giorno delle nozze, la loro prima notte insieme...
Tutto, piano piano, stava riemergendo, e i ricordi, come un torrente in piena che straripa dagli argini e inonda con violenza tutto il territorio circostante, andavano ad annebbiare il resto della sua mente.
«Adesso basta, Lenny» disse infine Erika, asciugando prima le sue lacrime e poi passando la mano sulle guance del bambino. «Non dobbiamo farci vedere così dagli altri».
«Lo so. Hai ragione» mormorò Lenny, abbassando la testa per non mostrare gli occhi ancora lucidi alla compagna.
Erika si sistemò di nuovo il cesto con i frutti sulla testa e porse la fascina a Lenny, che l'afferrò e se la rimise in spalla.
«Spero solo...» iniziò il bambino, tirando su dal naso: il pianto era terminato ma ne avvertiva ancora i postumi. «Spero solo che quei due, che mi hanno fatto ricordare tutto, crepino presto: così potrò tornare a dimenticare. Non sarò felice, ma è sempre meglio che essere così. Oh, perché non posso spiegarmi bene?»
«No, ho capito» lo consolò Erika, accarezzandogli con affetto il braccio. «Penso che farò lo stesso anche io. Per ora non preoccuparti: quelli là moriranno prestissimo e tutto tornerà come prima. Dobbiamo solo aspettare che Arturo torni con le cose che hanno da dire le maghe: è passato talmente tanto tempo che la situazione sarà cambiata. E, adesso, su, portiamo questa roba al campo».
~
Eccoci tornate, popolo!
Questo capitolo è un po'... anomalo. Ci siamo concentrate su personaggi non secondari, ma potremmo dire addirittura quaternari XD. Eppure lo abbiamo fatto ugualmente:
1) per mostrare l'ennesimo intervento di un daimon quando non potrebbe (iniziate un po' a entrare nella loro ottica, in cui trovano sempre una giustificazione per fare quello che vogliono?)
2) perché la sorte toccata a Ton Paidon è forse una delle più tristi e ci sarebbe dispiaciuto non darle un minimo spazio all'interno della narrazione.
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, anche se un po' diverso dagli altri, e di aver reso bene i sentimenti e le emozioni provate da questi poveri bambini: non è stato facile immedesimarsi nella loro situazione e ancora adesso abbiamo i nostri dubbi sul fatto che sia venuto decentemente.
In ogni caso, vi aspectiamo per il capitolo 20 che sarà invece "tradizionale" 😉😉. Vediamo cosa stanno combinando Bellatrix e Mijime...
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