9. Identità svelata




Giugno 1820, luogo sconosciuto


Appena ripresi coscienza, storsi il naso al forte odore di alcol, polvere da sparo bagnata e muffa.

Riuscivo a riconoscere ognuna di quelle esalazioni per colpa delle cattive compagnie di mio padre e le pessime condizioni in cui si trovava la casa in cui ero cresciuta.

Il pungente dolore alla testa e la nausea dovevano essere una conseguenza di quel lezzo insopportabile.

Cercai di non lasciarmi prendere dal panico, anche se sentivo il cuore battermi forte in petto e le dita tremarmi incontrollate, e aprii gli occhi.

L'ambiente che mi circondava era sporco e in penombra.

Ogni cosa che il mio sguardo confuso incontrava sembrava essere in legno: il pavimento, il rivestimento delle pareti, una stretta scala malridotta, delle botti, delle casse, il giaciglio su cui mi trovavo...

La luce fioca proveniva da una lanterna ad olio appesa al soffitto, che dondolava creando ombre sinistre sulle pareti scure.

Rimasi riversa su quel misero giaciglio a osservare i movimenti della lampada per qualche secondo, poi un pensiero orribile attraversò la mia mente, facendomi sollevare a sedere.

Mi trovavo su una nave.

Solo in quel momento il fischio che sentivo nelle orecchie si attenuò, permettendomi di udire chiaramente il rumore di voci e passi sopra la mia testa, oltre al familiare sciabordio di acqua.

Mi trovavo nel sottocoperta, che sembrava adibito a magazzino.

Non era il mio primo viaggio in nave, ricordavo chiaramente la traversata verso la Spagna che avevo intrapreso con mio padre un paio di anni prima per raggiungere la Tía Magdalena sul letto di morte. Il duca, mio padre, aveva sperato di addolcire il freddo cuore di Tía Magdalena e ottenere da lei parte della sua eredità.

Le manipolazioni di mio padre, che si era prodigato in inopportuni gesti d'affetto e più volte aveva usato la mia ingenuità e la mia acerba bellezza da bambina per affascinare l'anziana signora, non erano servite a nulla e Tía Magdalena era morta senza lasciare il becco di un quattrino a me e mio padre.

Ricordavo il viaggio di andata e di ritorno con nostalgia, la nave su cui avevo alloggiato durante la traversata era abbastanza elegante da ospitare altre tre famiglie aristocratiche oltre alla nostra e la cabina in cui alloggiavamo era pulita ed accogliente; niente a che vedere con lo spazio umido e buio in cui mi trovavo in quel momento. Ai tempi mio padre aveva sofferto molto il mal di mare, diversamente dalla sottoscritta, la quale si era goduta il viaggio in serena tranquillità.

Ignorai il mal di testa e mi sollevai in piedi, appoggiando la mano alla pila di botti più vicine per non perdere l'equilibrio.

Mi tastai il busto, sentendo chiaramente la presenza del corpetto, camiciola e sottoveste al loro posto, provai un'ondata di sollievo all'idea di non esser stata violentata mentre mi trovavo priva di sensi e decisi che era arrivato il momento di cercare i miei rapitori e chiedere spiegazioni.

Mentre mi dirigevo verso la stretta scala che portava al ponte della nave, mi chiesi chi avesse potuto compiere un atto tanto vile.

Potevano forse essere stati gli strozzini di mio padre ad aver architettato un piano simile per spingerlo a pagare celermente i suoi debiti?

Poteva esser stato un bandito, capitato casualmente in quei giardini, a rapirmi per poi vendermi al mercato degli schiavi?

Possibile che il mio ruolo su quella nave potesse essere quello di sguattera, acquistata per pochi scudi?

Malgrado l'orrore che mi attanagliava le viscere, trovai abbastanza forza da salire quegli instabili gradini in legno e aprire la porta che dava sul ponte della nave.

Venni accolta da una notte stellata, che si rifletteva sulla superficie scura di un mare placido.

La nave era molto più grossa di quanto avessi immaginato e le vele bianche sopra di me parevano strane nuvole imbrigliate da corde indistruttibili.

Portai la mano sul ciondolo a forma di croce che avevo al petto, mentre i miei occhi si sbarravano alla vista della bandiera nera, su cui era ben visibile, grazie alla pienezza della luna in cielo, un teschio bianco con due tibie a formare una X.

Provai il forte istinto di urlare a quella vista, terrorizzata da ciò che quella bandiera rappresentava.

Iniziai a respirare affannosamente, il petto che mi si alzava e abbassava troppo velocemente, mentre rimanevo congelata ad osservare quella bandiera.

Mi trovavo su una nave di pirati.

Come era potuto accadere?

Ricordavo di esser stata colpita alla nuca, ricordavo delle voci, ma perché dei pirati avrebbero dovuto rapire la figlia di un duca in ristrettezze economiche?

«Si è svegliata, come si sente?»

Sussultai nel sentire quella voce alle mie spalle.

Voltandomi incontrai gli occhi scuri di un ragazzo dai lunghi capelli neri, che mi studiava con pacato interesse.

«Voi chi siete?», chiesi con voce stridula, stringendo maggiormente la presa delle dita intorno alla croce che portavo al petto, nella speranza che Dio potesse aiutarmi in un momento di sconforto e smarrimento simile: «Dove mi trovo? Cosa volete da me?»

Il ragazzo, che indossava delle semplici braghe scure, mostrando la magrezza del proprio torso, sollevò le mani e iniziò una cantilena in una lingua che non conoscevo.

Quel suo comportamento così inusuale mi terrorizzò ancora di più e cominciai a temere che le sue intenzioni fossero quelle di farmi il malocchio.

«Potete chiamarmi Torchio, signorina, sono il medico e sciamano di questo veliero. Per rispondere alle vostre restanti domande, penso che dobbiate parlare col capitano».

Sempre più smarrita, seguii quel ragazzo, rassicurata dal fatto che non avesse tentato in nessun modo di toccarmi, verso una porta poco distante da quella da cui ero emersa poco prima.

Percorremmo un breve corridoio, poi Torchio bussò ad una porta, che dedussi essere quella che portava alla cabina del capitano.

Sentii dei rumori alle mie spalle e, voltandomi, notai la presenza di alcuni uomini malamente vestiti ed armati, che mi osservavano da alcune cuccette.

Torchio aprì la porta ed entrò, facendomi gesto col capo di seguirlo.

Ignorai i brividi di terrore e il sudore freddo che mi imperlava la fronte e i vestiti, incedendo con passo incerto nella cabina in cui regnava il disordine più totale.

Bauli aperti da cui fuoriuscivano vestiti dai colori variopinti, oggetti per me sconosciuti che occupavano le pareti e gli angoli, un letto sfatto, una scrivania, sulla quale c'erano mappe e fogli sparsi, illuminati da una lampada ad olio, e una poltrona antica, sulla quale si poteva discernere la silhouette di un corpo in penombra.

«Capitano, l'ostaggio ha delle domande per voi», disse il mio educato e pacato accompagnatore, prima di chiudere la porta della cabina alle nostre spalle.

Un brivido di orrore e raccapriccio mi attraversò la spina dorsale, gelandomi sul posto, quando la figura si spostò e la luce della lampada ad olio ne mostrò i lineamenti virili e i capelli mossi.

«Non può essere!», esclamai con un filo di voce, incredula.

«Caterina, finalmente vi siete svegliata», disse la voce vellutata del barone Damiano David, mostrandomi uno dei suoi sorrisi feroci e seducenti: «Benvenuta sulla mia nave».








***

Buongiorno popolo di Wattpad!

Eccoci alla fine del capitolo, cosa ve ne pare del finale? Ve lo aspettavate?

Finalmente si scopre la vera identità del barone e nei prossimi capitoli verrà svelato anche il motivo per cui ha rapito la nostra protagonista.

Spero abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate della storia fino a questo punto!

Se volete seguirmi anche su altri social, mi trovate su Instagram! Il nome dell'account è lazysoul_efp 🤗

Un bacio,

LazySoul_EFP

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