20. Fuga
Giugno 1820, Roma
Quando la porta del salotto si aprì, sussultai, portandomi una mano al cuore per lo spavento.
Il duca, mio padre, era sulla soglia e mi guardava con espressione seria e contrita.
«Siamo rovinati, Caterina, rovinati!», disse, gettandosi poco aggraziatamente su una delle poche poltrone che arredavano ancora il salotto, un tempo molto più curato e accogliente.
«Perché mai, padre?», sussurrai, turbata da quel tono di voce disperato.
«Il duca ha annullato le nozze, dice che non è innamorato e che cerca l'amore... Tutte sciocchezze! Ora cosa dovremmo fare? Non sarà facile trovarti un partito altrettanto ricco».
Inorridii a quelle parole, ma cercai di celare i miei sentimenti, abbassando lo sguardo sulle mie mani, che, appoggiate in grembo, sfregavo nervosamente tra di loro.
«Un altro partito?», chiesi con un filo di voce.
«Potrei provare a parlare col Baron Gandolfo, è certamente più vecchio di te, ma i suoi cavalli e terre gli fruttano molto bene... oppure...»
Smisi di ascoltare mio padre e chiusi gli occhi, cercando di regolarizzare il respiro accelerato e il battito del mio cuore.
Non per la prima volta, mi trovai a inveire contro il Destino, che mi aveva illusa di poter vivere una vita d'amore, per quanto non convenzionale e immorale, insieme al capitano David; per poi riportarmi al punto di partenza.
A cosa era servito?
A cosa era servito saggiare le labbra peccaminose di Damiano, se per il resto della vita avrei dovuto accontentarmi dei baci di un altro?
A cosa era servito sentire l'adrenalina scorrermi nelle vene, se tutto quello che mi aspettava in futuro era una monotona vita rinchiusa in una gabbia dorata?
A cosa era servito combattere contro le mie paure e timori, se non riuscivo a dire a mio padre ciò che pensavo davvero?
«Io non voglio sposarmi», sussurrai, sollevando il capo, in modo da poter osservare la reazione di mio padre.
Il duca non disse nulla e non reagì in nessun modo, segno che non doveva avermi sentito e continuò ad elencare le qualità dell'ennesimo partito, un certo signor Pomme.
Strinsi con forza le mani a pugno e ritentai: «Io non desidero sposarmi, padre».
Ebbi la certezza di esser stata udita, quando il duca si zittì e puntò i suoi occhi colmi di stupore e disappunto nei miei: «Come?»
«Io non desiderio sposarmi», ripetei, le spalle meno tese e la voce più calma e sicura.
Mio padre scoppiò a ridere, facendomi improvvisamente sentire piccola e insignificante; probabilmente mi sarei sentita meglio se mi avesse urlato contro, piuttosto che deridermi in modo così plateale.
«Non desideri sposarti? Come pensi di poter contribuire al mantenimento della casa, allora?»
«Lavorando», dissi, sollevando nuovamente lo sguardo, gli occhi fieramente puntati in quelli sbalorditi di mio padre: «Potrei dare lezioni di cucito e pianoforte, insegnare a leggere e scrivere, oppure fare la dama da compagnia».
Mio padre si sporse fulmineo verso di me e mi colpì in pieno viso con un manrovescio, lasciandomi momentaneamente senza fiato per lo shock.
«Sei una disgrazia, Caterina, uguale a tua madre: vivi in un mondo fatto di sogni e illusioni, convinta che tutto si sistemi con un sorriso. È arrivato il momento di entrare nel mondo reale e renderti conto, che pochi spiccioli, guadagnati dando lezioni, non sono abbastanza per pagare tutti i debiti».
«So che non sono abbastanza, ma potrebbero essere un inizio», dissi, trattenendo a stento le lacrime, che minacciavano di sfuggire al mio controllo.
Il duca scosse il capo e iniziò a camminare per la stanza, inquieto: «Continui a non capire, Caterina, ma come potresti farlo? Sei solo una donna e certe questioni sono troppo difficili per te».
Punta sul vivo da quelle parole, ignorai il dolore alla guancia per lo schiaffo e mi alzai in piedi: «Sono una donna, è vero, ma non ho mai avuto difficoltà a capire che ci troviamo assaliti da debitori a causa vostra, delle bevute e delle scommesse. Non certo a causa di mia madre, che più volte ha provato ad avvertirvi del pericolo che il gioco d'azzardo rappresentava!»
Quando il manrovescio mi colpì, vacillai appena, e mi aggrappai allo schienale del divano per non cadere.
«Tua madre era una puttana, Caterina; un'adultera e una pazza ed è solo colpa sua se ci troviamo sul lastrico. Avrei dovuto ammazzarla appena la trovai tra le braccia del giardiniere, invece sono stato magnanimo e le ho permesso di vivere e di farsi curare».
Inorridii di fronte a quelle parole, con le lacrime agli occhi che sgorgavano copiose.
«Ora, Caterina, sei hai finito di parlare di cose che non ti competono e che non conosci, penso che abbiamo due vie di fronte a noi: o ti sposi con il partito più facoltoso che riesco a trovare, oppure sarò costretto a farti raggiungere tua madre in manicomio. Vai in camera tua e rifletti su quale via preferisci».
Senza dire niente, con le lacrime agli occhi e la guancia gonfia per gli schiaffi, uscii dal salotto e salii le scale.
Mi chiusi la porta della mia camera alle spalle e iniziai a guardarmi intorno, colta da una frenesia che non riuscivo a spiegarmi.
Mi findai subito sul portagioie e raccolsi in un sacchetto di tela i pochi gioielli che papà non aveva ancora venduto o pignorato. Nascosi il sacchetto nel corpetto, poi iniziai a prendere tutto quello che mi capitava tra le mani e che avrebbe potuto essermi utile nella fuga che stavo organizzando, dettaglio dopo dettaglio.
Non avevo molte speranze di riuscire veramente a scappare di casa, ma volevo esser pronta, nel caso fosse sopraggiunto il momento giusto.
Non avevo bisogno di molto, tutto quello che dovevo fare era trovare un modo per raggiungere Napoli e la Marlena, la nave del Capitano David, nel minor tempo possibile.
Scacciai ogni pensiero negativo, certa che non mi avrebbero aiutata a rimanere lucida in un momento simile; non dovevo pensare che Damiano poteva trovarsi all'Isola di Montecristo come in Spagna in quel momento; non dovevo pensare che lui potesse essersene andato senza di me.
Recuperai le lettere che ci eravamo scambiati quelli che mi sembravano anni prima e non pochi, miseri, giorni e, dopo averle lette velocemente, le nascosi nel corpetto, asciugandomi con foga le lacrime sulle guance.
Avrei voluto avere degli abiti più comodi da indossare per la fuga, dei pantaloni, una camicia, un gilet... invece tutto quello che avevo erano sottovesti e corpetti asfissianti, vestiti troppo lunghi e raffinati e scarpe troppo scomode e delicate.
Sospirai e mi sedetti sul letto, guardando le condizioni in cui si trovava la camera intorno a me.
Tessuti variopinti si mescolavano a terra, cassetti ed ante aperti a mostrare la vacuità che non potevano più celare, scarpe spaiate che non avrebbero mai più ritrovato le loro compagne.
Mi raggomitolai a letto, dando le spalle alla porta, per osservare il cielo azzurro oltre le finestre della mia camera.
Ripensai a quella notte, quando Damiano era entrato in camera mia, trovandomi riversa a terra dopo uno svenimento; ricordai la preoccupazione nei suoi occhi cangianti e sorrisi appena.
No, Damiano non poteva avermi abbandonata, ne ero certa, spettava a me però ritrovarlo, non aveva senso aspettare che lui scoprisse dove mi trovassi; dovevo fuggire e raggiungere la Marlena al più presto, prima che Damiano smettesse di aspettare e sperare.
La porta si spalancò e mio padre entrò, rischiò di inciampare nel cumulo di vestiti a terra, ma recuperò all'ultimo l'equilibrio e non cadde.
Lo osservai, mentre si guardava intorno e annuiva con aria pensierosa: «Immagino che tu abbia scelto il manicomio, Caterina», disse, sedendosi sul bordo del letto: «Sono molto deluso».
Mi misi a sedere sul letto e mi portai le ginocchia al petto, circondandole con le braccia: «Anche io sono molto delusa da voi, padre».
Il duca scrollò le spalle, come se le mie parole non lo avessero minimamente scalfito e si alzò, per ammirare il proprio riflesso allo specchio.
«Sono ancora giovane e abbastanza avvenente da trovare al più presto una nuova moglie, disposta a pagare i miei debiti. Sei solo un peso per me, Caterina, spero che tu possa comprendere e non portare troppo rancore».
Con quelle parole mio padre uscì dalla camera barcollando appena, segno che doveva aver bevuto e chiuse la porta a chiave.
Presi in considerazione, per qualche istante, l'idea di fuggire dalla finestra, ma notai con rammarico che la pianta rampicante, che doveva aver facilitato la intrusioni notturne di Damiano, era stata sradicata e non copriva più parte della facciata della villa.
Iniziai a riflettere su una via di fuga alternativa, quando la chiave nella serratura girò e la porta della mia camera si aprì, mostrando il volto di Annarita, pallido e preoccupato.
«Presto, signorina, venga con me!», m'incitò, aprendo abbastanza la porta da farmici passare, poi mi prese per mano e mi condusse attraverso le scale utilizzate dalla servitù, che sbucavano direttamente in cucina.
Mi fece indossare con gesti febbrili un mantello con cappuccio, così da nascondermi il capo, poi afferrò il cestino che usava per fare compere al mercato e mi fece uscire in cortile.
Percorremmo con passo concitato il sentiero che costeggiava i giardini e uscimmo dalle mura, che delimitavano la tenuta, attraverso il cancelletto utilizzato dalla servitù.
Annarita mi accompagnò nel più completo silenzio verso la strada che faceva ogni settimana per andare al mercato.
Solo quando fummo abbastanza lontane parlò.
«Non potevo permettergli di rinchiudervi in manicomio, signorina. So di aver appena perso il lavoro, aiutandovi, ma sono abbastanza certa che lo avrei perso comunque. Quell'uomo è malvagio».
Scossi la testa, incapace di odiare mio padre come avrei dovuto: «Ha solo perso la retta via, Annarita; è una pecorella smarrita, sono certa che se riuscisse a smettere di bere, potrebbe magari salvarsi e chiedere perdono di fronte al Signore».
«Siete troppo buona, signorina», mi disse, sorridendomi dolcemente: «Potete nascondervi a casa mia, se lo desiderate, non penso sia particolarmente confortevole, ma...»
Scossi vigorosamente il capo: «Grazie, ma sono costretta a rifiutare questa generosa offerta. Avrei bisogno di vestiti comodi per cavalcare e qualcuno che potrebbe vendermi un cavallo abbastanza forte da portarmi a Napoli in poche ore».
«Napoli, signorina? Ma non è dove vi ha trovata il signor Tabasco?»
«Sì, Annarita. Devo rintracciare una persona, che spero mi stia aspettando».
«Posso donarvi alcuni abiti di mio fratello maggiore, signorina, ma per il cavallo non saprei...»
«Non conosci nessuno che li allevi qua vicino? O qualcuno che si voglia liberare di una vecchia giumenta?»
«No, ma magari mio fratello conosce qualcuno», disse, scrollando le spalle e aumentando la presa intorno alla mia mano, intrecciata ancora alla sua.
«Ti ringrazio, Annarita, sei sempre stata una cara amica».
Annarita sorrise: «È stato un piacere servirvi, signorina».
Mentre osservavo la strada di fronte a noi e aumentava la distanza tre me e la casa in cui ero cresciuta, sentivo che il Destino era tornato dalla mia parte e mi stava finalmente indirizzando sulla giusta via.
***
Buonsalve popolo di Wattpad!
Siamo sempre più vicini alla fine della storia, cosa ve ne pare per il momento? Come pensate che si concluderà?
Caterina è riuscita ad allontanarsi dalla villa, aiutata da Annarita, che si rivela essere una cara amica, pronta a rischiare molto, pur di portare in salvo la nostra protagonista. E Damiano? Sarà a Napoli ad aspettare Caterina?
Spero abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate!
Come sempre ricordo che potete trovarmi su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp e, per chi volesse sostenere il mio lavoro con un caffè simbolico, vi ricordo che potete trovare il link della mia pagina Ko-fi nella mia bio.
Un bacio,
LazySoul_EFP
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