3 - 𝘚𝘢𝘯𝘨𝘶𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘮𝘪𝘰 𝘴𝘢𝘯𝘨𝘶𝘦 (Mitko pt. II)

«Signorino Musialik, vi sentite bene?»

Mitko non degnò lo stalliere di uno sguardo.

«Vostra madre è preoccupata, vi ha cercato tutto il giorno. Avete idea di che ore siano?»

«No, e non mi interessa.»

«Siete ubriaco?»

Gli lasciò le redini del karadin e lo fulminò con un'occhiataccia. «Un'altra parola e vi faccio fucilare per... per... beh, qualcosa avrete fatto!» sbottò, uscendo a passo di carica dalle stalle.

Dèi, i giardini avevano cominciato a girargli attorno a una velocità impossibile. Forse il giorno dopo si sarebbe scusato con il povero Evgeny, ma al momento tutto ciò che importava era raggiungere la sua stanza senza rimettere sulla tappezzeria. Fortuna che Magnolia conosceva la strada di casa. L'aveva scelta per quello, per avere la libertà di bere fino a svenire in qualche sudicia bettola del borgo senza che la sua famiglia lo desse per disperso.

Nella notte il palazzo assomigliava a un gigantesco scrigno di cristallo, e l'aurora pulsava tra le stelle in un nastro verde che svaniva oltre il profilo delle montagne.

Mitko raggiunse una porticina nascosta non lontana dalle cucine e si arrampicò su per i gradini alti e stretti. Sbucò nel corridoio del terzo piano. Era così buio che a malapena riuscì a ricordare in quale ala fosse spuntato. Toccò a tentoni le pareti nell'attesa di abituarsi all'oscurità, ma la testa continuava a vorticare, gli svincoli a mischiarsi, le porte a confondersi...

Dèi dell'oceano, non sarebbe mai arrivato alla sua camera senza andare a sbattere contro qualche prezioso vaso shenzita.

Nell'annebbiamento da alcol, intravide l'unica luce accesa che si diffondeva da sotto una porta, e si avvicinò come una falena attratta da una lampada a olio.

Udì la voce di suo padre. Mitko si fermò.

Era ubriaco, certo, ma abbastanza lucido da capire che le cose fossero due: o Viktor Musialik, oligarca di Khvost-Kita, investito della più alta carica dello stato assieme ad altri nove uomini, era improvvisamente ammattito e si era messo a parlare con il quadro del prozio Jaroslaw alle tre del mattino, oppure non era solo.

Mitko si avvicinò.

«Notizie dai laboratori di Geliorivsk: l'hanno estratto» mormorò la voce di Voronin. No, suo padre non era solo. Oligarca numero due, annotò mentalmente.

«Sono stati due anni complicati» replicò l'oligarca numero sette, Gavrilov. «Dobbiamo inviare una delegazione a Shenzou quanto prima.»

Tre altissime cariche del paese che discutevano in segreto nel modo in cui avrebbero spettegolato delle studentesse durante una festa vietata ai ragazzi. Doveva esserci qualcosa sotto. E Mitko avrebbe fatto bene a girare sui tacchi e filare a letto, prima di scoprire di cosa si trattasse.

Oppure no.

«Per quanto riguarda l'arma...»

Quello, invece, era suo padre. Oligarca numero cinque.

«Il progetto Ammazzadei potrà essere avviato.»

«Il sud non deve saperlo» disse Voronin, che tirò su col naso nel modo in cui faceva sempre quando inalava quel tabacco nauseabondo. «Se lo scoprisse cercherebbero di costruirla anche loro, e a quel punto perderemmo il nostro vantaggio.»

Intravide l'ombra pachidermica di Gavrilov agitarsi sulla sedia. «Il paese ha atteso secoli per riscattarsi dalla Guerra delle Due Spade. Riprendiamoci l'antica gloria dell'Impero. Poi la Lega del Sole. La Balena sarà di nuovo unita.»

Un fruscio. Qualcuno si era alzato e stava camminando per scaricare la tensione. La voce di suo padre sussurrò: «Il mondo sta per cambiare. Il modo di fare la guerra sta per cambiare. Saremo i primi ad avere per le mani il potere di un Dio, e i primi a scagliarlo se necessario. E non dovrà uscire da questa stanza.»

Mitko indietreggiò e andò a sbattere contro qualcosa di duro. Si voltò con uno scatto, appena in tempo per scorgere il busto di terracotta del bisnonno Bogusław, oligarca della Quarta Era, che oscillava sul plinto per alcuni secondi, prima di tuffarsi di testa sul pavimento. Il rumore del vecchio che si spaccava in mille pezzi riecheggiò per il corridoio.

I peli sulla nuca di Mitko si rizzarono.

«Chi c'è?»

Suo padre comparve sul rettangolo di luce della porta. Stessi colori del figlio, la mascella dura e spigolosa, la barba appuntita sul mento.
Mitko fece ciò che sapeva fare meglio: fingere di non aver combinato assolutamente nulla. «Padre? Va tutto bene?»

«Perché non sei a letto?»

In quello stesso rettangolo di luce fecero capolino le ombre di Voronin e Gavrilov.

«Ci stavo appunto per andare. Sono tornato dal borgo, ero a bere con Arkady.»

Di solito poteva vantare una buona capacità di dissimulazione, ma i volti degli oligarchi rimasero duri e freddi come quelli dei busti nelle alcove.

«Allora, io vado. Buonanotte, signori.»

Fece per voltarsi, ma intravide due sagome scure marciare nella sua direzione con le mani sull'elsa delle sciabole. Riconobbe la forma dei caftan indossati dalle guardie di palazzo. Da dove erano spuntate? Avrebbero dovuto trovarsi davanti alla porta dello studio di suo padre, per proteggere l'oligarca da eventuali attentati, eppure sembrava che fosse stato dato loro l'ordine di spostarsi abbastanza lontano da non origliare la conversazione.

«Abbiamo sentito un rumore, altezze. Tutto bene?»

Mitko si fece avanti. «Colpa mia. Devo aver bevuto troppo. Mandate qualcuno a pulire questo disastro. Ora, se volete scusarmi...» rivolse loro un cenno del capo e mosse un passo verso lo svincolo del corridoio.

Nessuno parlava. Gli pareva che l'aria fosse elettrificata.

Sentì Voronin bisbigliare qualcosa.

Doveva solo raggiungere la sua stanza, chiudersi dentro e infilarsi sotto le coperte. In fondo, con tutto il vino che aveva in corpo avrebbe potuto benissimo dimenticare ogni cosa. Quanto potevano essere pericolosi tre vecchi nostalgici che discutevano a tarda notte di quanto Khvost-Kita fosse stata grande, prima della frammentazione dell'Impero causata dalla guerra delle Due Spade? Era quel genere di cose che si dicevano sempre durante le cene a palazzo, quando tutti alzavano troppo il gomito e si ritiravano nel salotto privato per fumare e giocare a carte.

Riconobbe il quadro di fronte alla porta della camera, quello che rappresentava la scena di caccia tra le colline di Geliorivsk. Non era stato Voronin a nominare quel posto, poco fa? Aveva parlato dell'estrazione di qualcosa...

Si sentì afferrare da dietro e spingere contro il muro, un quadrato di stoffa premuto sulla bocca e sul naso. Un odore muschiato, che gli ricordò quello delle stalle sotto la pioggia, gli penetrò le narici. Mitko si dibatté furiosamente come un salmone tra gli artigli di un orso, ma le braccia della guardia erano chiuse attorno al suo corpo, i suoni soffocati.

Continuò a lottare per diversi minuti. Poi quella puzza cominciò a espandersi dentro di lui, a invadergli i polmoni e la testa, fino a spegnergli i sensi.


Mai, in tutti i suoi ventidue anni di vita, si era svegliato in simili condizioni. Neanche il primo dell'anno, dopo i bagordi che tenevano l'intera corte impegnata fino all'alba, tra vino, danze e spettacoli circensi. Aveva la sensazione che il suo cervello si fosse tramutato in una poltiglia sabbiosa, e che a ogni piccolo movimento della sua testa i granelli ruzzolassero da una parte all'altra della scatola cranica.

Rotolò a pancia in su e riconobbe una volta affrescata di stelle. Sotto di lui, il pavimento di pietra gelida.

«Il ragazzo è sveglio» disse la voce di Voronin.

Voronin. Lurida serpe.

Lo aveva sentito sussurrare qualcosa all'orecchio di suo padre, un attimo prima che la guardia lo agguantasse.

Mitko fece per tirarsi a sedere, ma la sua vista esplose in una miriade di puntini neri. Riuscì a girarsi sul fianco. Tre paia di stivali apparvero nel suo campo visivo. Due sparirono non appena suo padre disse: «Lasciateci soli».

Per la sala riecheggiò il rumore di una porta di ferro che veniva chiusa.

«Dove sono?» chiese Mitko, la voce arrochita dall'umidità.

«Nei sotterranei.»

Maledizione. Non accadeva mai nulla di buono nei sotterranei.

«Ragazzo, mi hai messo in una posizione difficile.»

Quello fu un buon momento per cominciare a farsi prendere dal panico. Con un colpo di reni, Mitko riuscì a mettersi in ginocchio. Aveva mani e piedi legati e la laringe che gli bruciava.

«Cosa mi avete dato?»

«Giusquiamo, insieme a qualche pianta del territorio.»

«Avete cercato di uccidermi?»

Suo padre non rispose. Come poteva starsene semplicemente lì, senza battere ciglio?

«Serviva solo per sedarti.»

«Scommetto che gli altri due speravano in qualcosa di più», Mitko digrignò i denti, poi soffocò un singulto e si incurvò in avanti. Le scapole gli tiravano e aveva la sensazione che l'ossigeno lì sotto cominciasse a mancare. «Io non dirò niente... non so neanche di che cosa stavate parlando, o cosa sia un'Ammazzadei...»

«Presto lo saprà tutto il mondo.»

Sollevò la testa e guardò suo padre da sotto in su. Se c'era un briciolo di rimorso nei suoi occhi, o anche solo l'ombra di un sentimento, era stato addestrato a nasconderlo. Aveva provato ad addestrare anche lui. A trasformarlo nella sua bella copia algida che un giorno avrebbe tirato le redini del paese. Ma di algido Mitko aveva solo i colori, perché le sue emozioni esondavano spaccando ogni argine e travolgendo i delicati equilibri di quella casa fin da quando era un bambino.

Mai, come in quel momento, desiderò essere stato più ubbidiente.

«Io non dirò niente» ripeté Mitko, simile a un automa rotto.

«Non è questo il punto.» Il viso di suo padre si contrasse in un piccolo spasmo. Gli diede le spalle, e lo sentì sospirare. «Cosa succederà la prossima volta che andrai a ubriacarti al borgo? O che darai una delle tue feste sconsiderate in una delle tenute di famiglia? Riuscirai a tenere a freno la lingua quando sarai stordito dall'oppio?»

«Padre...»

«Sei una banderuola impazzita, ragazzo. Tutto il Dorso di Balena lo sa. Le spie del sud non aspettano altro che infilarsi nel tuo letto per strapparti qualche segreto.» Suo padre prese a camminare avanti e indietro, le mani intrecciate dietro la schiena. «Se solo mi avessi dato modo di potermi fidare di te...»

«Ma voi potete fidarvi di me!» La voce di Mitko si incrinò. «Potete farlo... io...»

Aveva davvero una così infima opinione di lui? Viktor Musialik era davvero convinto che suo figlio avrebbe tradito la sua patria?

«Se è perché non ho sposato la duchessina Ivanova, lo farò. Ve lo giuro, prenderò la sua mano anche subito.»

«È tardi.»

Quelle due parole gli caddero nello stomaco. Ebbe la sensazione di aver appena inghiottito due sassi. E Mitko capì che non ci sarebbe stato niente che avrebbe potuto dire per tornare indietro. Improvvisamente, il pomeriggio nel capanno del guardiacaccia apparteneva a una vita precedente.

Un brivido gli si inerpicò tra le costole.

«Quindi ora cosa succede?»

Suo padre tacque. Per un momento, si chiese se non fosse sul punto di chiedergli perdono.

«Voronin e Gavrilov credono che io abbia acconsentito a ucciderti. Ma non lo farò. Tu sei sangue del mio sangue.» Suo padre sfilò una fiaschetta dal caftan. «Berrai questo.»

«Cos'è?»

«Un infuso di giusquiamo nero. Ti porterà in uno stato simile alla morte.»

Mitko avvertì il panico montargli nel petto. «Padre.»

«Fa' silenzio!»

Lui obbedì. Non avrebbe comunque trovato nulla da dire. Conosceva suo padre, e sapeva che implorare non sarebbe servito a nulla.

«Ti crederanno morto. Un manipolo di miei moschettieri fidati ti scorterà a Dolgobrinsk. Lì ti aspetterà un Köstner che ti porterà ad Aragopoli, e da Aragopoli farete il cambio per Xinyuan Cheng.»

La testa di Mitko stava per scoppiare. Suo padre gli afferrò la mandibola e lo forzò ad aprire la bocca.

«Perché Aragopoli?» ansimò. «Perché non imbarcarmi direttamente per Shenzou da Khvost-Kita?»

L'infuso gelido gli scivolò in gola. Mitko lo mandò giù e prese a tossire.

«Per disperdere le tracce. Credi davvero che quei due uomini lì fuori si fidino che io accetti di uccidere il mio primogenito a cuor leggero? No,» sibilò, «setacceranno tutti i porti del paese. Ma non sospetteranno mai che io ti abbia fatto passare per la tana del nemico».

Le membra cominciarono a formicolargli. Se solo avesse avuto le mani legate, si sarebbe indotto il vomito. Nulla gli garantiva che la dose che gli era appena stata somministrata non fosse letale, e che suo padre lo stesse stordendo di chiacchiere solo per tenerlo a bada.

«Ho dei contatti che ti troveranno un posto sicuro alla Città Proibita finché le acque non si saranno calmate. L'imperatrice Meiyue non potrà rifiutarmi il favore. Sa bene cosa c'è in ballo.»

Ebbe l'orribile sensazione che il suo cuore avesse cominciato a rallentare. Mitko sbatté le palpebre per mettere a fuoco i contorni della figura di fronte a sé. «Di quando tempo stiamo parlando?» biascicò. «Qualche settimana? Qualche mese?»

«Non lo so.»

«Posso almeno salutare la mamma?» Silenzio. «Posso almeno salutare... Arkady?»

L'espressione di suo padre si indurì. «Non avrai più contatti con nessuno a eccezione di persone che reputo estremamente fidate. Partirai tra poche ore, prima del sorgere dell'alba. Addio, ragazzo.»

Il corpo di Mitko si rovesciò di nuovo sul pavimento. Mentre i passi di Viktor Musialik si allontanavano, capì che finalmente ce l'aveva fatta. Si era liberato della sua fastidiosa presenza. E per farlo gli sarebbe bastato confinarlo oltre l'Infinito Blu.

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