Capitolo 5


AVVERTENZE: questo capitolo è abbastanza forte, a livello di contenuti. Leggete partendo dal presupposto che, molto semplicemente, i personaggi di questa storia hanno gravi problemi. Detto questo, buona lettura. 







La palestra era stata allestita, come sempre, in modo impeccabile, ma ad Aileen quasi sembrò soffocante. Le luci verde acido lampeggiavano insistenti sulle mura, illuminando a intermittenza un ammasso di adolescenti che si agitavano a ritmo di musica.

Voleva fare di tutto per non pensare. Fu un desiderio improvviso che cominciò a crescerle in petto. Come se, con il suo costume da sposa cadavere, fosse un'altra – dovesse essere un'altra.

Quella sera Jessica aveva invitato i suoi amici a casa per i preparativi: si erano truccati con un film horror di sottofondo – Nightmare, il preferito di Jessica – e avevano chiacchierato animatamente. Aileen usciva sempre volentieri con loro: erano un'accozzaglia di persone che, di primo acchito, non c'entravano niente gli uni con gli altri, ma in realtà il legame che c'era tra loro era molto profondo e la accoglievano sempre a braccia aperte.

Il party di Halloween di quella sera era un evento atteso, alla Stuyvesant – ed era anche l'occasione per far sì che James Nichols non le desse più fastidio.

Quella mattina, vicino al bagno delle ragazze, era successo qualcosa che l'aveva tormentata per giorni. Non aveva detto nulla a Jessica, che non sapeva la ragione per cui fosse mentalmente assente, e non riusciva a capire il perché. Era la sua migliore amica, anche se la loro amicizia si fondava su una bugia. Anche se, una sera, l'aveva trovata coperta di sangue fuori da scuola, e non le aveva mai detto cosa fosse successo. Non davvero, comunque. Lei lo aveva percepito quando ne avevano parlato.

Aileen, a sua volta, non le aveva mai detto niente di quel paziente che aveva suo padre.

«Io vado a prendere un drink» avvisò il resto del gruppo, incamminandosi verso il tavolo con gli alcolici. Non aspettò risposta: sapeva cosa voleva fare – cosa doveva fare. Perché altrimenti non si sarebbe data pace.

Dove sei?

Doveva affrontarlo. Tanto che cosa mai sarebbe potuto venire fuori? Era solo un ragazzo; non era un killer dai poteri sovrannaturali come quelli dei film horror. Cosa le vietava di parlarci e chiarire quella questione una volta per tutte?

La verità era che si sentiva disconnessa, da allora, come se si fosse dimenticata della sua stessa vita. Dei suoi genitori che la incoraggiavano ogni giorno per i suoi progetti futuri, o di sua sorella Rebecca che le scriveva sempre che le mancava e che non vedeva l'ora di tornare dal college per Natale.

Tutta l'attenzione andava a lui, perché era qualcosa di sbagliato e fuori posto nella sua routine tranquilla e in cui non succedeva mai niente – quella routine di cui aveva bisogno, perché lei non era il genere di persona che fa cazzate per avere adrenalina, e si piaceva così com'era.

Era giusto così, perché fare altrimenti avrebbe portato solo alla distruzione e lei lo sapeva.

Lui era ciò che aveva incrinato quella tranquillità, e non era giusto. Doveva sapere che non era giusto.

L'alcol, adesso, sembrava pomparle nelle vene quel pensiero che la martellava dall'interno. L'aveva sempre fatto, in realtà, ma adesso sembrava amplificato, urgente, disturbante.

Doveva andare da lui e chiedergli se l'avesse scambiata con qualcun altro, dirgli se gli fosse piaciuto così tanto sentirla tremare e sentire i suoi occhi mentre le bruciavano il volto e nessuno se ne accorgeva. Se l'avesse sentita, la sua paura, in quell'angolo di nulla dove nessuno aveva visto.

Un passo, poi un altro, e un altro ancora. Passi spezzati, decisi e tremanti allo stesso tempo. Era anche lui agli angoli della sala, nella sua bellezza eterea e particolare, fredda ma magnetica.

«Ciao», disse. James si voltò subito: era solo, stranamente fuori posto, ora che lo vedeva ai margini della sala. Stava guardando Savannah – la sua fidanzata storica – che ballava con le sue amiche. Aileen la conosceva di vista: era bellissima, con i capelli di un dolce biondo grano e gli occhi celesti che esprimevano una gentilezza sconfinata.

«Ciao», le restituì il saluto.

«Perché mi hai bloccata in quel modo, in corridoio, l'altra volta?» buttò lì, disinvolta. Non lo sarebbe stata se non avesse avuto l'alcol in corpo, ne era sicura.

Lui sembrava piuttosto sobrio; non le rispondeva, però, la fissava e basta con occhi cupi.

«Eri fatto o cosa?»

La sua reazione fu inaspettata. «Non ero fatto» una risposta tranquilla, forse troppo.

È tutto qui?

«Volevo farlo e basta. Deve esserci per forza una spiegazione?»

«Sì», sbottò lei. «Non ci siamo mai parlati, non so nulla di te. So solo che sei una persona che crede di poter fare tutto quello che vuole, e l'altra volta ne ho avuto la dimostrazione» gliele sputò addosso, quelle parole, sperando che sortissero una qualche reazione. Si sentiva libera, viva.

«È complicato» le sembrò di sentirgli dire. Non ne fu sicura, comunque; tutto era annebbiato dalla musica, la sua testa era ovattata dal punch.

«Lee!» la voce di Jessica le arrivò alle orecchie soffusa, talmente bassa che le sembrò di essersela immaginata. La stava chiamando. O forse no?

«In che senso è complicato?» gli chiese, ridendo un po'. Le sembrava il classico tizio che voleva fare il bello e dannato, problematico e maledetto. Tutta una recita per sembrare affascinante.

«Sei troppo... falsa» disse solo, dal niente. «E non mi va giù. E non dovrei pensarci, ma non riesco a farne a meno.»

Quella conversazione non aveva una logica. Nemmeno la voce di Jessica ce l'aveva, che adesso più che mai sembrava un'eco lontana.

«Ma di che cazzo stai parlando?»

«Forse è meglio se ne discutiamo in un luogo più appartato» urlò sopra la musica ma la sua voce suonò comunque gentile, educata. James era travestito da Ted Bundy, indossava un completo beige stile anni Settanta. Era così calmo, a differenza sua. Infondeva sicurezza.

La condusse verso il bagno, dove le luci verdi arrivavano a malapena, lontane, fioche. L'atmosfera era elettrica, forse troppo – ma non le interessava, aveva bisogno di sapere. Non sarebbe tornata indietro, non ora che si stava avvicinando a quello che voleva ottenere. Nella sua testa iniziò a prendere forma quella conversazione strana, condotta dalla voce profonda di James che placava quelle idee ansiogene. Una conversazione che sarebbe stata risolutrice. Che l'avrebbe portata alla tranquillità.

«Aileen, onestamente» esordì il ragazzo, interrompendo le sue riflessioni. «Ti senti mai come se mentissi a te stessa?»

«Perché dovrei dirtelo?»

«Perché mi interessa.»

Quella risposta la spiazzò.

«Sai, ho sentito una connessione tra me e te, quel giorno... mi crederesti? Anzi, credo di dovermi scusare, per esserti sembrato maleducato. Ma vedi...»

Aileen lo osservava attentamente, rapita da ogni singolo dettaglio del suo volto pallido; rapita dal modo in cui la luce verde che arrivava dalla palestra lo rendeva ancora più affascinante, irreale. Sembrava di essere sott'acqua, lontani da ogni cosa – in una dimensione in cui lui era una creatura degli abissi. Tormentato, perso in un ammasso di pensieri in cui ora voleva entrare – lo voleva più di ogni altra cosa.

Quando James lasciò in sospeso la frase, però, quel volto parve trasformarsi. Come se dentro di lui ci fosse un'altra persona. Gli occhi si fecero vuoti, e Aileen avvertì di nuovo quella paura elettrica. La stessa di quando l'aveva trattenuta in corridoio.

Sembrò succedere tutto al rallentatore; James la colpì, forte. Sentì il rumore della sua scatola cranica che sbatteva contro la superficie fredda del muro. Il dolore arrivò soffocato, ma lo avvertì in tutta la sua potenza nell'istante successivo, nella pulsante emicrania che la aggredì feroce.

«Questo tuo modo di fare mi fa incazzare. Ed è solo colpa tua se ho quella sensazione.» adesso sembrava un serpente che le sibilava all'orecchio. Quel qualcosa che si teneva dentro stava esplodendo. Strinse una mano attorno al suo collo, facendo forza, strappandole un rantolo penoso. Un suono che sapeva di morte.

La lasciò d'improvviso; Aileen prese lunghe boccate d'aria come se non ce ne fosse mai abbastanza, il petto si alzava e si abbassava. Era come se un animale le raschiasse la gola con i suoi artigli appuntiti; d'istinto una mano andò al collo, proprio dove lui l'aveva stretta con una violenza che l'aveva destabilizzata.

Sentiva gli occhi fuori dalle orbite, un fastidioso velo di sudore freddo posarsi appiccicoso sulla nuca, il cuore che sembrava voler sfondare il petto e rotolare a terra. Riusciva solo a guardare James, adesso, paralizzata.

C'era qualcosa che le diceva che scappare sarebbe stato stupido – o, più semplicemente, troppo prevedibile. Il ragazzo, nel frattempo, non la smetteva di guardarla negli occhi, vacuo.

«La cosa più logica da fare, adesso, sarebbe scappare» disse poi, senza distogliersi. «Ma tu non lo stai facendo. Giusto?»

Aileen si limitò ad annuire con la testa, mentre la paura le rimbalzava assillante nel cervello, pulsando, rendendola incapace di fare altro che non fosse restare immobile e sperare che non avesse in mente di farle ancora del male.

Ti prego ti prego ti prego ti prego-

Lo sentì armeggiare con i pantaloni, e la consapevolezza di cosa stava per succedere la prese come una frustata lungo tutto il corpo.

«No.»

In quel bagno – lo stesso che avrebbe visto e rivisto fino alla fine della scuola, vivendo quel momento ogni volta – sola, lontana dai suoi amici, da sé stessa. Lontana dalla tranquillità, immersa nella consapevolezza che niente – niente – sarebbe stato più come prima. Che James stava per distruggere ogni cosa che lei era solita mettere a posto con cura, imbrattando tutto quanto, sputandoci sopra.

La presa tornò più forte al suo collo fastidiosamente gracile, pronto a spezzarsi da un momento all'altro. «Non stai scappando, giusto?» e ancora quella voce da serpente, che grattava la gola e si scontrava fra i denti. «Ed è solo colpa tua se ho quella sensazione.» ripeté, apatico e folle allo stesso tempo. «Giusto?»

In un lampo di bizzarra lucidità, Aileen si chiese che cosa gli avesse fatto per meritare tutto ciò.

«Ma perché?» chiese a malapena, la voce incrinata.

James le afferrò il vestito all'altezza del petto e la attirò a sé, senza dire nulla.

Fu quell'attimo che cambiò tutto.

Gli occhi di lui, in quel momento, le scossero le viscere. Nella sua testa c'era una danza scoordinata di pensieri – pensieri che si sovrapponevano, che turbinavano in una giostra malfunzionante.

«Per lo stesso motivo per cui ti ho fermata in corridoio.»

Avvertì il carosello dei pensieri aumentare vertiginosamente la velocità, quando James entrò dentro di lei; lo fece di colpo, furioso, la mano ancora salda attorno al collo e le unghie che le grattavano la pelle rosea. Vestito da Ted Bundy, uno dei serial killer più temuti degli Stati Uniti.

Entrò ancora e ancora, con rabbia, tenendola contro quel fottuto muro, freddo sulla schiena e sotto la nuca che ancora doleva, il collo piegato di lato. Abbandonato, come quello di una bambola rotta.

Di nuovo, stava guardando la scena dagli angoli. E fluttuava, ma quegli occhi li vedeva ancora come se fosse nella realtà. Quegli occhi che bruciavano come due giorni prima in corridoio. Rilucevano di verde, la studiavano come fosse una rana sul tavolo durante una lezione di biologia. Le rane servivano a quello, alla fine; a consentire ad altri di fare esperimenti.

Quando lui si allontanò, senza smettere di fissarla, si lasciò cadere a terra. James la guardò come per capire se fosse in procinto di avere una qualche reazione o meno; gli occhi di Aileen rimasero puntati su di lui, ma senza vederlo davvero.

Lo osservò tornare alla festa, impassibile. Si sollevò sulle gambe tremanti, per poi tornare di nuovo a terra. Si sentiva instabile, frammentata – così come si era frammentato il suo cervello in quegli istanti che sembravano prolungati, infiniti.

L'esperimento era finito. Adesso la rana poteva morire, e non sarebbe importato a nessuno, perché sarebbe stata soltanto una fra le tante.

Aileen si sentiva assente, non c'era più.

C'era solo quel carosello di pensieri, che invece stava urlando.

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