Capitolo 40


Le auto della polizia arrivarono in mezzo alla loro indifferenza, le sirene spiegate, le luci blu e rosse che lampeggiavano frenetiche. James le vide in modo nitido anche se erano al ventesimo piano.

Qualcuno doveva aver sentito urlare. Aileen non si mosse.

«Dobbiamo andarcene» le disse, cercando di esortarla ad alzarsi. Non era per quello che erano giunti fino a lì? Per stare insieme. Per essere liberi dalle stanze della clinica psichiatrica e da qualunque posto li facesse sentire dei reclusi.

Avrebbero dovuto scappare, adesso. Li avrebbero presi, altrimenti, e qualcosa nel cervello di James diceva che stavolta non avrebbero potuto stringersi le mani, nemmeno durante le terapie di gruppo come facevano in clinica. La prospettiva di avvertire Aileen così lontana, dopo quegli istanti intrisi di rosso che gli avevano dato pace, fu come un pugno nello stomaco. La tranquillità che aveva sperimentato stando con lei in quello scenario morto lo faceva fluttuare, e tornare sulla terra era doloroso. Dovevano andare via e stare insieme. «Dobbiamo andarcene» ripeté, sollevandosi da terra.

Aileen lo guardò perplessa. «E perché?» gli chiese. «Siamo liberi.»

La guardò negli occhi e vide il vuoto. Ogni emozione era stata risucchiata da ciò che avevano commesso, o forse nella sua testa non era mai esistita alcuna emozione. Non poteva saperlo – non sapeva niente.

Il rumore dell'ascensore che saliva gli arrivò alle orecchie con un sibilo. Stavano per entrare nell'appartamento e portarli via. Sarebbero finiti al tribunale dei minori e li avrebbero chiusi in carcere. Non si sarebbero più visti fino al rilascio, che poteva essere chissà quando.

Quello sciame di consapevolezze ronzò intorno a James assordandolo. Perché Aileen non reagiva?

I poliziotti erano già arrivati. Loro erano lì, a guardarsi nel lago rosso.

James aveva pensato che dovesse tirare fuori il meglio da Aileen, che dovesse renderla più vera. Si era visto come quello che l'avrebbe liberata dalle sue stesse catene di ipocrisia. Ma forse quelle catene trattenevano una bestia che non doveva essere liberata. Forse la vera sé era solo un essere inarrestabile e privo di logica.

Si rassegnò fra le mani dell'agente che lo conduceva fuori dall'appartamento e poi nell'ascensore. Gli altri condomini si erano affacciati a guardare. Tutti volevano guardare quando si trattava di sangue. Le persone non erano diverse da lui, in fondo, anche se a loro piaceva credere il contrario. Ascoltò distratto il jingle dell'ascensore quando le porte si chiusero sul suo volto. Pochi secondi ed erano al piano terra, e allora ascoltò il rumore dei suoi passi abbattersi sul pavimento. Si stava trascinando dietro delle orme di sangue. Le spalle curve, i capelli sporchi. Era così che ci si sentiva a essere un reietto? James aveva l'impressione di essere sporco dentro. Fu come guardarsi per la prima volta allo specchio – guardarsi davvero. Uscì dall'edificio piano, anche se lo strattonavano. Aileen non lo guardava nemmeno. Era persa in una realtà tutta sua: per la prima volta James si chiese se quelle espressioni bisognose che aveva fossero simulate apposta per arrivare a quel punto. Lo sguardo gli si fissò sul volto della ragazza, ma lei non lo ricambiò. Era un pezzo di pietra grigio e liscio, dove le emozioni non potevano esistere. Al massimo potevano esserci disegnate sopra, per poi essere cancellate subito dopo.

Il tragitto fu sbiadito. Fu pensieri sconnessi che si diramavano lungo un sentiero tortuoso, al cui termine vi era la porta del dipartimento di polizia di New York. Lui e Aileen vennero condotti in stanze separate; il viavai delle persone intorno a lui era insopportabile, il vociare continuo fastidioso. Era un ronzio insistente, uno di quelli che ti fa alzare desiderando di annientare la fonte di quel suono tedioso.

L'agente che lo teneva era afroamericano. Si chiamava Sean Campbell. Che nome stupido. Un nome da persona intrisa di buonismo, che non avrebbe mai capito la corrente elettrica dell'adrenalina, del menefreghismo. Il menefreghismo gli dava potere, si era chiuso in quella stanza buia della sua mente e ci stava bene. Adorava quella stanza, adorava stendersi sul suo pavimento sporco di sangue.

Mancava solo Aileen. La distruzione uccideva il dolore. Ma questo nessuno l'avrebbe capito.

«Dunque, James Nichols» quella voce profonda, incredula, così ingenua. Probabilmente l'avrebbero sbattuto di nuovo in clinica psichiatrica, avrebbero parlato di lui come di un povero ragazzo incapace di intendere e di volere.

La cosa lo faceva solo ridere.

«Sì?» fece, atono.

«Ti conviene dire sin da subito per quale motivo tu abbia fatto quello che hai fatto» se ne uscì, con un tono a metà tra il duro e lo speranzoso – speranza di cosa? Forse pensava che fosse recuperabile.

Il cuore pulsava, le parole del poliziotto erano lontane. Non aveva più voglia di mentire a sé stesso.

Non fingere non fingere non fingere

«Perché ho distrutto la maschera, agente Campbell» disse solo. «Non fingo più.»

Silenzio.

«Tutti abbiamo un lato crudele» aggiunse, facendo un cenno con la testa. «Perfino lei.»

L'uomo lo guardava confuso, ma James non ci badò.

Aveva fatto quello che doveva.

«La differenza tra lei e me è che io mi rifiuto di nasconderlo.»

Si concentrò sulle pareti in mattoni della centrale. Mattoni di un verde cupo, come se fosse sporco. 

Le immaginò col sangue rappreso incrostato fra i bordi, e d'improvviso sembrarono più belle. 

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