Capitolo 29
Aveva trovato Jessica fuori da casa sua, sorretta a malapena dalle sue gambe magre e coperta di sangue dal collo in giù. La sera in cui era stata aggredita Aileen non l'avrebbe mai dimenticata. I suoi genitori l'avevano fatta entrare, avevano chiamato la polizia, le avevano dato una coperta. L'avevano fatta sdraiare mentre gli agenti venivano da loro e le facevano domande.
Jessica era rimasta in silenzio tutto il tempo. Il labbro inferiore screpolato, gli occhi persi chissà dove.
Ora che erano fuori da scuola Aileen la vedeva più esile, minuscola nella sua felpa nera che le stava troppo larga. Indossava degli shorts di jeans con delle calze, anch'esse nere, così come gli anfibi che portava ai piedi; si era messa a sedere sul prato del cortile a gambe incrociate, mentre gli studenti le sciamavano attorno.
«Ehi» le disse, come per richiamare la sua attenzione. Non sapeva perché, ma sentiva il bisogno di sapere cosa fosse successo. Era stato l'aggressore a colpirla per primo?
La ragazza voltò la testa. «Ehi» rispose solo.
Aileen la raggiunse sul prato, sedendosi accanto a lei. «Come stai?»
Jessica indugiò un istante. «Sono viva» disse poi. Aileen ebbe la netta sensazione che ci fosse qualcosa che la sua amica non voleva dirle; i suoi occhi chiari sembravano riflettere il clima nuvoloso di quel giorno, catturare gli sbuffi grigi del cielo. In poco tempo rimasero solo loro due nel cortile della Stuyvesant High; i tipici edifici newyorkesi sembravano strozzarle in un'atmosfera soffocante, i rumori del traffico erano diventati un sottofondo ai pensieri.
«Per qualunque cosa ci sono» aggiunse in un sussurro.
La ragazza non rispose. Tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una. Il fumo si levò trasportato dal vento quando fece il primo tiro, confondendosi tra le nubi. Si tirò su le maniche della felpa, scoprendo una benda arrotolata attorno al polso sinistro.
In quel momento ad Aileen parve quasi di sentire bruciare le cicatrici che aveva addosso, come se fossero fresche anche se erano passati mesi. Avrebbe dato chissà cosa per sentire di nuovo quel dolore, quello che Konrad le aveva inflitto quella volta nel parcheggio.
C'erano state altre volte come quella, ma del resto lei era d'accordo. Avevano un patto; lei l'avrebbe aiutato a tenere a bada il mostro, e lui avrebbe lottato con tutto sé stesso per non fare nulla di sconsiderato. Lui aveva bisogno di lei, in fondo lo sapeva.
Spariva sempre, però.
Anche ora era sparito.
E adesso non c'era più. Ogni certezza era diventata niente.
Chissà se pensava a lei, ogni tanto, al suo cuore che si era frantumato.
Riusciva a sentire il rumore dei vetri a terra, il battito che ormai andava avanti per inerzia?
C'era qualcuno che la guardava dall'interno della sua testa, degli occhi azzurri che non riusciva ad associare a nessuno.
Si ritrovò a sperare di vedere le ferite di Jessica.
Fu un pensiero che comparve come se qualcuno glielo avesse scagliato nel cervello.
Quando uscì dallo studio le sembrò che ogni singolo centimetro del suo corpo fosse fatto di gelatina. Cercò di capire se fosse in grado di camminare; le sue gambe rispondevano ai comandi del cervello? Ma come poteva muoverle se la testa sembrava staccarsi dal collo?
L'euforia che la pervadeva era strana. Non riusciva a identificarla. Si sentiva come se avesse potuto frantumare ogni cosa e come se stesse per cadere da un momento all'altro. La distanza che c'era tra lo studio della psicologa e l'aula di letteratura non le era mai sembrata così lunga, anche se si trovavano allo stesso piano e a distanza di pochi metri.
Le sembrava di sprofondare nel pavimento mentre camminava. Il pavimento bianco della scuola stava diventando quello accecante dell'ospedale e all'improvviso era un lago che la fagocitava. Una distesa di sabbie mobili che rifletteva la luce delle lampade al neon.
Fu allora che si arrestò improvvisamente. Le particelle del suo corpo esile erano impazzite, ma in quel momento si arrestarono tutte a mezz'aria, congelate in una dimensione temporale irraggiungibile.
James si trovava vicino all'aula. Stava appoggiato al muro accanto alla porta, un libro aperto tra le mani.
Non stava guardando il libro, però.
Stava fissando lei, come se l'avesse attesa per un tempo interminabile.
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