Capitolo 28


Quella ragazza – si chiamava Jessica Ferland – si era offerta di dargli una mano con un progetto di letteratura inglese. Un progetto che avrebbe dovuto consegnare quella settimana.

Era il genere di compito che anni prima gli sarebbe sembrato il primo dei problemi, l'obiettivo su cui buttarsi a capofitto per sentire di avere qualcosa da fare.

Per non deludere i suoi genitori.

O forse per fare finta di non sentirli mentre sparlavano di Madison, anche a distanza di così tanto tempo dall'incidente.

Sua sorella si era invischiata in qualcosa di più grande di lei, senza pensare alle conseguenze. Senza pensare che, un giorno, un tizio fuori di testa avrebbe colpito suo fratello con un fottuto attizzatoio.

Ricordava solo la botta che c'era stata, ma non il volto del suo aggressore. Era frustrante, il genere di sensazione che si traduceva in una feroce sensazione che gli strisciava sottopelle. Non riuscire ad associare un volto a quello che gli era accaduto lo aveva cambiato. Da quel giorno si era sentito molto più vecchio della sua età reale, come se qualcuno avesse mandato avanti il tempo solo per lui e non per gli altri, che invece stavano continuando la loro vita come se nulla fosse.

«James, mi stai ascoltando?» la voce di Jessica Ferland si stava fondendo alla rabbia.

«In realtà no.»

«Come mai? Parlamene.»

Non si aspettava quella gentilezza. E non avrebbe mai potuto parlarne, anche se la voce di Jessica era gentile e accomodante. I suoi occhi grigi lo guardavano con una punta di apprensione, i capelli scuri le incorniciavano il viso; non erano molto lunghi, le arrivavano pressoché alle spalle. Aveva proprio l'aria di essere una che non aveva idea di quello che poteva succedere a una persona. Così pulita e innocente e piena di voglia di aiutarlo da essere insopportabile. Lui vedeva solo il buio, adesso; vedeva solo l'urlo muto di sua sorella, il sangue che gli danzava davanti, il volto indefinito del tipo che lo aveva cambiato per sempre. Da anni ormai.

La rabbia aveva opacizzato tutto quanto. E lui non voleva nemmeno ricordare, in realtà. Voleva solo trovare un modo che gli permettesse di liberarsi di quel peso. Ma non c'era; sembrava non esistere, come se qualcuno gli stesse sussurrando che era condannato e che lo sarebbe stato sempre.

«Non c'è molto da dire» l'ennesima bugia. «Devo andare» disse poi. 

«So che sei stato in ospedale, anni fa. Lo stesso che ho frequentato anche io. Come ti sei trovato?»

Quelle parole lo gelarono. «Perché ti interessa?» ribatté, con voce dura.

«Così» l'espressione di Jessica era piatta. Neutra.

«Volevano che recuperassi il ricordo del volto di chi mi ha colpito, ma non sono riuscito a farlo. Così ho interrotto le sedute» si limitò a dire. «La psicologa mi faceva delle domande, credo fossero fatte apposta per innescare una reazione di qualche tipo. Non ho ricordato nulla, comunque.»

Adesso quella ragazza lo guardava in un modo diverso; sembrava angosciata, aveva aggrottato le sopracciglia.

«Mi sento solo arrabbiato.»

Non se ne era accorto, ma la sua mano era scattata verso il polso di Jessica, afferrandolo e stringendo furiosamente. Adorava quella sensazione. Adorava sentire che era forte, che quel ricordo non sarebbe riuscito a ucciderlo.

Durò un istante; un istante in cui nell'aria poteva sentire il terrore di Jessica, che lo guardava con gli occhi spalancati. Aveva iniziato a tremare, consapevole del fatto che – visto che erano in casa da soli – non avrebbe potuto chiedere aiuto a nessuno.

Cosa sarebbe successo ora? Avrebbe fatto la fine di quel tipo, se avesse rimosso la barriera? Sarebbe finito con lo scagliare un attizzatoio in testa a qualcuno che passava lì per caso?

Jessica scattò come un gatto, allontanandosi da lui. Il suo braccio sfuggì alla sua presa ferrea. Attorno al polso sottile della ragazza era già comparso un anello di pelle arrossata. «Esci subito da casa mia.»

Quelle parole lo raggiunsero lapidarie, riportandolo a una realtà che sembrava ormai non conoscere più.

Falle male falle male falle male

La voce nella sua testa era insistente, lo stava distruggendo. Era sempre più forte, come quel grido che sua sorella aveva lanciato e che lui non aveva mai sentito.

Ebbe la stessa sensazione di dissociazione quando la sua mano andò ad afferrare un oggetto che si era messo in tasca poco prima.

Un paio di forbici da unghie.

Le aprì con un gesto così deciso da non sentirlo neanche come suo, e nell'istante successivo le lame ghermirono il polso di Jessica.

Si sentiva fluttuare.

Adesso era lui il carnefice, stava uccidendo il ricordo. Era bellissimo.

La ragazza lottò contro le lame, mentre lui la teneva ferma con una forza di cui non si credeva capace – esattamente come la forza insospettabile del suo aggressore, che era magro, un ragno senza volto che infestava i suoi incubi.

Si rese conto tutto insieme che non poteva dirlo a nessuno. Avrebbe dovuto fare in modo che neanche Jessica lo facesse.

Chiuse la porta a chiave e afferrò un coltello dal ceppo sul bancone della cucina nella frazione di un secondo – quel secondo sufficiente a vedere l'espressione della ragazza cambiare di nuovo.

Di più. Voleva di più.

«Non dirlo a nessuno. Sai che cosa succederebbe, altrimenti.»

Jessica ansimava. Afferrò un coltello a sua volta e glielo puntò addosso.

Una risata camminò in punta di piedi lungo il suo esofago. Prima timidamente, poi sempre più decisa. La fece uscire, e suonò bassa. Aveva fatto proprio quello che si aspettava facesse. Gli esseri umani erano così prevedibili da risultare stupidi.

Sarebbe stato più veloce, questo lo sapeva. Scattò in avanti, la lama colpì di striscio la pelle scoperta della spalla di Jessica, che lanciò il coltello a terra e provò a uscire. Sembrò rendersi conto solo in quel momento delle persiane chiuse. La porta era chiusa a chiave. Non sarebbe tornato nessuno fino all'indomani, i suoi erano in viaggio di lavoro. Madison era stata ritenuta responsabile di quanto gli era accaduto e ora era in carcere a scontare la sua pena.

Era solo.

No, non lo era.

C'era la Rabbia a fargli compagnia. Sarebbe morto, se non fosse stato per lei.

Schiacciò la ragazza contro la porta. Lei emise un pigolio penoso.

Aveva solo quindici anni ma era forte come uno tsunami.




Aspettò Aileen all'ingresso della scuola, stavolta. Sapeva che non sarebbe scappata via come avrebbe fatto chiunque. Non aveva ancora ricevuto nessuna denuncia per lo stupro, del resto – e sapeva che lei avrebbe potuto denunciarlo. Ma non l'aveva fatto.

Le immagini della notte di Halloween non erano andate via. Non erano mai state risucchiate da qualcosa – almeno, non del tutto. Possibile che non fosse riuscito a recuperarle prima? Sarebbe stato tutto molto più semplice. Sarebbe stato più facile avvicinarsi a lei e far sì che entrasse nella sua testa come non ci era riuscito nessuno. Ecco perché si sentiva sconnesso da Savannah, ecco perché la odiava. Perché non era lei.

Non era Aileen, con la profonda devozione che la caratterizzava. La testa pulita di Savannah non era la sua, in cui amore e ossessione erano la stessa cosa.

Aileen avrebbe fatto di tutto per lui, lo sentiva; sentiva che quel legame esisteva anche se non avevano mai parlato. Si erano solo guardati, si erano scontrati in un vortice di qualcosa che neanche era riuscito a definire davvero. Dalla sera di Halloween aveva avuto la sensazione che la mente di quella ragazza turbinasse contro la sua, come se avesse voluto chiamarlo a sé. Non era ancora riuscito a trovare un senso in quel vibrare di particelle, in quel sentirsi reale e materiale solo quando c'era lei.

Non avevano mai parlato davvero, ma ora James aveva l'impressione che dovessero farlo. 

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