Capitolo 27
Quando entrò nello studio della psicologa – aveva dimenticato come si chiamasse – si sentiva lo stomaco in subbuglio, come se qualcosa glielo stesse stracciando. Mosse qualche passo esitante. A ogni passo riaffioravano ricordi, quasi quella stanza li avesse catturati in un tempo remoto per poi restituirglieli al momento opportuno.
«Ciao Aileen» la psicologa la accolse con un sorriso stracciato come il suo stomaco. «Come stai?»
Restò in piedi. Non si era ancora seduta. Non voleva farlo, altrimenti si sarebbe sentita la testa vuota. «Non molto bene, a dire il vero. Posso stare in piedi?» le chiese.
«Certo che puoi. Come preferisci.»
La psicologa le sembrava un robot quel giorno; c'era qualcosa di diverso in lei, nel modo in cui stava seduta. Era troppo rigido. E che cos'era quel foglio su cui troneggiava il suo nome, scritto a caratteri cubitali?
La psicologa lo prese e lo infilò in un quaderno. La gestualità era frettolosa. C'era qualcosa che non doveva sapere? Stava indagando su di lei?
Le domande si affollavano nella sua testa. Le percepiva con lo stesso fastidio che si prova quando si è obbligati a invitare persone a casa propria anche se non se ne ha voglia.
«Mi è venuto in mente che quella sera ha cambiato tutto» disse, distogliendo lo sguardo. Le parole uscivano stanche dalle sue labbra. «E non l'ho ancora detto a nessuno. Nemmeno ai miei genitori.»
«Come mai?»
Esitò. Gli occhi rimbalzavano da un lato all'altro della stanza. Non voleva guardare la dottoressa, anche se era lì per togliersi quel peso dal corpo.
Sarebbe stata meglio, ne era sicura – ma era tutto così doloroso.
«Sono assenti. Almeno, per quanto riguarda...» si interruppe. Perché non riusciva ad andare avanti, quando si trattava di parlare di quello? «Per quanto riguarda tutto ciò che va al di fuori delle cose normali.»
«Spiegati meglio.»
Si sentiva la gola chiusa. Come se qualcuno la stesse soffocando – come aveva fatto James quella sera. Forse c'era ancora l'impronta delle sue dita, anche se gli altri non potevano vederla.
«Anni fa sono stata male» si limitò a dire. Strinse le labbra in una linea piatta. «I miei genitori non si sono mai ripresi, da allora. Non da quando Konrad mi ha fatta finire lì dentro.»
«Dove?»
Aileen si toccò la cicatrice. Era passato tanto tempo.
«In una clinica psichiatrica. Avrei preferito non dirlo» ammise.
«Per quale ragione?»
Avvertì un insolito calore sulle guance. Voleva mandarlo via.
«Perché mi vergogno del periodo che ho passato laggiù. Mi vergogno che si sappia.»
«Qualcun altro ne è al corrente, a parte i tuoi genitori?»
«Solo Jessica» rispose, quasi parlandole sopra. «Lei è la mia migliore amica» chiarì, cercando di scacciare il groppo che le si era formato in gola. «Le dico tutto. O quasi.»
«Cosa ci rientra in quel "quasi"?»
Le domande che le faceva la psicologa erano intelligenti, doveva riconoscerlo. Ma non riusciva a capirne l'utilità. Cosa voleva sapere? Tutto il suo corpo era in uno stato di allarme.
«Ci sono delle cose» la voce incespicava.
Dopo il rilascio si sentiva svuotata. Avrebbe dovuto stare meglio. Avrebbe dovuto percepire il sollievo farsi strada dentro di lei, ma sembrava tutto ovattato da una sensazione opprimente.
Mentre usciva aggrappata al braccio di suo padre, freddo e immobile, sentiva che quell'ambiente, quei ricordi, quelle pareti strette e quelle telecamere le sarebbero sempre rimasti impressi nella testa, come aveva già previsto.
Non l'avrebbero mai lasciata.
La luce del sole proveniente dalla porta, pura e chiara, le sembrava così accecante e così irreale.
Poi le venne in mente.
Un'immagine.
Un'immagine che aveva sempre voluto vedere e che ora era vera.
Vederla davanti ai suoi occhi le dava un senso di potere assoluto che la inebriava.
Sentiva un formicolio di intensa soddisfazione pervaderle le guance e la schiena... era persino meglio di quando alle sedute di gruppo si sedeva accanto a James e poteva sentire il profumo della sua pelle.
Un'immagine molto divertente...
Divertente.
Divertente...
Divertente!
«Dottoressa!», chiamò la signora Duncan, che la aveva accompagnata e aveva fatto firmare a suo padre tutte le carte necessarie.
«Sì, Aileen?»
Lei fece un gran sorriso. «Qualcuno morirà, dopo oggi. Quando io e lui ci ritroveremo.»
*
Il tragitto di ritorno a casa fu silenzioso, ma ad Aileen non dava più fastidio il silenzio.
Quegli anni passati in clinica che le erano sembrati eterni l'avevano cambiata; adesso era tutto diverso, e allo stesso tempo tutto uguale. Non provava più nulla, era totalmente priva di emozioni, come se il suo cuore così sensibile e vivo le fosse stato portato via da qualcosa.
Ora restava solo una tristezza schiacciante, alienante, che la rendeva assente.
Non si aspettava che le cose migliorassero.
Non si aspettava niente di niente, per dir la verità.
Sapeva perché l'avevano rilasciata. Sapeva perché lo avevano fatto.
Lo avevano fatto per mandarla via.
Lo avevano fatto per liberarsi di lei.
Qualcuno morirà qualcuno morirà qualcuno morirà...
Perché sei stata mandata in clinica, Aileen?
La voce nella sua testa era così prepotente che era impossibile ignorarla. Konrad l'aveva incastrata, aveva fatto ricadere la colpa su di lei quando...
«Mi scusi» e non seppe perché lo avesse detto. Sentiva solo che doveva dirlo.
«Per cosa?» chiese infatti la psicologa.
«È solo che non torno volentieri con la testa a certi momenti.»
«Ma al tempo stesso non vuoi denunciare James.»
Aileen avvertì il suo volto svuotarsi. «No.»
Il cuore prese a batterle più forte. Che cos'era quel senso di elettricità che le serpeggiava dentro? Si sentiva esagitata.
Cosa sarebbe successo se fosse tornata a quando era con Konrad?
«Aileen, vorrei fare una cosa, se me lo consenti» la psicologa aveva un tono calmo. «Vorrei che tu chiudessi gli occhi e tornassi ai momenti più vividi che ricordi con Konrad. Non sarà facile, ma è necessario per poter capire cosa ti ha portata a non denunciare James per quello che ti ha fatto.»
Aileen la fissò. Gli occhi della psicologa sembravano raccontare molto di più che quella semplice frase, come se ci fossero dei non detti. Come se, in qualche modo, la dottoressa conoscesse delle informazioni che però ci teneva a non rivelarle.
Comunque non fece domande. Si limitò a chiudere gli occhi come le aveva detto. Il mondo si fece di colpo buio. Vedeva solo il velo rossastro di quando le palpebre si abbassano e ogni colore viene inghiottito nel nulla.
«Torna al momento in cui sei stata inserita in clinica. Perché è successo?» la voce della psicologa era lontana ma chiara. Limpida. Riecheggiava nei meandri di sé stessa come la voce di un dio che la guardava dall'alto.
Aileen aveva già raccontato quella storia. Non voleva riviverla.
Ma non era forse quello che aveva già fatto con James – rivivere tutto quanto?
All'improvviso ogni cosa sembrava mischiarsi. Era come una pozza stagnante in cui danzavano sagome indistinte. Gocce di sangue cadevano sui sedili per poi scivolare pigre in fiumi scuri. Konrad rideva guardandola fiero, gli occhi ghiacciati resi ancor più brillanti dai bagliori lunari.
«È successo una sera. Eravamo andati in un parcheggio nel Queens.»
Il lampeggiare di una lontana insegna al neon rosa si riverberava nelle sue iridi morte. Sorrideva. Ora no. Ora sì. Ora no.
«Aveva appena fatto qualcosa. Nella macchina c'era un attizzatoio sporco di sangue.»
All'improvviso Aileen era sola, Konrad non c'era.
«Non lo vedo più, adesso.»
Vedeva sé stessa incidersi la gola e osservare il liquido scuro picchiettarle sulle cosce. Poi aveva reclinato la testa all'indietro. Gli occhi chiusi, le orecchie prese ad ascoltare il sangue colare sulla maglietta rosa.
«Qual è la vera ragione per cui sei stata inserita in clinica, Aileen?»
Quella domanda la psicologa sembrò pronunciarla con cautela.
E fu allora che qualcosa – la stessa cosa che si agitava nel suo angolo buio – la destabilizzò. L'immagine di Konrad con l'attizzatoio in mano ora appariva sfocata.
Era stata cieca per troppo tempo. I ricordi si rincorrevano. Non ci aveva pensato fino a quel momento, li aveva evitati pur essendone consapevole. Li percepiva come si percepisce una presenza indesiderata – ma lo erano davvero?
Forse no.
«Konrad non è mai stato in carcere.»
Si sentì libera.
«Sono stata inserita in clinica perché io l'ho aggredito.»
Silenzio.
«Una sera stavo esplodendo. Lui... non sa com'era. Non può capire.»
La psicologa si era ammutolita.
«Quando ci siamo incontrati l'ho subito trovato attraente, anche se non nel senso convenzionale del termine. Abbiamo parlato subito di tutti quei pensieri che ci infestavano la mente sin da quando eravamo piccoli. Abbiamo avuto sin da subito molto da condividere.»
«In che senso?»
«Non so spiegarlo in un altro modo, ma quando ero piccola avevo delle pulsioni. Una volta stavo accarezzando il cane della mia vicina, e mi ha assalita la voglia di afferrarlo per il collo e ucciderlo. Volevo sentire il suono che avrebbe fatto mentre la vita gli scivolava via dal corpo.»
«E non hai pensato alle conseguenze che questa tua azione avrebbe potuto avere?»
Ci fu un vuoto silenzio fra loro due. Un silenzio in cui Aileen non aveva più paura di guardarla negli occhi. Non doveva più fingere ormai, l'Altra stava parlando indisturbata.
«No.» pausa. «O meglio, sì. Ma non mi interessava.» pausa. «Volevo solo vederlo morire. Mi sono chiesta quanto sarebbe stato pesante una volta morto. Cosa avrei provato nel seppellirlo.»
«Quanti anni avevi, Aileen?» la voce della psicologa ora era bassa. Si era come appiattita, schiacciata dal peso di quei concetti che fluttuavano nell'aria stantìa dello studio.
Aileen indugiò. Stava ansimando. Le mani tremavano e le sembrava di avere un principio di Parkinson. Non riusciva a smettere.
«Otto.»
Il silenzio era calato nella stanza – un silenzio umido e appiccicoso. Aileen non riusciva a pentirsi di quello che aveva detto. Voleva davvero farlo ma quelle parole suonavano troppo giuste per potersele rimangiare. Stava ancora ansimando e la psicologa la guardava.
«Gli ho raccontato ogni cosa. Anche lui aveva provato lo stesso. Finalmente mi sentivo compresa. È quello che vogliamo tutti, giusto?» la sua voce si venò d'ansia. «Essere accettati. Essere compresi. Non avere la sensazione di essere soli.»
Si stava giustificando? Non riusciva a interpretare le sue stesse parole, era come se i suoi pensieri fossero una ragnatela che le si disintegrava tra le mani.
«Konrad aveva le stesse caratteristiche che avevo io. Gli piacevo. Abbiamo cominciato a vederci di nascosto da mio padre. Non avrebbe mai approvato.»
«Perché?»
«Non voleva che io avessi relazioni con i suoi pazienti. Mi ripeteva sempre: "Bisogna stare attenti a non affezionarsi. Non voglio dire che i miei pazienti siano dei mostri, ovviamente, ma è necessario prenderli per quello che sono. Sono persone malate, che al momento – fintantoché rientreranno in determinati schemi comportamentali – non avranno da offrire nulla di buono".»
«Questo non ti ha fermata, però», la psicologa la stava seguendo, stava capendo. Non era una di quelle che annuiscono e basta. Non era come quelle della clinica.
Si toccò la cicatrice sul collo. La sfiorò appena, come era solita fare.
«No. Konrad mi raccontava spesso che voleva uccidere i suoi genitori. Voleva massacrarli con una forbice e poi scappare. Mi chiedeva di aiutarlo e io ne ero felice. È stato come se...» si interruppe. Era troppo. Ma quelle parole – quelle sensazioni – volevano uscire. Volevano esplodere come fanno i fuochi d'artificio.
«Volevo capire cosa si provasse. A uccidere una persona.»
A ogni parola la psicologa sprofondava sempre di più nella sua poltrona. Aileen non poteva fermarsi. Doveva correre. Doveva buttare tutto fuori, non aveva senso fermarsi a metà percorso.
«Così mi ha fatto provare. In quel parcheggio. Voleva vedere come mi sarei sentita una volta che avessi visto-» la gola era secca, l'eccitazione era alle stelle. Non un'eccitazione sessuale. Era molto di più. Era un'eccitazione mentale. Uno stato d'animo che non aveva mai provato. Il corpo che sembrava fatto di gelatina, le mani scosse dallo stesso tremito febbrile di prima, il cuore che pompava una corrente di adrenalina che non credeva nemmeno potesse esistere.
«Una volta che avessi visto il sangue.»
Si rese conto di aver pronunciato quella parola – sangue – come se avesse un gusto dolcissimo. A pensarci le sembrava di avvertire il sapore ferroso in bocca. Stava tornando con la testa agli attimi che si erano estesi, dilatati fino a che non avevano riempito la sua testa come ovatta. E infine l'avevano spappolata. Non era più riuscita a tornare indietro.
«Mi sono accorta che stavo puntando alla giugulare solo quando mi ha fermato la mano a mezz'aria. Ma avrei continuato» era come se avesse calato giù una maschera che era diventata scomoda. Lo stava facendo lentamente perché nemmeno lei era pronta a vedere chi era davvero – ma voleva farlo, lo voleva davvero. Le girava la testa ma non voleva scendere da quel carosello di consapevolezze.
Konrad doveva diventare come lei. Lei doveva avere una cicatrice, per lui doveva essere lo stesso. Dovevano essere uguali, altrimenti le sarebbe crollato il mondo sotto i piedi.
«Ma provavi sentimenti ambivalenti per lui» le disse la psicologa. Voleva studiare la sua reazione, si vedeva. «O sbaglio?» Non smetteva di fissarla. «Lo amavi e lo odiavi. Ecco perché lo hai aggredito.»
«In realtà, non è proprio così» cominciò. «Quella sera non mi sentivo emotiva. Avevo premeditato tutto. Nessuno scoppio di rabbia improvviso, nessun meccanismo di difesa. Scarta queste ipotesi dottoressa. Non ha nulla a che fare nemmeno con i traumi, niente di quelle cazzate che ho detto finora è vero. Niente» era un fiume in piena, le parole rotolavano fuori dalle sue labbra tinte di rosso. «Perché sono cazzate. Soltanto cazzate» rimarcò. «Per me non era neanche Konrad, quello, mentre lo accoltellavo. Non era neanche un essere umano, a dirla tutta.»
La psicologa aveva il volto sconvolto di chi non l'aveva mai vista così, l'espressione di chi inorridisce di fronte a uno spettacolo disturbante; sembrò realizzare solo in quel momento che la sua mente era un posto in cui era impossibile sopravvivere. Aileen continuava a sentire quell'energia dentro al suo corpo. Era così che James si era sentito, quando l'aveva afferrata in corridoio? E la sera di Halloween? Era di quello che si voleva nutrire? Di quell'espressione terrorizzata che ora aveva la psicologa? Di quella corrente di ansia?
Aveva un buon sapore. Come il sangue.
Konrad aveva riportato segni indelebili, dopo quella sera. Era stato facile, per lui, passare dalla parte della ragione e far sì che lei venisse giudicata incapace di intendere e di volere. Le ferite bastavano. Erano più che sufficienti. C'erano le impronte. C'era il suo sorriso quando l'avevano vista.
Era stato un ragazzo che passava da lì per caso a chiamare la polizia. L'avevano fatta scendere dalla macchina e quelle gocce sui sedili erano diventate rivoli. Il volto era chiazzato di rosso, gli occhi inondati di buio.
All'improvviso ricordava che gli agenti avevano indietreggiato, quando l'avevano guardata. Ricordava che era disordinata come non lo era mai stata in vita sua, eppure si era sentita sé stessa in un modo così totalizzante.
«Era più una cosa» proseguì. «E le cose sono soltanto cose. Mi spiego?»
Andava avanti a parlare e la sua voce si trasformava. Quando aveva fatto quel salto così repentino? Ora si sentiva un'altra. Era fatta di ghiaccio, di plastica, forse di entrambe le cose. Comunque era vuota. Era fredda. Era potente.
Niente poteva scalfire una persona così.
La psicologa restava in silenzio, forse sapeva che aveva bisogno di continuare.
«Mentre lui parlava, mi raccontava la sua giornata e altre stronzate, io fingevo di ascoltarlo, ma dentro stavo pregustando quel momento. Sentivo il coltello bruciare nella mia borsa, diventare quasi incandescente. Volevo vedere il sangue. Tutto qua» lo disse come se fosse accettabile, normale. Non lo era, ma non le interessava. «L'ho fatto, e da allora non riesco a smettere di pensarci.»
Silenzio.
«Adesso vorrei quella sensazione di nuovo» guardò la psicologa negli occhi e solo allora si rese conto di quanto dovesse essere diversa rispetto a quando era entrata. Le venne voglia di guardarsi allo specchio. Di guardarsi negli occhi e ammirare quanto fossero vuoti, persi, animati soltanto dalla determinazione. Non era una ragazza, era un cacciatore che smaniava per avere la sua prossima preda.
Rise, dopo quel silenzio pesante, intriso di pensieri. Una risata bassa, folle, esaltata, gli occhi puntati nel Nulla. «Porca puttana, non mi sono mai sentita così viva» disse poi. «Le braccia mi formicolavano, mentre lo facevo. Tutto quanto sembrava formicolare, l'eccitazione mentale era alle stelle. Sentivo come un terremoto che mi scuoteva le sinapsi» proseguì.
La psicologa era spiazzata, lo si vedeva chiaramente. Stava riflettendo sulle sue parole; Aileen fu quasi sicura di scorgere un brivido camminare in punta di piedi su tutto il suo corpo.
Quella era la verità che stava nell'angolo buio.
Aveva provato adrenalina mentre accoltellava il suo fidanzato.
Forse adesso la psicologa pensava che avesse un insieme di sindromi che si mescolavano in modo confuso, senza un criterio; non le importava davvero, comunque. Ora che quelle parole erano venute fuori si sentiva galleggiare in un profondo vuoto; un vuoto in cui però stava bene.
Puntò i suoi occhi in quelli della psicologa, che ora sembrava sul punto di cadere a terra.
«Ti mangerà, dottoressina. Forse lo ha già fatto.»
«Ti riferisci a James?»
Fu tentata di riderle in faccia. Davvero credeva che si trattasse solo di lei e James?
«No», disse solo, ma non aggiunse altro.
E se ne andò.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top