Capitolo 24
I'll stay there won't restrain them
Let it all go
Leave brains on pavements
A replacement, cut it out
Play dead cannot rest, still strung by a tight thread
- TwentyThree
«James è riuscito a reinserirsi, come abbiamo visto» proseguì la Duncan. «Ma speravo non avesse ricadute di questo genere. Purtroppo, essendo che è stato rilasciato dall'ospedale ormai da anni, non ho neanche modo di verificare che stia prendendo ancora i farmaci. Anche se, dato ciò che mi hai raccontato, credo che abbia smesso la terapia.»
«Sembrava collaborativo, nel suo periodo di ricovero? Prendeva i farmaci regolarmente?»
«Sì», la Duncan non indugiò un istante mentre glielo diceva. «Per questo mi farebbe strano che avesse smesso, anche se adesso è l'unica ipotesi plausibile.»
«Si dovrebbe sapere perché abbia deciso proprio ora di smettere con i farmaci.»
«Esatto» la dottoressa si aggiustò gli occhiali sul naso in quel suo tic che Hester aveva imparato a riconoscere. «Ma forse un vero motivo non c'è. Le persone con disturbo antisociale sono imprevedibili. Può essere che abbia smesso la cura semplicemente per noia.»
«Il fatto è che mi annoio moltissimo. E vedo superficialità, intorno a me, a livelli nauseanti.»
Era stata una delle prime frasi che le aveva detto durante le loro sedute. Adesso le sembrava essere passata un'eternità da quel momento, come se appartenesse a una vita precedente. Era una giornata di un'altra Hester, una versione di sé stessa che vedeva in James solo un ragazzo bisognoso di aiuto.
James invece era tante persone, e Hester non sapeva con esattezza quante. Tutto si mescolava, il mondo della realtà e quello dell'illusione si invadevano a vicenda intrecciando i loro lunghi tentacoli. Che cosa stava facendo adesso? Stava facendo i compiti? Era andato a fare una corsa? Stava scrivendo?
Stava facendo qualcosa che nutriva il suo sadismo?
«Quando abbiamo avuto la nostra prima seduta, James mi ha detto di sentirsi annoiato da tutto ciò che lo circondava» disse, fissando la Duncan negli occhi. «Quindi ha senso.»
Pausa.
«La noia era, in generale, un sentimento di cui parlava molto spesso. Trapelava da ogni suo gesto, da ogni suo sguardo» si accorse troppo tardi che, mentre raccontava, tornava a quei momenti. Si perdeva nel passato, esattamente come faceva quando era avvolta nel buio di casa sua e pensava a Noah. Quando si ritrovava a trascorrere le notti insonni a fissare la lancetta dell'orologio della cucina che girava e per lei il tempo sembrava non passare mai. Quando prendeva le caramelle per dormire – quelle fottute caramelle che tanto non le restituivano mai il sonno perché continuava a non dormire anche se il suo corpo chiedeva pietà.
Anche in quel momento si era persa. E la Duncan doveva essersene accorta. «Va' avanti» le disse infatti.
«Questa sensazione di noia si è spenta solo quando parlava di Aileen. Durante una delle nostre prime sedute mi ha raccontato che l'aveva afferrata in un corridoio, tenendola per un braccio. Trattenendola lì, vicino a lui. È stato un gesto di potere che poi ha» la voce si mozzò mentre quell'immagine prendeva forma nella sua testa in un flash. «Esteso la sera di Halloween. Probabilmente voleva di nuovo provare quella sensazione, ma più in grande» ipotizzò, senza staccare gli occhi da quelli della Duncan.
La dottoressa si schiarì la voce. «Ora che hai letto la sua cartella clinica credo ti sia tutto molto più chiaro» disse, radunando gli appunti sul tavolo. «Leggi» le allungò uno dei fogli. Era scritto in una grafia spigolosa, contorta. Le lettere sembravano scivolare via frettolose, come se l'autore di quelle annotazioni fosse in preda all'urgenza di scrivere. Come se avesse avuto un tempo limitato per depositare lì i suoi pensieri.
Mi sono svegliato in un lago rosso. Ero rannicchiato, il lago rosso mi abbracciava come fosse una coperta, umido e freddo, freddo e caldo allo stesso tempo. Confortevole. Ho aperto gli occhi in una stanza fatta di piastrelle sudicie, incrostate di sangue ossidato, scuro. Erano croste che si erano formate su una pelle inanimata. Le ho osservate tra le persiane che erano le mie palpebre, a occhi socchiusi.
Ho aperto gli occhi.
In quella stanza non c'era niente. Solo distruzione.
Solo quel lago rosso e confortevole e io ci stavo dentro, nudo, rannicchiato come un feto nel grembo materno. I capelli umidi. Ho chiuso gli occhi.
Galleggiavo nel niente e nell'umido di quella pellicola rossa e comoda. Mi stava bene così.
«Avevo chiesto a James di appuntare i suoi sogni. Quando abbiamo fatto la nostra prima seduta era in stato confusionale, non rispondeva alle domande, mi rivolgeva contro ogni singola cosa che dicevo. Già dopo mezz'ora avevo cominciato a nutrire sinceri dubbi sull'efficacia della terapia, persino nel lungo termine.» Duncan fece una pausa, forse le stava dando del tempo per assorbire quel sovraccarico di informazioni. «Poi gli ho chiesto di scrivere. Di scrivere senza sosta, di annotare tutto quello che gli passava nella testa – pensieri, sogni, tutto. Questa è una delle sue annotazioni.»
Hester guardò la data scritta sul foglio. 20 agosto 2013.
Quattordici anni.
«Cosa ne pensi?»
«Io...» i tentacoli ruvidi si allungavano di nuovo sul suo esile corpo da preda. L'impulso di stracciare quei fogli le mangiava l'epidermide, il cervello si ripiegava su sé stesso. Cos'era che la Duncan si aspettava che dicesse? Cosa voleva sentirsi dire?
«Si trattava di un incubo ricorrente?» chiese poi. «James faceva spesso questo tipo di sogno?»
«Difficile dirlo, dovremmo dare per assodato che tutto quello che ha detto finora sia vero. Il che sappiamo essere una pista sbagliata, visto quanto scoperto. Ma sì, stando a ciò che diceva – e scriveva.»
«Sognava il sangue, quindi.»
Ricordo il sangue. Ricordo tutto. Ma non il suo cazzo di nome.
Ricordo
Il sangue.
Era attratto dal sangue, lo cercava, lo voleva. Lo desiderava come chi desidera un pezzo di pane dopo aver digiunato per giorni. Aveva inciso la sua ragazza, aveva sognato di essere immerso in una pozza rossa – un sogno ricorrente.
«Come ti sembrava, quando ti raccontava di questo sogno?» domande studiate che ora rivolgeva alla sua stessa tutor come fosse una paziente – qualcuno di malato a cui prendere la testa per poi frugarci dentro.
La Duncan ebbe un attimo di esitazione. E di nuovo quell'espressione quasi angosciata – sei sicura di spingerti così in profondità?, sembrava dire. Sembrava volerla tutelare, anche se ormai da tempo qualcuno l'aveva gettata in quel mare senza chiedersi se sapesse nuotare o meno. «Cambiava espressione» disse poi. «Totalmente. I suoi occhi si animavano. Riuscivo a notare un leggero tremolio alle mani. Quando parlava di questo sogno era come se qualcosa gli infondesse la vita che sembrava non avere mai.»
Il gelo era calato su di loro. Il silenzio saturo di pensieri inespressi. Hester lo vedeva che la Duncan aveva paura di James, che avrebbe fatto carte false per non avvicinarsi mai più a lui e che non aveva in realtà alcuna intenzione di parlarle di lui.
La sua tutor voleva relegare il periodo in cui lo aveva avuto in cura in un angolo dimenticato.
«Si accendeva. Sembrava cambiare essenza, possedere una luce che in altri momenti era invisibile.»
Le parole della sua tutor la colpirono crudeli, scagliandole dentro istantanee di James con lo sguardo vivo solo quando parlava di sé stesso immerso nel lago rosso. James che aveva quattordici anni e che era più buio di un pozzo senza fondo. Più degli incubi. Più dei ricordi di quando si era trovata a un passo dalla morte.
«Era... non lo so» Anche attraverso le sue parole Hester si ritrovò a provare l'impulso di indietreggiare. Di andarsene.
La capacità che James aveva di farla sentire in trappola, pur non essendo neanche materialmente presente, la destabilizzava.
Basta, non voglio più vederlo.
Mai più.
Mai più.
Voleva davvero dirlo, ma la voce non veniva fuori.
«Hester» la voce della Duncan come un'eco lontana.
«Sì?»
«Ti vedo turbata.»
Fece finta di nulla. «James soffriva di sindrome di Renfield?» chiese a bruciapelo. La sua tutor restò interdetta, fermò lo sguardo su di lei. Come se fosse sorpresa della sua osservazione – come se non la credesse capace di pensare a una cosa del genere.
«Sì», le rispose poi. «Molti studiosi non sono concordi nel farne un disturbo riconosciuto, ma in James era molto evidente. Credo che quel ragazzo sia la prova del fatto che quella sindrome esiste, e cammina tra noi.»
Pausa.
«Un giorno ho provato a fare un test, insieme alla dottoressa Hudson» sospirò, e Hester prese a tremare. Non fece nulla per nasconderlo. Anche se avesse voluto dissimularlo, comunque, non ci sarebbe riuscita. «Abbiamo mostrato a James delle immagini che ritraevano tutte scene cruente, molte delle quali davvero crude. La sua reazione ci ha sconvolte, anche se non potevamo darlo a vedere.»
Hester attese. La dottoressa Duncan si passò la lingua sulle labbra.
«Abbiamo monitorato la sua attività cerebrale facendo un elettroencefalogramma. L'avevamo già fatto altre volte, senza ottenere risultati. Sembrava anestetizzato, emotivamente morto. Fino a quel giorno.»
Un'altra pausa. Hester detestava quelle pause.
«Ci aspettavamo che avesse la medesima reazione anche in quel caso. James sembrava svuotato di ogni emozione – a parte noia e rabbia. Ma quando ha visto quelle immagini l'attività cerebrale è stata molto intensa. Ha avuto una risposta immediata, le aree del cervello coinvolte erano evidenti. Nell'osservarlo, la dottoressa Hudson ha notato che le pupille si erano dilatate. Durante le sedute non era mai accaduto.»
Pausa.
«Un giorno sono andata personalmente a trovarlo nella sua stanza per portarlo alla seduta con la dottoressa Hudson. Doveva farlo un'infermiera – si chiamava Hailey – ma aveva smesso. Qualcosa l'aveva spaventata a morte. Anche se non sapremo mai che cosa.»
Il modo in cui aveva pronunciato quella frase fece serpeggiare il gelo nello stomaco di Hester. Come se qualcuno stesse trascinando dietro di sé una catena che seminava freddo e ruggine.
«Che vuol dire?» chiese.
«Hailey è morta» disse la Duncan. «James l'ha aggredita.»
«Ho scorticato la faccia a un'infermiera. Ricordo il modo in cui il sangue mi è rimasto sotto le unghie per giorni. Ricordo le urla. Ricordo l'adrenalina che provavo, mentre lo facevo.»
Aveva omesso che l'aveva uccisa.
«Che cosa è successo quando lei è andata a prendere James?» chiese.
«L'ho trovato che si stava mordendo l'avambraccio, forte. C'erano già impronte di denti in altri punti sull'altro braccio, ma la ferita che si stava infliggendo era molto più profonda. Si era strappato con così tanta furia che potevo vedere benissimo la carne viva – perfino il muscolo. L'ho portato subito in infermeria.»
Silenzio.
«La cosa che più mi ha turbata» proseguì la Duncan. «È che non reagiva agli stimoli che provocano dolore. Non tremava, non mostrava malessere. Era spento. Vuoto. Fatta eccezione per quel bagliore che gli guizzava negli occhi mentre fissava il suo stesso sangue.»
Silenzio.
«Se non fosse stato un paziente della clinica, avrei detto che fosse sotto effetto di qualche sostanza. Ma non poteva essere, non nel caso di un adolescente tenuto sotto stretto controllo in una struttura psichiatrica. Stava assecondando la sua natura.»
Nella testa di Hester prese forma l'immagine di James che veniva condotto dalla Duncan lungo il corridoio dell'ospedale. Il sangue che scivolava sul suo braccio in un torrente scarlatto. Viscoso, profondo. Le stille cremisi che cadevano sul pavimento bianco, lasciando impronte di follia a ogni passo. La carne viva esposta. Gli sguardi degli altri medici. Le urla dei pazienti che rimbalzavano sul cervello di James, perso in un mondo fatto di morte.
Chiuse gli occhi. Le girava la testa.
«C'è un'altra cosa che devo dirti.»
Riaprì gli occhi.
«Insieme a James ho avuto in cura anche un'altra ragazza. Aileen Clark.»
Hester sprofondò nel silenzio, perché quelle parole l'avevano accartocciata per poi farla esplodere.
«Presentava dei sintomi simili. È arrivata con una gamba che non era che un ammasso di pelle e sangue. Ferite che potevano essere possibili solo se avesse fatto un incidente. Se le era fatte da sola, invece.»
Avrebbe chiuso.
Lo decise in quel momento, realizzando che James sarebbe venuto il giorno dopo e l'avrebbe fatta di nuovo a pezzi.
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