Capitolo 23



Quando entrò nell'appartamento della Duncan, arredato con degli eleganti mobili di diverse tonalità di blu, le sembrò che l'atmosfera fosse tesa sin da subito. La sua tutor l'aspettava seduta su un divano al centro della grande sala. Di fronte a lei c'era un tavolino da caffè in vetro finissimo. Hester non poté fare a meno di notare l'imponente quantità di fascicoli che troneggiavano su quel tavolo, insieme a diversi fogli pieni di appunti radunati per l'occasione. La carta leggermente ingiallita non faceva che suggerirle che James avesse molto da raccontare. L'ambiente era tranquillo, i colori rilassanti – un misto tra il blu e un bel grigio perla – ma non riuscì a goderseli appieno. Gli strascichi del panico le si agitavano ancora dentro.

«Benvenuta», la Duncan, cordiale come sempre, la accolse con voce pacata. Si sistemò gli occhiali neri sul naso, poi aggiunse: «Siediti pure dove vuoi. Posso offrirti qualcosa?»

Aveva bisogno d'acqua.

«No, ti ringrazio» disse invece. «Grazie per l'invito.»

La sua tutor la squadrò con espressione cupa. «Prego. Ho pensato che avessimo bisogno di un luogo più appartato dove discutere di ciò che sto per dirti. Come ti ho già detto, James è uno di quei pazienti che speravo non ti capitassero – almeno, non sicuramente come prima esperienza di lavoro.»

Hester sapeva che la Duncan le stava solo parlando per quella che era l'oggettività delle cose, ma si sentì comunque soffocare. La sensazione di formicolio agli arti che aveva provato in metropolitana tornò ad aggredirla prepotente, incurante del fatto che il suo corpo fosse già devastato. Uno spettro era appollaiato sulla sua spalla e le sussurrava di continuo che non poteva stare tranquilla, che doveva stare attenta a tutto, che...

Calmati, Hester.

«Naturalmente» la voce della Duncan la riportò al mondo reale. «Non potevo parlare di James nel contesto scolastico. Per questo ho scelto di invitarti qui. È giusto che tu abbia una visione a trecentosessanta gradi, visto che sei tu la sua terapeuta adesso.»

Pausa.

«Prima, però, ho bisogno di sapere una cosa» il suo tono di voce era caldo, ipnotico; Hester non faticò a capire che quella voce calmava molti pazienti, ma sembrò non funzionare con lei. Lo spettro che le sussurrava era sempre lì. Il cuore era pieno di spilli fini e appuntiti – la facevano sanguinare senza che nessuno vedesse e potesse aiutarla. La facevano sprofondare nella spirale di un'invisibile emorragia interna.

«Quali sono le tue ipotesi su James?» la Duncan la scandagliò mentre glielo chiedeva. Hester si sedette sul divano di fronte alla sua tutor, accavallando le gambe subito dopo.

«Da quale punto di vista?» chiese, tenendo gli occhi fissi su di lei.

«Lo sai bene da quale punto di vista, Hester. Hai fatto una tesi sui disturbi di personalità del cluster B, davvero brillante se posso permettermi. Ti sei soffermata, oltre che sull'aspetto relativo alla terapia cognitivo-comportamentale, anche sui pattern di personalità che includono la violenza, la rabbia, la manipolazione. Avrai dei sospetti riguardo a James.» Era un'affermazione, non una domanda. Hester tornò con la mente all'immagine della scatola, del biglietto. Alla voce di Noah che diceva di aver visto qualcuno entrare in casa sua. Nell'arco di un effimero istante, Hester capì che Noah era l'ultimo dei suoi problemi, adesso.

«In realtà sì. Ma non ho voluto stilare una diagnosi, almeno per ora.»

«Posso sapere il motivo?»

«Mi è semplicemente sembrato affrettato. Credo di aver bisogno di elementi in più, oltre a quelli che ho già appuntato. Ma come le ho detto, ho notato picchi di sadismo e una forte tendenza alla manipolazione.»

«Quindi hai ipotizzato un disturbo narcisistico?» Hester non riusciva a capire dove la dottoressa Duncan volesse andare a parare. Se sapeva tutto su James, allora perché non la stava già informando di ogni dettaglio?

«Sì», ammise infine. «Forse anche con tratti riconducibili alla psicopatia» aggiunse, l'immagine di Aileen che le raccontava di Konrad marchiata nel cervello – i suoi occhi vacui che le narravano scenari di violenza, di un amore che era ossessione.

Aileen sospirò. «È finito in carcere, dopo un po'.»

«E come mai?»

La ragazza la guardò come se avesse voluto scavarle dentro. La scandagliò in un modo che avrebbe fatto venire voglia a chiunque di allontanarsi. Di dimenticare quel volto pallido, quasi infantile, con le tenebre dipinte sopra.

«Non posso dirlo» rispose.

Aileen stava nascondendo qualcosa. Le aveva detto che James le ricordava Konrad, e quella frase era sembrata, se possibile, nascondere ancora di più di quello che si poteva intuire superficialmente. E poi Savannah che aveva paura – quella paura che le si era scagliata contro senza preoccuparsi dei danni, che l'aveva fatta sentire come se uno sciame di schegge di vetro le si fosse schiantato addosso.

Erano tutti collegati in una ragnatela fatta di sabbie mobili.

«Le tue ipotesi sono davvero interessanti» la Duncan prese il plico di fogli che stava sul tavolo, e la curiosità le vibrò sottopelle quando vide la foto di un James molto più piccolo, l'espressione seria.

Sono stata la sua psichiatra, quando è stato ricoverato. Aveva quattordici anni.

Il volto di James era velato da un'ombra che durante le loro sedute era riuscito a soffocare, ma che in quella foto sembrava aver preso possesso di ogni centimetro della sua pelle. Le ciglia lunghe erano una conchiglia intorno alle iridi di un azzurro chiarissimo, intriso di un buio opprimente. Una patina in cui ogni cosa scompariva e si disintegrava nel Nulla. Un ciuffo di capelli neri andava a coprire un dettaglio su cui Hester si soffermò con lo sguardo più del dovuto.

Era una cicatrice.

Una linea fatta di punti che gli attraversava la fronte, facendolo apparire una bambola rotta e ricucita in fretta.

«James ti ha parlato dell'incidente?»

Hester annuì con la testa. La foto di James le aveva strappato la lingua. «Mi ha detto che» si schiarì la voce. «Un ragazzo lo ha colpito alla testa, un giorno, a casa della sorella. Un ragazzo che gli ha procurato dei danni al lobo frontale, causandogli problemi di memoria e di controllo degli impulsi.» Quelle informazioni sembravano troppe mentre le pronunciava, la avvolgevano umide e pesanti come fango.

La dottoressa Duncan la fissò, inespressiva. «Ho qui le sue cartelle cliniche di quel periodo – di quando è stato ricoverato. Penso tu debba vederle.»

Hester si lascò sfuggire un sospiro dalle labbra. Allungò una mano tremante sul fascicolo che la Duncan le stava porgendo. Un'altra foto di James, gli occhi persi nel vuoto. Il suo profilo, pallido e regolare, col naso dritto e le spalle curve.

Gli occhi di Hester si posarono sulle informazioni nella cartella clinica – un lato di sé non voleva vederle.




Nome: James

Cognome: Nichols

Data e luogo di nascita: 12/15/1999, Washington

Residenza: New York

Cittadinanza: Statunitense

Peso: 75 kg

Capelli: neri

Occhi: azzurri

Statura: 1,80 cm

In cura presso: Dott.ssa Helen Duncan, medico psichiatra specializzato in disturbi della condotta e del controllo degli impulsi; Karen Hudson, psicologa dell'età evolutiva.

Diagnosi: ASPD – Disturbo antisociale (sociopatia)

Note: il paziente, a seguito di un colpo alla testa ricevuto con dolo, ha riportato danni al lobo frontale, con conseguente abbassamento del controllo degli impulsi. Mostra uno scarso controllo della rabbia e un'elevata aggressività. È resistente alla terapia cognitivo-comportamentale, dalla quale sembra apprendere unicamente nuove strategie per manipolare il prossimo. Si auspica un cauto reinserimento in società, tuttavia deve seguire opportune terapie a base di antipsicotici.




Hester sentì un nodo stringersi insopportabile attorno alla gola. I suoi occhi non la smettevano di fissare quella parola, ogni altra riga della cartella clinica si era svuotata di significato.

Sociopatia.

Sociopatia...

Aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione, dal primo momento in cui quel sospetto le si era impiantato nel cervello e aveva iniziato a sussurrarle all'orecchio in momenti in cui avrebbe solo dovuto non pensare al lavoro.

E Aileen?

Quale poteva essere il suo quadro clinico? La mente andava alla velocità della luce, era una scheggia impazzita, aveva fame di informazioni – di dare un senso a tutto quanto.

Non posso dirlo.

C'era qualcosa.

Lei doveva capire.

«Ti senti bene?» la voce della dottoressa Duncan la riscosse, strappandola alle istantanee delle sue sedute con James.

«Sì», mentì. «Solo che, non appena ho letto la cartella clinica, mi sono venute in mente delle cose.»

«Cioè?» il tono della Duncan era incalzante.

«James ha accoltellato la sua ragazza, la notte di Halloween» lo disse di colpo, il volto inespressivo del suo paziente negli occhi. «Ho omesso questo dettaglio, l'ultima volta che abbiamo discusso di questo caso, ma Savannah mi ha raccontato tutto. È stata la nostra prima e unica seduta.»

Pausa.

«Ha detto che ha subìto un'incisione a Y... come si fa con le rane a biologia» la sua voce scorreva incerta tra quelle parole che componevano un'immagine macabra. «Ecco perché non vuole più avere a che fare con lui. Ma James non ricorda niente di tutto questo.»

«Savannah ha più ricontattato James?»

«Non che io sappia» si affrettò a rispondere Hester. «Non è più venuta per le sedute, anche se la cosa migliore sarebbe che lo facesse.»

Silenzio. Hester si passò una mano tra i capelli. Le sembrarono avere l'odore acidulo della paura. «E poi c'è Aileen» era un fiume in piena, adesso. «Aileen è il polo negativo di James, in un certo senso. Savannah è ciò che gli serve per condurre una vita normale, Aileen rappresenta il nutrimento per il suo lato più sadico. Almeno, questa è l'idea che ho maturato basandomi su quanto mi ha detto» si sforzava di sembrare professionale, ma dentro stava morendo.

«Aileen è la ragazza che James ha aggredito ad Halloween, giusto?»

«Esatto» quasi le parlò sopra. «Il fatto stesso che abbia fatto qualcosa a entrambe lo stesso giorno è indicativo» le idee prendevano forma troppo rapidamente, le si schiantavano addosso come meteoriti. «Sta facendo un gioco di manipolazione, anche se non è chiaro il perché» la voce le aveva assunto una sfumatura diversa, intimorita.

Quando vedeva persone come James nei film, o nei video a lezione di psichiatria, aveva sempre una strana percezione. Come se quelle persone, in qualche modo, non fossero neanche concrete. Come se fossero fatte dell'immaginazione degli altri. Come se certi comportamenti, intrisi della cattiveria più sporca, non potessero essere reali.

Invece lo erano, e se ne stava rendendo conto nel modo più brutale possibile – adesso era tutto diverso, quei video la stavano minacciando con la loro logica perversa e impenetrabile. Era al centro dei loro sguardi da predatori e non sarebbe più riuscita a toglierseli davvero di dosso.


«Sì, lo è» la Duncan le rispose con voce piatta, e ancora quel volto consapevole, che raccontava scenari che lei, forse, neanche era in grado di immaginare. «Sei sicura di voler proseguire?» le chiese poi.

Hester ebbe un attimo di esitazione, in cui le sembrò di essere chiusa in una bolla.

«Sì», disse.

Non aveva nulla da perdere.

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