Capitolo 2
Hester attese il suo primo paziente sentendosi quasi inadeguata, seduta dietro la scrivania. Le mani le tremavano leggermente dal nervoso.
Quella stanza era claustrofobica, sembrava stritolarla con le sue pareti bianche e asettiche, evidenziate dalle lampade al neon.
James Nichols. Così si chiamava il ragazzo che doveva arrivare.
Si alzò quando vide un giovane fare il suo ingresso nella stanza. Piano, come se stesse fluttuando. Aveva lo sguardo fisso, puntato nel vuoto. Le spalle grandi e squadrate cozzavano con la sua sagoma pallida. Appariva bellissimo e fragile al tempo stesso, come una statua di alabastro in procinto di rompersi.
«Ciao», disse solo, in un modo che le sembrò così poco professionale da farle desiderare di rimangiarsi tutto. «So che magari non ti aspettavi una persona così giovane, ma... la dottoressa Duncan – l'altra psicologa – ha ritenuto che dei ragazzi del liceo potessero sentirsi più vicini a una della mia età.»
Era quello che le era stato detto, ma sapeva di essere in prova. La dottoressa Duncan l'avrebbe ricontattata dopo circa un mese, per fare il punto della situazione, e lei sapeva che sarebbe stato per controllare che andasse tutto bene. Ci teneva a quel lavoro, avrebbe fatto il possibile per tenerselo stretto.
James non rispose, almeno non in un primo momento. Sembrava talmente triste da dare l'impressione di essere caduto in una voragine senza fondo, in cui lui continuava a cadere, cadere, cadere... senza sosta. «Sono James Nichols» disse solo, con una voce lontana e consapevole – troppo per appartenere a un ragazzo di diciotto anni – che sembrò scuoterla fin dentro le viscere. «Tu ti chiami...?»
«Hester» disse, come se stesse lanciando il suo nome in aria. «Chiamami Hester.» Era così strano stare in quella poltroncina nera, con i libri alle spalle e una persona rotta davanti. Dentro alla stanza c'era odore di carta stampata e di pensieri torvi che si accavallavano in teste disturbate.
«Che problemi hanno, solitamente, le persone che vanno in terapia?» voce tagliente e piatta allo stesso tempo.
«Beh», si sforzò di sembrare inflessibile, perché era così che si doveva fare. Ma un lato di sé stessa stava urlando che lei non era preparata, che non lo sarebbe stata mai. «Di solito si tratta di problemi a scuola, o...» lo guardò di nuovo. Forse era uno di quegli adolescenti che, apparentemente, hanno tutto nella vita. Ottimi voti, genitori benestanti, amici con cui vengono sballottati da una festa all'altra... e insoddisfatti. «Stati d'animo negativi. Allo sportello della scuola vengono spesso ragazzi che, per qualche motivo, si sentono tristi. Annoiati.»
James sembrò scandagliarla, come a voler capire dove volesse andare a parare. Restò in silenzio, però: non fece altre domande.
«Quello che voglio è avere un rapporto informale, in modo che tu ti senta libero di dire ciò che vuoi» disse allora. «Anche perché, altrimenti, questi appuntamenti non avrebbero senso... o sbaglio?» Mentre pronunciava ognuna di quelle parole sentiva lo sforzo sovrumano che c'era dietro, la barriera che si sforzava di creare per non farsi aggredire dalla sua malattia, che andava a toccare una ferita aperta.
Hai studiato Mental Health Counseling per anni e non riesci a reggere il peso di un ragazzino depresso?
A volte le veniva da pensare che avesse scelto quel percorso di studi solo per sé, e non per gli altri. Solo per esorcizzare i suoi demoni, da perfetta egoista.
James la guardava incuriosito, con i suoi occhi tristi e senza espressione. «Okay» disse solo. «Ha senso, effettivamente.»
«Quindi... Ti va di cominciare da qualcosa in particolare? Ti lascio carta bianca.»
«Beh... ci sono tante cose di cui vorrei parlare» iniziò lui. «È che» gli occhi si abbassarono di nuovo, come se fossero persi in ricordi opprimenti – e probabilmente lo erano davvero. «Credo di non provare più niente ormai. Non so da quando io abbia iniziato a essere un involucro vuoto, ma... davvero, non c'è più niente che sia in grado di entusiasmarmi.»
«Sono la prima a cui ne parli?»
Una risata vaga, un po' soffiata; sembrava esprimere più amarezza che altro. «Beh, sì. Ai miei genitori, per esempio, non dico mai niente. Se ne fregherebbero in ogni caso. Vengo allo sportello della scuola per curiosità, tutto qui.» La voce gli si fece più amara, sembrò pungerla. «Secondo loro, probabilmente, queste cose non sono per le persone come me.»
«E come sono le persone come te?»
Aveva già la sua idea, ma era importante capire che concezione avesse il paziente di sé.
«Come sono i ragazzi che provengono da una famiglia ricca, che hanno il massimo dei voti e giocano a football?» fece lui per tutta risposta, retorico. «Fantastici. Desiderati. Ma il fatto è che mi annoio moltissimo. E vedo superficialità, intorno a me, a livelli nauseanti.»
Pausa.
«A volte penso che, a conti fatti, non ci sia nessuno a cui importi di me. Insomma, le cose che tu mi stai dicendo sono in qualche modo dovute, e ... al di fuori di questo contesto non ti comporteresti così.»
«È semplicemente perché ci conosciamo in questo contesto. Se fossi tua amica non saprei neanche come aiutarti, sarei troppo coinvolta e mi lascerei andare alle emozioni.» Restò a guardarlo, mentre anche lui ricambiava.
«È vero» disse solo. «Mi piaci, sai? Nel senso» si affrettò ad aggiungere. «Mi piace il tuo approccio.»
«Grazie.» sorrise appena. «Prima hai detto che i tuoi genitori se ne fregano di questa noia che provi. Come mai?»
Ed ecco che si incupiva di nuovo, il sorriso spariva, il volto sembrava assumere tratti totalmente diversi.
«Non c'è un motivo ben preciso» si limitò a dire. «Credo che semplicemente si vergognerebbero di me.»
«Tu pensi che dovrebbero?»
Sopracciglia che si aggrottano, sguardo che si perde, un'espressione perplessa. «No. Io non mi vergogno di ciò che sono. Però mi sento vuoto.»
Ogni parola era stata detta quasi scandendola, quasi fosse troppo faticoso ammettere quelle cose. Hester conosceva bene gli adolescenti, il modo in cui dovevano sottostare ad assurde pressioni che li distruggevano dall'interno. Dovevano decidere del loro futuro, spesso avevano genitori da accontentare e correvano di continuo da un corso e un laboratorio all'altro, senza mai fermarsi a riflettere su cosa volessero davvero.
Come, a suo tempo, aveva fatto anche lei.
James, però, era strano. Non sapeva dire con certezza che cosa avesse, ma era come se ci fosse qualcosa di irrisolto, in lui. Qualcosa che sembrava sul procinto di esplodere.
Hester lo osservò attentamente, cercando di interpretare il suo linguaggio non verbale; il ragazzo, adesso, stava fermo. La fissava con quegli occhi stranissimi che lei non aveva potuto fare a meno di notare, sin dal primo istante.
Blu, intensi, profondi come gli abissi più oscuri; spiccavano sul suo volto pallido, dai lineamenti decisi. Erano persi, gli davano un'espressione vagamente malinconica. Ora erano puntati su di lei, come se aspettassero la soluzione a un problema mai davvero sviscerato e analizzato.
Si ritrovò a sentirsi inquieta, sotto quello sguardo che la bruciava come una fiamma fredda, spenta.
«Se vuoi indagare su questa noia che provi, potresti fare una cosa» esordì poi. «Prova a scrivere un breve racconto che sia rappresentativo della tua vita. Dopodiché me lo invierai per e-mail, e la prossima volta lo analizzeremo insieme. Sei disposto a farlo?»
E di nuovo quel sorriso spontaneo e gli occhi che si illuminano all'improvviso, quasi ci fossero due persone dentro quell'unica testa coperta da capelli neri. «Certo. Mi piace scrivere.»
«Allora ci vediamo...» dette un'occhiata alla tabella degli appuntamenti. «... domani, giusto?» disse, rivolgendogli un sorriso cordiale. Sorriso che lui ricambiò, prima di mettersi lo zaino in spalla.
«Sì, esatto. Ho preso due appuntamenti perché ero... curioso, come ho detto.»
«Beh, spero che riusciremo a soddisfare le tue curiosità» replicò lei per tutta risposta, con nonchalance. «A domani, James.»
«A domani, Hester.»
Lo osservò uscire a passo deciso – la camminata sicura del ragazzo più gettonato della scuola – e recarsi probabilmente verso una delle tante lezioni della giornata. Sparì velocemente fra gli studenti che si affrettavano a raggiungere le proprie aule, confondendosi.
Quando fu fuori dalla sua vista, però, Hester si rese conto che fino a quel momento era stata come in apnea.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top