Capitolo 19



Hester credeva che quell'ufficio le sarebbe risultato ben presto familiare quando ci era entrata la prima volta. I corridoi lucidi della Stuyvesant High le erano parsi i corridoi dell'inizio della sua carriera di psicologa relazionale, il caso di James come quello che avrebbe inaugurato un percorso costellato di successi. La dottoressa Duncan era una guida che l'avrebbe portata a dire di poter essere fiera di sé stessa – fiera del percorso che aveva fatto, fiera di essersi liberata dalle catene che le avevano maciullato i polsi fino a quel giorno.

Adesso, invece, tutto si era capovolto in un bizzarro e allucinogeno gioco di specchi.

La dottoressa Duncan sembrava distante anni luce da quello che ora era il suo mondo, fatto di incertezze e pensieri ossessivi. Gli occhi della sua tutor non erano più quelli attenti e vigili di una psicologa esperta, ma apparivano velati da qualcosa di cupo – le occhiaie che li circondavano sembravano più evidenti. Perché non aveva notato quei dettagli, prima? Duncan aveva mai avuto a che fare con pazienti come James?

Le venne da piangere. Non era all'altezza, si stava frammentando; ebbe la netta sensazione, tutto insieme, che la sua psiche non ne sarebbe uscita intatta.

«Dunque, Hester» cominciò la dottoressa Duncan, sistemandosi gli occhiali sul naso e prendendo posto sulla poltrona in pelle marrone. Le lampade da tavolo, dello stesso stile di quelle della biblioteca, facevano riverberare la loro luce alle spalle della sua tutor. Una luce calda, diversa da quella fredda delle lampade al neon.

Da quella fredda degli occhi di James Nichols.

Scacciò quel pensiero con un cenno della testa, sforzandosi di focalizzare l'attenzione sulla dottoressa, mentre commentava i suoi appunti. «Hai preso delle note molto interessanti» fu la prima considerazione che uscì dalle labbra della signora Duncan. «Vedo che sei riuscita subito ad andare alla radice del problema, facendo parlare il paziente della sua famiglia. , e immaginavo che avrei trovato questo. Ma devo complimentarmi con te, sei stata molto precisa.»

Ho avuto anche io in cura James,

anni fa.

«Scusi, come ha detto?» fu la risposta che rotolò via dalle labbra di Hester. «Anche lei ha avuto in cura James Nichols?»

Tra loro aleggiò, solo per un istante, un silenzio intriso di parole non dette. Duncan la squadrò, come se si stesse chiedendo se rivelarle o meno quello che premeva sulla sua lingua. «Sì», disse infine, in un sospiro che la fece apparire improvvisamente stanca. «E, come ho detto, in parte immaginavo di trovare, nei tuoi appunti, quello che hai scritto. James ometteva sempre i dettagli più importanti. Speravo che fosse migliorato, almeno un po'.»

Un senso di allarme si impadronì del corpo di Hester. «Sarebbe a dire?»

Duncan esitò. «Come avrai notato» disse poi, «James è un ragazzo piuttosto particolare

Hester si sentiva come se non riuscisse più ad avere una conversazione normale. «Che significa che lei ha avuto in cura James anni fa? Il ragazzo, a quanto ne so, è arrivato quest'anno, alla Stuyvesant.»

«Sono stata la sua psichiatra, quando è stato ricoverato. Aveva quattordici anni.»

Silenzio.

La frase che la dottoressa Duncan aveva appena detto aveva avuto, sulla mente di Hester, lo stesso effetto di una bomba nucleare. Era come se il suo cervello fosse esploso, come se stesse fluttuando nell'aria in mille piccoli pezzi molli e sanguinolenti.

«Dal momento che adesso è il tuo paziente, sono tenuta a dirti determinate cose. Tutto quello che ti ha detto finora, sulla sua famiglia, sul fatto che si vergognano di lui, è falso

Quella confessione fu un pugno che le disintegrava la faccia; Hester era diventata un manichino inutile, il lavoro che aveva fatto in dieci sedute era andato buttato.

«Che la sua famiglia era disfunzionale era vero, certo. Ho fatto anche terapia familiare, con loro, e sono molto chiusi; soprattutto molto attaccati alle apparenze, in particolar modo la madre. Il padre è un manager di rilievo, ovviamente non faccio nomi. Ma, dall'altro lato, non sono loro la causa di alcuni suoi comportamenti. Cosa hai notato, in particolare, durante le sedute?»

Hester ammutolì.

«Lo so che lo hai già scritto sugli appunti, e come ho detto, sei stata molto precisa. Ma ho bisogno di sentirlo dire da te, di capire come hai vissuto questo paziente» precisò Duncan.

«... Ho notato un tipo di comunicazione molto vago, quasi privo di dettagli, accompagnato da un fascino superficiale» iniziò, e la sua voce suonò più debole di come aveva immaginato. «Ha manifestato un pattern di personalità sadico, ma non ha voluto approfondire, nonostante le mie strategie. In particolare» il discorso le si troncò in gola come un filo che qualcuno aveva tagliato di netto. «Ha fatto riferimento a una ragazza. L'ha aggredita in corridoio, e credo che sia la stessa che ha stuprato alla festa di Halloween. È stato un tema ricorrente, durante gli appuntamenti.»

Duncan, adesso, la guardava. Fu come se, solo in quel momento in cui aveva pronunciato quelle parole, Hester si fosse resa conto di che persona fosse James. Delle cose di cui era capace – cose a cui nessun diciassettenne sano di mente avrebbe mai e poi mai anche solo pensato.

«Ha stuprato una ragazza?»

«Sì» d'un tratto, Hester aveva urgenza di parlare. «Ho avuto in cura anche lei, ed è come se fossero collegati. Inoltre, James mi ha detto che da Halloween la sua ragazza non vuole più avere niente a che fare con lui. E non riesce a ricordarsi il perché.»

Duncan la guardò. Di nuovo quell'espressione consapevole ma indecisa, come se temesse di pronunciare parole troppo difficili da digerire.

«Senti» si allungò verso di lei, squadrandola da dietro i suoi occhiali; sembrò volerle guardare dentro, come per saggiare se fosse abbastanza pronta da sentire quello che le avrebbe detto. «James ha un quadro clinico complesso. Forse è meglio non spingersi più in là di così. In realtà, speravo che non ti capitasse un paziente come quello.»

Quella frase fece scivolare un brivido lungo la spina dorsale di Hester. Che cosa voleva dire la dottoressa Duncan? Era come se non volesse parlare esplicitamente; la giovane seppe subito che James portava, dentro di sé, qualcosa di grosso. Un passato che era onde scure in tempesta, un abisso dal quale era impossibile risalire.

«So che hai capito il perché, Hester. Vedo che c'è qualcosa che ti ha turbata, in quel ragazzo.»

Hester non riuscì a replicare, non aveva senso farlo; la dottoressa aveva già capito ogni cosa.

«Mi è sembrato come se» iniziò. «Come se ci fosse qualcosa di irrisolto, in lui. Una sorta di energia negativa molto forte che voleva venire fuori a tutti i costi, ma che era sempre trattenuta. Come se stesse aspettando il momento opportuno per liberarla.» Si accorse troppo tardi che, forse, aveva esagerato con le parole: detta così, sembrava che James fosse il diavolo sotto mentite spoglie, la personificazione del male che camminava tra la gente comune.

Ma d'altra parte quella non era, forse, una definizione adatta alle persone come lui?


«James è sempre stato il genere di studente di cui nessuno sospetta nulla» rifletté poi, ad alta voce. «Non mi stupirei se avesse fatto qualcosa di orribile, facendo poi ricadere la colpa su qualcun altro. Qualcuno che fosse un bersaglio facile.»

«Fa sempre parte dello spettro narcisistico della personalità?»

Hester sospirò.

«Sì. Se non, addirittura, della psicopatia.»


La dottoressa Duncan non la rassicurò, né assunse un atteggiamento calmo – tranquilla, Hester, è normale. È il tuo primo paziente, è normale essere spaventati.

Quella frase non arrivò mai.

Duncan la guardò con quegli occhi che ora sembravano enormi, e disse: «Forse è meglio se ne parliamo in un posto più... privato. Vieni domani a casa mia, alle 17:00. Penso tu abbia bisogno di sapere.»

Le scrisse l'indirizzo su un foglio e glielo porse, guardandola con occhi che volevano raccontare ogni cosa.

Non era né il luogo né il momento, però.

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