Capitolo 18


Non aveva chiuso occhio per il resto della notte. Aveva svegliato Matthew, perché non appena aveva letto quel biglietto era caduta preda di una crisi d'ansia. Il suo corpo si era accasciato a terra senza che ne avesse davvero la consapevolezza, mentre si passava le mani tra i capelli castani in gesti nervosi. La respirazione le era diventata affannosa, così tanto che ogni boccata d'aria era una sofferenza, un animale che continuava a raschiare lungo il suo esofago.

Si era dimenticata che Noah doveva essere rilasciato proprio in quei giorni. E probabilmente era riuscito a rintracciarla, visto che non aveva cambiato indirizzo da quel giorno. Forse avrebbe dovuto; forse avrebbe fatto meglio a cambiare casa, a evitare di restare intrappolata in quella che era stata la sua gabbia. Si ricordava di quando, ogni volta che andava a guardare la tv lasciandosi alle spalle il tavolo da pranzo, l'immagine di lui che la intrappolava le colpiva la mente. C'era una libreria, dietro il tavolo, e quando l'aveva abbandonata a terra l'aveva lanciata proprio in quel punto. Hester si ricordava del rumore della sua testa contro la superficie in legno, il dolore sordo che era seguito l'attrito.

A volte continuava a vedere la macchia di sangue di quella sera. Si era estesa a un ritmo allucinante sulle piastrelle. Aveva guardato il sangue come se non fosse stato nemmeno il suo, gli occhi che sbattevano incerti – consapevoli solo a metà di ciò che stava accadendo. E ora lui era fuori dal carcere, avrebbe potuto tornare a essere una presenza materiale. Poteva uscire da quella dimensione onirica in cui lo aveva rinchiuso; forse lo aveva già fatto, portandole una scatola con un biglietto sul davanzale mentre lei era al lavoro.

Hester si sentiva furiosa all'idea.

Non poteva permettere a Noah di continuare a infestare la sua vita per sempre – perché era questo che aveva sempre fatto: l'aveva avvolta, condizionandola in tutto e per tutto, durante la loro relazione e anche dopo.

Non si era mai liberata del senso di ansia che le si appiccicava addosso, ogni volta che faceva una cosa sbagliata e lui cambiava completamente espressione – nemmeno dopo, nemmeno quando, tecnicamente, poteva stare tranquilla. Senza che Noah potesse interferire con la sua vita.

In quei due anni era stato lontano da lei, intrappolato dietro le sbarre di una cella, ma Hester non aveva mai smesso di mettere in pratica le abitudini che aveva preso quando vivevano insieme. Aveva continuato ad apparecchiare come voleva lui, anche se non poteva vederla. A evitare di mangiare sul divano, perché quello lo poteva fare solo lui. A uscire poco, se non con amici che avevano in comune, perché a lui non piaceva che lei uscisse con gente che non conosceva. Era riuscita a conservare il rapporto solo con Matt, a cui peraltro Noah non era mai piaciuto.

A Noah, in generale, non piaceva che Hester avesse uno spazio personale che fosse solo suo, nella loro relazione. La rabbia per la consapevolezza che l'avesse irrimediabilmente cambiata sembrò incendiarle tutto il corpo.

Cercò il suo numero in rubrica con movimenti quasi meccanici. Doveva sentire la sua voce, così avrebbe chiuso quella questione una volta per tutte. Magari si sarebbe allontanata anche dagli amici in comune. Avrebbe rivoluzionato tutto.

«Hester» la sua voce era profonda e vellutata, come sempre. Ingannevole, perché sembrava carica di emozioni – emozioni che seppellivano solo una martellante mania di controllo. «Va tutto bene?»

Una domanda così fuori luogo, così senza senso. Come il suo essere, fatto di contraddizioni.

«È meglio se ammetti subito che sei stato tu a farlo» sibilò la psicologa, il cuore che le batteva ferocemente nel petto.

«Fare cosa?»

«Noah, è finita. Ho visto la scatola che hai portato in casa, e poi il biglietto, e la frase di Nietzsche – tu sai che adoro Nietzsche! Puoi essere stato solo tu. Quindi...»

«No, aspetta, Hester» le parlò sopra lui, facendola zittire. «Quale scatola? Quale biglietto?»

«Smettila. Mi stai facendo incazzare sul serio. Come ti è venuto in mente di venire qui, in piena notte?» lo aggredì lei, mentre indossava freneticamente la giacca, il cellulare impostato su vivavoce lanciato sulla consolle all'ingresso. Lo specchio le restituiva l'immagine del suo volto torvo, le sopracciglia aggrottate, i capelli castani e lucidi che, per quanto li avesse pettinati, erano ancora elettrici.

«Hester, non so più come dirtelo» la voce di Noah era piatta, adesso. «Non so di cosa stai parlando.»

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