Capitolo 13
La mattinata era passata stranamente in fretta, fino ad arrivare al primo pomeriggio. Hester avvertiva una sensazione strana: come se le ore fossero trascorse rapidamente, e come se allo stesso tempo fossero dilatate. Qualcosa iniziò ad agitarsi nel suo stomaco: adesso aveva la seduta con James.
Riportò alla mente i dettagli dell'appuntamento con Aileen, recuperando il foglio del taccuino su cui si era annotata alcune cose che l'avevano colpita: la storia di Konrad, il modo in cui la ragazza aveva collegato all'autore dello stupro le sensazioni che aveva provato con lui.
A James.
Perché Hester era sicura che quel James di cui Aileen aveva parlato fosse lui. Doveva solo spingerlo a confessare, a buttare fuori quel gesto di potere orrendo che aveva commesso. Ad ammetterlo, così come aveva ammesso, nel giro di poco tempo, i suoi pensieri sadici.
E chissà che cos'altro ha fatto.
Scacciò quel pensiero come si scaccia un insetto fastidioso. Eppure, il collegamento era evidente: c'erano troppi pochi elementi per diagnosticare a James la stessa personalità che aveva Konrad, ma era chiaro che entrambi fossero sadici, privi di empatia.
Lui ha qualcosa che mi ricorda Konrad.
«Ciao», quando James entrò nello studio la salutò con quel suo modo di fare educato, un sorriso perfetto – un sorriso affabile – sul suo volto squadrato. Sembrava quasi dolce, lo aveva notato più volte: nessuno, in effetti, avrebbe mai sospettato di quello che nascondeva. Tuttora, Hester aveva la convinzione che neanche lei lo sapesse fino in fondo – forse, nemmeno lui stesso.
«Ciao», lo ricambiò. «Come va?»
«Bene» fece lui, per tutta risposta. «Ho preso una A al test di biologia. A quanto pare sono bravo con la dissezione delle rane» disse, con disinvoltura.
«Considerato che vuoi studiare medicina, mi sembra una gran cosa.»
«Già, sono soddisfatto di me stesso» sorrise, assumendo un'aria fiera. Hester si chiese se non avesse fatto anche con Aileen quello che faceva nell'aula di biologia.
Mi ha fatto del male, e a me piaceva.
Mi sentivo compresa. Come se avessi trovato la mia metà mancante.
In ogni caso, doveva andare con ordine. E lui non avrebbe dovuto, in nessun modo, capire che lei stava cercando di tirargli fuori qualcosa.
«Hai più parlato con Aileen?»
Il suo volto cambiò espressione. «Sì. Ho lasciato Savannah. Cioè, lei ha lasciato me.»
Aveva divagato, esattamente come lei si era aspettata che facesse. La sua mente analitica andò subito a una drastica conclusione: l'idea che si era fatta aveva possibilità concrete di essere reale.
«Come mai? Le hai parlato di lei?»
«In realtà mi ha lasciato per messaggio. Non so per quale motivo» le pareti dello studio le sembrarono, per un attimo, soffocanti. Non che quell'ufficio di pochi metri quadri fosse mai stato chissà quanto accogliente, ma adesso a Hester sembrava di stare compressa in una scatola.
Una scatola troppo stretta che le si accartocciava intorno, spappolando il suo corpo tra le pareti. Era dentro la sua gabbia toracica, mentre le estremità venivano spaccate e compresse.
«In che senso?» si costrinse a chiedergli.
«Il fatto è che dev'essere successo qualcosa, ma non mi ricordo cosa. È come se la mia mente lo avesse rimosso» ammise. Sollevò gli occhi azzurri al soffitto, sovrappensiero – come se cercasse frammenti di quel ricordo tra le crepe che c'erano in alto, tra i tomi che troneggiavano negli angoli più alti della libreria. O forse era solo un gesto per prendere il tempo sufficiente ad architettare una risposta logica, Hester non poteva saperlo. «Ma ricordo che Savannah si era spaventata per qualcosa.»
Silenzio. Si aspettava che proseguisse con il discorso; forse era in procinto di dire qualcosa di importante. Difficile, per il momento, inquadrarlo: aveva tratti che sembravano narcisistici, ma era comunque presto per fare una diagnosi. In cuor suo, in realtà, Hester sperava davvero di sbagliarsi.
«Come ti fa sentire questo?»
«Cosa?» fu la risposta di James, che la guardò con occhi ingenui – come se nemmeno avesse capito l'oggetto della questione.
«Il fatto che Savannah abbia provato paura in tua presenza.»
Quella domanda parve coglierlo alla sprovvista; vide, nel suo sguardo, che non sapeva cosa rispondere.
«Non saprei» disse, dopo una manciata di secondi. «Non lo ricordo.» E il suo viso aveva già assunto un'altra espressione. Sembrava di gesso, come se qualcosa, in lui, si fosse congelato.
«Se fosse andata così, come ti sentiresti?»
James la guardò come se volesse capire cosa le passava nella testa. I suoi occhi azzurri la colpirono quasi fossero coltelli, e subito le venne in mente Noah quando, quella sera, l'aveva mandata all'ospedale. La sensazione di aver già visto quell'espressione le restò nella testa come qualcosa da cui non poteva liberarsi. Come se quel ragazzo risvegliasse in lei tutto ciò che era sepolto nella sua memoria, rovi appuntiti che aspettavano solo di trapassarla da parte a parte.
«In fondo la paura fa sì che la gente ti rispetti, no? Quindi, in realtà, non mi dispiace la cosa.»
Silenzio.
«Te l'ho detto, mi sento spesso arrabbiato» concluse, fissandola intensamente. «Non posso tenermi sempre questa rabbia dentro. È dolorosa, dopo un po'.»
*
«Com'è andata oggi?» le chiese Matthew, quella sera, al loro ristorante preferito. Non aveva voluto sentire ragioni: le aveva scritto a fine giornata solo perché era da una vita che non si sentivano, ma poi aveva improvvisato una cena. Una delle solite cose da Matthew, aveva pensato lei.
«Tutto sommato, bene» gli rispose, tagliando la sua fetta di carne e infilandosi un pezzetto in bocca. «Sto andando avanti con le sedute con James, un ragazzo molto particolare.»
«Particolare in che senso?» sul volto di Matthew comparve un sorrisetto perplesso.
Hester avvertì di nuovo quella sensazione che le si era appiccicata addosso mentre ascoltava la voce del suo paziente, giovane e fredda allo stesso tempo. Gli occhi verdi si persero nel vuoto; con la mente, stava tornando a quel momento.
«Particolare nel senso che sembra, a prima vista, un normale ragazzo depresso... ma c'è qualcosa che mi dice che c'è di più, anche se non so dirti bene cosa.» La sua stessa voce si era incupita, mentre parlava. Per un momento si diede della stupida: non doveva farsi condizionare. Era la prima regola che avrebbe dovuto rispettare.
Aileen con i suoi occhi persi, James che descrive la sua rabbia, le braccia esili di quella ragazza che si stringono attorno allo zainetto per non stringersi attorno a sé stessa. Un gesto protettivo, infantile quasi, un gesto che cerca di coccolare una psiche ormai incrinata per sempre. «È un caso molto cupo, ecco» ammise infine.
«Se la situazione dovesse sfuggire di mano, sai che puoi contare su di me, giusto?» le disse lui, guardandola dolcemente.
Anche se fosse, non potrei comunque raccontartelo, pensò. Il segreto professionale le avrebbe impedito di dire a chiunque gli argomenti delle sedute. Se si fosse concretizzata quella situazione – e lei non voleva pensarci – non avrebbe comunque potuto sfogare del tutto il suo malessere.
Preferì comunque non dirlo a Matthew, e rispose solo un: «Certo che lo so.»
Gli sorrise, grata di averlo nella sua vita. A volte le ombre sembravano inghiottirla del tutto, ma quando succedeva lui era sempre lì, a scacciarle via.
«Come va con Robert?» cambiò argomento, ansiosa di sapere come stesse andando la convivenza del suo migliore amico con quello che era il suo fidanzato da due anni.
«Oh», si illuminò lui. «Molto bene. Meglio di quanto immaginassi. All'inizio lo vedevo un po' restio, ma poi tutto è filato liscio. Adesso è come se vivessimo insieme da sempre» Matthew assumeva sempre un'aria quasi sognante, mentre parlava di Robert.
Si erano conosciuti per caso, anni prima. A volte Hester pensava che fosse davvero strano il modo in cui le persone si incontravano e si innamoravano a New York. C'era qualcosa di magico nel vedere come certe casualità stravolgevano la vita. Al posto che liquefarsi nello sciame di persone che correvano per le strade, sempre troppo prese dai loro impegni e dal lavoro, succedeva che si incontrava qualcuno di speciale. Come era successo a Matthew, come era successo a Robert, e come non era ancora successo a lei.
Da quando Noah se n'era andato – da quando le aveva frantumato le costole per poi lasciarla in quella casa, senza neanche degnarsi di portarla in ospedale – tutto sembrava aver perso colore.
Paradossalmente, spesso pensava che si fosse sentita più viva lì, in quell'attimo in cui tutto era diventato sfocato, che adesso. Andava avanti per inerzia, perché non poteva che fare così.
Perché non poteva tornare indietro.
Noah era finito in prigione, poi; ricordava che se n'era andato, mentre lei sentiva che stava diventando inconsistente sul pavimento. Qualche vicino – non ricordava chi, era tutto confuso – aveva chiamato la polizia e poi era arrivata un'ambulanza. Anche adesso rivedeva quella scena continuamente, immagini che le fluttuavano davanti senza avere un contorno. Erano lì, però, a ribadirle che tutto quello era successo davvero.
Mentre lei era in ospedale, scorrendo le notizie sui social, aveva visto decine di commenti di persone che stavano dalla sua parte. Commenti che esprimevano solidarietà verso di lei e rabbia verso di lui, e che però aveva avvertito come voci estranee che gridavano da lontano.
Era libera, dicevano.
Ma Hester non si era sentita così.
«Sono davvero contenta per te, Matthew» disse, sorridendo al suo migliore amico. I ricordi le stavano infestando la mente e lei non poteva farci nulla. Poteva solo aggrapparsi agli affetti che aveva, lottando per non soccombere.
«Anche tu ti meriti qualcuno che ti stia accanto» allungò un braccio sul tavolo e le strinse la mano. «Dico davvero.»
Hester sospirò: i pensieri si stavano facendo confusi, si accavallavano uno sopra l'altro. «Forse non sono ancora pronta, sai?» disse sovrappensiero.
«Lo so» disse Matthew, con pazienza. «Ma te lo meriti.»
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