Capitolo 12






Atto secondo

Hester












12.




Hester aveva fatto colazione con un brutto presentimento, quella mattina. L'uovo con il bacon che si era preparata, perdendosi nell'odore dolciastro emanato dalla padella, era sembrato d'un tratto sbagliato. Forse era per via del fatto che era martedì, e il martedì aveva sempre la seduta con James. L'ultimo dialogo che avevano avuto l'aveva turbata. La sensazione che quel ragazzo non dicesse del tutto la verità si acuiva ogni secondo che passava. Cercava di reprimere il motivo per cui le risultava così insopportabile parlare con lui.

Sapeva quale fosse, ma non poteva certo annullare le sedute con un paziente a causa di episodi di vita personali.



«Sai che non volevo farti del male, quella sera, vero?» La voce di Noah le sembrò così dispiaciuta che se la sentì nel cuore, come se la tristezza che esprimeva fosse anche la sua.

«Lo so.»

Le sarebbe piaciuto trovare una spiegazione al perché continuasse ad andare da lui – perché andasse a trovarlo in carcere, perché andasse a parlarci. Non lo aveva mai detto a nessuno, nemmeno a Matthew – il suo migliore amico – e nemmeno al signor Mason, il suo terapeuta. Se ne vergognava troppo.

Preferiva fingere che quel frammento della sua vita non esistesse, come se a parlare con Noah ci andasse sempre qualcun altro.

«Ti amo» gli disse, mantenendo gli occhi verdi su di lui. Era bello, anche se era trasandato. Gli occhi blu e i riccioli neri gli davano la stessa aria misteriosa che l'aveva affascinata sin dal primo istante, anche se aveva le occhiaie e i capelli erano unti e scompigliati.

Fingeva di non ricordare l'espressione che aveva mentre comprimeva la sua gabbia toracica tenendola ai lati, come fosse una lattina da lanciare nel primo cestino sotto tiro. Una bottiglia di plastica accartocciata e poi buttata in un angolo a caso.

«Anche io» disse lui.

Che sapore avevano quelle parole? Neutro? Dolce? Vuoto?

Forse tutte e tre le cose. Le venne da pensare che il modo in cui lei si occupava di problemi relazionali negli adolescenti aveva qualcosa di ridicolo – di grottesco. Lei stessa era ridicola; passava le giornate a dispensare consigli, quando era l'ultima persona a potersi permettere di farlo.

Per questo evitava di pensare, perché pensare l'avrebbe portata all'autodistruzione.



Non poteva certo dire alla dottoressa Duncan che avrebbe voluto troncare le sedute con James perché le ricordava il suo ex violento. Avrebbe voluto dire riportare in superficie episodi della sua vita che crollava a pezzi, infrangere l'immagine della giovane psicologa pronta a fare carriera. Non sarebbe stato professionale, da parte sua. Doveva venire a capo del caso di James Nichols, continuare a indagare sul rapporto tra lui e quella ragazza di cui le aveva parlato; doveva resistere, anche se era palese che la stessa presenza di quel paziente la turbasse.

Mentre si preparava, rifletté sul fatto che sarebbe stato l'ultimo della mattinata: avrebbe avuto il tempo di pensarci, di studiare le domande da fargli. Eppure, era come se qualcosa continuasse a sfuggirle, ogni singola volta – e come se, invece, dal lato di lui ci fosse il controllo totale. La cosa la faceva sentire confusa, smarrita.

Pregò che non si fosse accorto di tutte le sensazioni che provava quando le parlava, o quando le faceva delle domande – quando la guardava.

Buttò un occhio allo specchio, prima di uscire. Fissò la sua immagine, perfetta e tormentata allo stesso tempo. Raccolse i capelli in una coda di cavallo per mettere più in mostra il viso – per avere un'aria diversa, forse. Più decisa, professionale; lo specchio, però, le restituì solamente una fotografia più enfatizzata dei suoi occhi tristi – gli occhi di chi voleva essere a posto senza riuscirci.

Probabilmente James l'aveva già capito.

Il solo pensiero le faceva correre un brivido freddo lungo la schiena.




*





«Buongiorno, sono Aileen Clark.»

La ragazza che pronunciò quella frase aveva i capelli di un biondo scuro, un po' disordinati. Le ciocche si impigliavano nelle bretelle dello zaino rosa.

«Ciao. Puoi chiamarmi Hester, se vuoi» Una frase che aveva già ripetuto decine di volte.

«Va bene.»

La ragazza la guardò in un modo che le ricordò James: vuoto e guardingo allo stesso tempo. Sicuramente aveva uno sguardo triste. Hester la osservò attentamente: indossava una camicetta bianca e una collana con un ciondolo scintillante.

Una ragazza sulla quale i genitori gettano troppe pressioni, cucendo un ideale di perfezione che in realtà non esiste.

«Parlami della tua vita, Aileen» la esortò, pronta a ricevere informazioni che, nella testa, si aspettava.

Quella semplice frase sembrò metterla in difficoltà.

«Sono qui perché sono stata stuprata» sputò fuori. «Alla festa di Halloween» e la voce le si incrinò, il corpo irrigidito.

Hester rimase sorpresa da quell'improvvisa confessione – dalla facilità con cui Aileen aveva snocciolato il motivo per cui si era presentata alla seduta.

«Non ti chiedo di farmi il suo nome per forza» la incalzò. «Ma puoi denunciarlo, lo sai?»

Aileen scosse la testa come se la sola idea le sembrasse insopportabile. Hester non fu sorpresa da quella reazione, ma l'insieme le suscitò comunque una stretta dolorosa al petto.

«È che lo amo» disse, con la voce abbassata, venata di una distante follia. «Ha riaperto una porta all'interno della mia testa che doveva restare chiusa.»

Hester si sporse leggermente verso di lei. Quella situazione non prometteva bene. «Parlamene, se vuoi. Non ti obbligo, comunque.»

Aileen la guardò con occhi tristi e carichi di gratitudine. Erano celesti, quegli occhi, lo specchio di tutte le sue angosce. «Grazie.»

Trascorse qualche secondo di silenzio, poi proseguì. «Tempo fa ho avuto una specie di rapporto con un ragazzo più grande. Si chiamava Konrad. Era un paziente di mio padre.»

Hester attese.

«Mio padre è uno psichiatra» precisò Aileen. «Anni fa aveva iniziato a ricevere i pazienti in casa, perché diceva che un ambiente informale li avrebbe fatti sentire più a loro agio. È così che ho conosciuto lui. Aveva il disturbo antisociale di personalità.»

Silenzio. Quella confessione – il modo in cui lo aveva detto, o forse l'espressione che aveva assunto, persa nel ricordo – l'aveva raggelata. Una parte di lei fu tentata di non sentire il proseguimento della storia che, con ogni probabilità, Aileen aveva da raccontare.

«Mi ha fatto del male, e a me piaceva.»

La psicologa non seppe da dove cominciare. Se quello che stava dicendo era vero, Aileen aveva sperimentato una relazione con una persona molto pericolosa. Lei non aveva mai avuto un contatto diretto con un antisociale, ma si ricordava bene i video che aveva visto a lezione di psichiatria, quando era stato approfondito l'argomento. Ricordava il male che aveva visto negli occhi di quei pazienti. Alcuni erano di bell'aspetto, ma tutti sembravano avere qualcosa di sbagliato, nello sguardo, un vuoto senso di grandiosità che trapelava senza alcuna vergogna. Non osò immaginare che cosa quel ragazzo – Konrad – facesse. Sicuramente aveva scheggiato la psiche di Aileen, che non aveva mai rielaborato quell'esperienza.

Restò per una manciata di secondi a guardare la sua paziente, poi optò per la domanda più diretta che potesse fare – e anche quella che le avrebbe permesso di capire meglio le dinamiche relazionali di quel rapporto.

«Quale parte di questa situazione ti piaceva, in particolare?»

Aileen la guardò atterrita. Era evidente che non ci avesse mai pensato. «Mi sentivo compresa. Come se avessi trovato la mia metà mancante. E sembra essere la stessa cosa anche con questo ragazzo. Lui ha qualcosa che mi ricorda Konrad.»

Era un classico, la tipica relazione malata fondata sull'interazione tra un elemento sadico e uno masochista; eppure, quelle parole ebbero su Hester lo stesso effetto di una pugnalata. C'era qualcosa di profondamente lugubre, in quello che aveva detto Aileen – sia nel contenuto, sia per come l'aveva pronunciato. Forse erano i suoi occhi che ora si abbassavano, ora si fermavano davanti a sé, in un punto vuoto. Un angosciante sospetto cominciò a strisciare nello stomaco di Hester.

James.

Era lui ad aver fatto tutto ciò? Lui ad averla stuprata, lui ad aver riaperto quella finestra sull'angolo buio?

Non poteva dirlo con certezza ma, come fossero stati fulmini, le parole che aveva detto su Aileen le colpirono il cervello.

«La paura che aveva di me era percepibile nell'aria. Era... Elettrica.»

Si sentiva la gola secca. Deglutì, avvertendo la saliva che andava giù come l'artiglio di un animale che le raschiava la carne. Fu in procinto di chiedere ad Aileen se la sua ipotesi fosse vera, ma sapeva benissimo che non poteva farlo – avrebbe violato il codice deontologico, altrimenti.

Forse era solo l'ossessione per James che le stava facendo strani scherzi. Perché non poteva nasconderlo a sé stessa, quel ragazzo le era entrato nella testa sin dal primo istante come era successo con Noah. Il contesto era diverso, certo. Noah era stato carino, all'inizio. Si erano conosciuti per caso, e lui le era sembrata la persona più intelligente e premurosa esistente. La portava a fare passeggiate a Long Island, perché diceva di amare quel posto e di amare la quiete che vi si respirava. Andavano a bere qualcosa insieme nei locali più carini di New York, e si sentiva trattata come una regina. La loro storia era stato un susseguirsi di diapositive sconnesse, attimi di felicità effimera che sembrava impossibile alternati al buio più opprimente. Alternati al fatto che, se si arrabbiava, gli occhi di Noah diventavano ghiacciati e facevano male più di quello che le diceva. Le gettava addosso la scarsa considerazione che aveva di sé, incolpandola come se ne fosse l'artefice. La trascinava nelle sue tempeste emotive, nel suo mondo fatto di emozioni altalenanti.

Era stato comunque troppo tardi quando si era resa conto che Noah si nutriva delle sue lacrime – le lacrime che versava come se non lo avesse mai fatto in vita sua – della sua sofferenza, del disperato bisogno che aveva di lui. Quel bisogno che si era preso ingannandola con parole vuote a cui lei aveva creduto.

Poi era arrivata quella sera e il dolore di quella relazione le si era abbattuto addosso.

«Vorrei solo assecondare questo lato di me stessa, senza avere paura di farlo» la voce di Aileen interruppe quelle riflessioni.

«Cosa vorrebbe fare quella parte di te?»

«Spingersi al limite. Anzi, capire che cos'è davvero, un limite. Ne ho sempre avuti troppi. Konrad sembrava non averne, ed era questo che mi piaceva di lui. Ma non posso farlo.»

«Cosa ti frena?» prese il taccuino, pronta a segnarsi qualcosa. In realtà, capì da subito che aveva fatto quel gesto solo per prendere tempo.

«La paura che Konrad mi voglia uccidere.»

«Perché dovrebbe?»

La ragazza rimase in silenzio.

«Non lo so» nell'istante in cui lo disse, Hester capì immediatamente che non era vero. «Ma non posso morire. James starebbe male, altrimenti.»

L'ultima frase le fece balzare il cuore in petto.

«Il ragazzo che ti ha stuprata si chiama James?» chiese, cercando di mantenere la voce ferma.

Aileen giocherellò con i lacci dello zaino rosa – se l'era messo in grembo, come fosse un cucciolo di cui era gelosa.

«Sì», disse. 

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