Capitolo 10
«Allora, James, come va?»
Si trovava di nuovo in quella stanza che ora gli sembrava soffocante – ed era solo la terza volta che ci andava. Era successo tutto in modo troppo rapido, come se andasse periodicamente a parlare con Hester da molto più tempo e come se vederla stesse diventando pesante, qualcosa che lui non riusciva a sopportare. L'idea di raccontarle ancora di Aileen lo faceva sentire angosciato. Soprattutto per via di ciò che aveva provato – e per via delle immagini, di quel qualcosa che sembrava mancare all'interno dei suoi ricordi, come fosse stato cancellato. La prospettiva di raccontare delle immagini lo faceva andare in uno stato di allarme.
Non era tenuto a farlo per forza, giusto? Non integralmente, almeno. Poteva selezionare le informazioni da dire, riuscendo comunque a ottenere le risposte che gli interessavano.
«Bene, direi» esordì allora, con un sorriso smagliante. «Ho parlato con quella ragazza a cui avevo accennato la volta scorsa. Mi sono scusato con lei per essermi approcciato nel modo sbagliato.»
Aveva la netta sensazione che James stesse mentendo. I suoi occhi blu erano vuoti; non che non lo fossero mai stati – due biglie di vetro puntate su di lei. Vigili e attenti, e al tempo stesso persi in ricordi che ancora non erano affiorati in superficie.
Ma stavolta era diverso: la sua voce aveva un altro tono, rispetto a quello che aveva assunto quando aveva raccontato per la prima volta di quella ragazza. Era come costruito, leggero, travestito di una serenità che era soltanto apparente. Hester lo percepì come si percepisce una nuvola temporalesca da cui scaturirà un fulmine: un senso di allarme si impadronì di lei.
«E lei che ha detto?» chiese, nascondendo tutti i suoi dubbi dietro un tono neutro.
«Beh, non è ovvio?» fece James, incalzante. «Ha reagito bene. Ci siamo fermati a parlare. All'inizio era un po' in soggezione, ovviamente, ma non ha respinto le mie scuse. Anzi, poi abbiamo passeggiato un po' e si è sciolta molto di più.»
Frasi superficiali, prive di dettagli, buttate lì per illudere. Come una lastra di ghiaccio che nasconde sotto di sé gli abissi più oscuri. Non stava approfondendo, non aveva neanche risposto alla sua domanda, in realtà. Decise di non insistere, in ogni caso: avrebbe fatto solo peggio.
Si sentiva distratto, i pensieri gli vorticavano nella testa senza trovare fine. Gli occhi di Aileen, la sensazione di averli già visti e quel ricordo della festa che non riusciva ad afferrare era come un animale furioso, come un altro sé chiuso in una gabbia che stava gridando. Se lo sentiva impresso sulla pelle, nella mente. Si agitava, era qualcosa che vuole essere visto senza riuscire a farsi notare davvero. Come se ci fosse stata una lastra di vetro nel mezzo che ne insonorizzava le urla.
«C'è una connessione, con questa lei – si chiama Aileen – che non ho mai avvertito con nessuno.» Fece una pausa, poi proseguì. «È qualcosa di davvero troppo forte per essere ignorato.»
Adesso tutto, nella sua testa, aveva perfettamente senso.
Le frasi che aveva appena pronunciato le sarebbero sembrate dolci – le tipiche frasi da adolescente innamorato – se solo non le avesse dette con quel tono freddo. La bocca era rimasta una linea piatta, gli occhi persi. C'era stato l'accenno di un bagliore sul suo volto pallido, come la scintilla di un'espressione sognante. Se n'era andata subito, però, come una stella cadente che passa nel cielo e poi svanisce nel nulla.
Hester annotò velocemente quel nome – Aileen – sul suo taccuino; era importante, qualcosa che sarebbe venuto fuori nelle prossime sedute. La sensazione che James nascondesse qualcosa c'era sempre stata, in realtà, ma quando parlava di quella ragazza si acuiva ancora di più. «James» lo chiamò.
«Sì?»
«Come pensi di fare con Savannah?»
«In che senso?»
«Beh», accennò un sorriso. «Se senti una connessione così forte con Aileen, suppongo tu voglia troncare la relazione con Savannah.»
Aveva pronunciato quella frase volutamente, perché in base alla risposta si sarebbero confermati o smentiti i sospetti che cominciava ad avere.
Scarsa empatia, scrisse sul taccuino, avendo cura di far sì che James non intravedesse nulla.
«Non ha nulla a che vedere con il fatto di stare insieme o meno» il tono del ragazzo si era abbassato di colpo; nella sua voce, adesso, vibrava qualcosa di oscuro che Hester non seppe descrivere né inquadrare subito. «Il fatto di avere una relazione è una cosa imposta dalla società. Mi sembra strano che tu non l'abbia mai notato: da psicologa dovresti pensarla al mio stesso modo, no?»
«Se ti riferisci al fatto che molte persone si accontentano pur di non restare sole, sì, sono d'accordo» rispose, cercando di mantenere un atteggiamento naturale. «Ma tu cosa intendi?»
«Intendo dire che Savannah è una persona che mi tengo accanto perché mi serve.»
Adesso aveva capito. Tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento, la maschera che aveva costruito, non aveva senso. Non serviva a niente. Era appunto solo una maschera, una finzione.
«Perché credi che stiamo insieme?» incalzò, fissando la psicologa negli occhi. «Pensaci: Savannah è la ragazza più popolare di tutta la scuola, è bellissima e gentile. Mi serve per non sentirmi come mi sento costantemente.»
«E come ti senti costantemente?»
Ma perché non la finiva con le domande? Piovevano come una cascata di proiettili che lui voleva schivare, perché lo avrebbero rallentato e basta e lo sapeva.
Gli occhi chiari di Aileen, le luci verdi della festa, quel corpo gracile dentro la sua morsa e sotto le sue unghie che lo graffiavano.
Era quello, il ricordo.
Quel ricordo che non voleva raccontare, che gli vorticava in testa da giorni, che non gli dava tregua. Era quell'immagine a mancargli, l'immagine di lui che si era incastrato con lei, senza che la ragazza potesse fare nulla. E quel senso di potere che sembrava così nuovo, ma così familiare allo stesso tempo.
Ricordava che, col pensiero, era andato ai segni che le sarebbero rimasti il giorno dopo, e un sorriso gli era spuntato prepotente. I sospiri di Aileen erano stati musica nelle sue orecchie – sospiri di una creatura in prigione, consapevole di non potersi liberare se non con l'autorizzazione del suo carceriere.
Gli stessi che ha fatto anche Savannah, quando...
«Arrabbiato. Vuoto.»
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