Un Natale da ricordare: una novella de Il Ladro
Firenze, 1468
Il Natale era una delle festività predilette di Neri: il gaio scampanare di Santa Maria del Fiore che si levava sopra i tetti imbiancati, le compagnie festose per le strade, le risa dei bambini e gli sghignazzi dei signorotti alticci, che a tavola indulgevano in un bicchiere o due in più del solito... Un'occasione imperdibile per chi, come lui, possedeva una buona dose d'iniziativa e una prodigiosa destrezza di mano.
L'abbinamento dell'ebbrezza di inavveduti signori danarosi e del bailamme della calca alla messa della Vigilia era meglio della mostarda col pecorino! E Neri ne pregustava già il sapore, strofinando i palmi intorpiditi contro le braghe sdrucite e troppo larghe per le sue gambe secche e spigolose, ma con tasche abbastanza capienti e robuste da accogliere comodamente monete e preziosi monili, del cui peso avrebbe alleggerito le cintole degli eleganti messeri e le bianche mani delle madonne – proprio mentre il coro intonava il pezzo forte della funzione.
Solo un attimo di distrazione, e sarebbe stato persino capace di sfilare il piscatorio dall'anulare destro del Papa!
Nondimeno, mancavano ancora due ore all'inizio della liturgia, e alla scorpacciata che l'avrebbe certamente seguita. Il bubbolio riottoso delle sue viscere rifletteva il disappunto di Neri, che non mandava giù un pasto decente da... Non ricordava neanche da quando!
Invidiava chi poteva permettersi di mettere in tavola qualche oncia di pane fresco e una caraffa di vino, o addirittura della carne – invidiava chi aveva anche solo un tetto sopra la testa! Non osava nemmeno vagheggiare i sontuosi e raffinati banchetti dei patrizi, con più portate di quante i loro ventri rigonfi esigessero; mentre i plebei campavano di resti stantii e di speranza, tendendo la mano verso i magnanimi nobili fiorentini in attesa di carità, e ricevendo in cambio una sberla.
Non lui. Lui aveva smesso di credere nello spirito del Natale e nella generosità del prossimo; ancor prima di rimanere orfano, ancor prima di smettere d'esser bambino.
Neri aspettava, saltellando da un piede all'altro nella neve per tenere a bada il freddo pungente, circondato da piccole abitazioni sbilenche, glassate come casette di pan di spezie. Alcune ciocche della sua zazzera paglierina si erano addirittura fatte rigide come la coda d'un gatto curioso.
Un fischiettio sinistro lo raggiunse dall'estremità opposta della spoglia viuzza, danzando nell'aria fino alle sue orecchie arrossate, facendogli sgranare gli occhi color ardesia per penetrare le tenebre.
Un giovane alto con uno sguardo smeraldino – uno sguardo truce e scaltro da lestofante – lo avvicinò con passo leggero, quasi quanto i candidi fiocchi che scendevano silenziosi dal cielo.
«Allora?» fece quello con un cenno del mento verso Neri.
«Allora, mi domandi? Se tardavi un altro po' trovavi una statua di ghiaccio!»
«Macché! Non fa così freddo, è che sei tutto pelle e ossa. Devi metter su un po' di lardo, Neri. Sei tanto rinsecchito da schifar persino le femmine da conio!»
«Credi a me, Gittato, digeriscono ben altro quelle là» sbuffò il ragazzo schioccando la lingua. «E se anche avessi un soldo da cacciarmi in un occhio, lo spenderei per mangiare, non per infilarmi tra le cosce di una puttana sciolta.»
«Ne hai di strada da fare per diventare uomo, amico mio!» esclamò l'altro dandogli una pacca sulla spalla. «Guardati, sedici anni e non hai nemmeno un pelo sul mento. Potresti passare per una giovinetta!» sghignazzò.
«Ridi, ridi pure, amico mio» si finse minaccioso Neri. Scherzavano spesso a quel modo, ma lui non s'illudeva – erano soci, niente di più, e ciascuno avrebbe fatto bene a guardarsi le spalle senza affidarsi troppo all'altro.
«Gnàmo va» affermò Gittato incamminandosi.
Nonostante l'inverno affondasse i suoi artigli invisibili in ogni centimetro di pelle esposta all'aria della notte, i due giovani si imbatterono lungo la strada in piccole combriccole di mendicanti – o di impenitenti furfanti come loro – riunitesi per celebrare in compagnia il semplice fatto di aver visto un altro Natale. Ramoscelli e qualche ceppo d'abete sottratto qua e là bruciavano lentamente nella neve, producendo una fiammella modesta, ma sufficiente a rallegrare gli animi di quelli raccolti intorno al misero falò.
Certo, niente a che vedere coi grossi ceppi che scoppiettavano nei camini dei più fortunati, accompagnati dai tradizionali doni per i bimbi, che bendati e trepidanti recitavano:
Ave Maria del Ceppo,
Angelo benedetto!
L'Angelo mi rispose
Ceppo mio bello, portami tante cose!
Neri non aveva mai osservato quella consuetudine natalizia, non aveva mai ricevuto doni da nessuno. E dunque era più che legittimato a pareggiare i conti con la Provvidenza e a prendersi ciò che gli era sempre stato negato.
«Passiamo di qua» disse Gittato, dandogli un colpo di gomito per attirare la sua attenzione.
Neri lo seguì a passo svelto, troppo concentrato sul tremore che gli scuoteva le ossa per indagare sulla ragione di quel cambio di rotta. «Che fai ora?» domandò spazientito, vedendo l'altro fermo sotto uno degli alti cipressi che facevano la guardia alla residenza dei Medici.
In quel punto erano esposti alla vista delle guardie di stanza nella loggia che abbracciava il cortile interno dell'edificio, e l'ultima cosa che Neri desiderava era attirare la loro curiosità. «Il Duomo è per di qua!» disse a guisa di sprone.
Ma Gittato non accennava a muoversi, lo sguardo calcolatore fisso sulle mura dell'imponente e solenne edificio di fronte a lui. «Vieni, ti mostro una cosa» mormorò afferrandogli una manica e trascinandolo via.
Lo condusse lungo un lato del perimetro, arrestandosi davanti a un punto della facciata. «Ecco.»
Gli occhi di Neri esplorarono la parete. «Cosa dovrei vedere, esattamente?»
«Proprio lì» gli indicò l'altro ragazzo, impaziente.
Subito gli fu tutto chiaro come il giorno: quello che Gittato voleva mostrargli, le implicazioni in quel semplice gesto della mano tesa verso la villa.
«No. No, no, e ancora no!» esclamò Neri scuotendo la testa con vigore.
«Possiamo entrare e uscire senza che se n'accorgano» affermò Gittato esaltato, incalzandolo. «Saranno tutti fuori per la messa, o schiavi dei festeggiamenti, troppo ubriachi per accorgersi di due topolini che sgattaiolano in giro.»
Neri non avvertiva più il freddo pungente, ma un altro tipo di tremore iniziava ad assalirlo.
I resti dello scheletro di quello che doveva essere stato un ponteggio per dei lavori di manutenzione si aggrappavano ancora alla fiancata dell'edificio, proprio sotto una finestrella anonima che dava su una stanza buia. Sarebbe bastato un balzo dalla panca di via che correva lungo il muro per issarsi su e usare gli appigli offerti dall'impalcatura per la scalata.
Una rara fortuna, derivata da un'incauta negligenza.
Più Neri lo studiava, più il palazzo assumeva le fattezze di una fortezza scolpita in un blocco di pietra, dura come la realtà: avrebbero potuto non uscire vivi da lì dentro.
Il giovane ladro trascinò lo sguardo sui profondi solchi arati nella roccia grezza che delineavano il bugnato del piano terra, dall'aspetto più militaresco e brutale in confronto ai sobri due piani superiori; l'edificio incuteva timore nondimeno.
Neri esalò un respiro profondo che si solidificò in una nebbiolina. «Facciamolo» decretò con voce sottile, ma non debole. Il fremito inquieto di prima era ormai un palpito eccitato.
Che colpo sarebbe stato derubare niente meno che i Medici!
Il ragazzo invocò l'assistenza di san Nicola, affinché rendesse le sue movenze più agili e silenziose di qualunque ladro e il suo cuore colmo di coraggio, pregando che il protettore dei malfattori non lo abbandonasse proprio nella Santa notte.
Poi si slanciò verso la parete di pietra e iniziò ad arrampicarsi.
Quel lato dell'edificio sprofondava nell'ombra, lo sguardo della luna rivolto altrove, come quello degli Ufficiali di Notte che passarono di lì a pochi istanti, intonando canti sozzi che poco s'addicevano al Natale.
Neri e Gittato si mossero senza esitare, due ragni sinuosi.
Coi polmoni in fiamme e i muscoli che tremavano per la fatica, Neri raggiunse per primo il davanzale della finestra più vicina, al secondo piano. Provò a tastarla. Non c'erano grate di ferro, solo un'anta di legno... ed era socchiusa!
Quando si diceva avere più culo che anima!
Si issò con un ultimo sforzo, lasciandosi cadere oltre il davanzale col cuore che gli martellava in petto minacciando di sfondarlo.
Gittato lo raggiunse qualche istante dopo, ridacchiando come un matto tra un respiro affannoso e l'altro. «Siamo dentro» ghignò stringendogli la spalla.
«Orbene, vediamo anche di uscirne» mormorò Neri in risposta.
Tenendo all'erta tutti e cinque i sensi, più un sesto sviluppato dopo anni di malefatte e mascalzonate, i due realizzarono di trovarsi in una sorta di ripostiglio, dove l'odore di muffa travalicava quello dei mazzetti di fiori avvizziti sparsi nella stanza, tra una cassa di legno e l'altra.
«Non perdiamo tempo tra stracci impolverati e vecchie granate! Cerchiamo al piano di sotto» fece Gittato, diretto verso la porta. «Dicono che lì si trova lo scrittoio della vecchia canaglia, con scaffali ricolmi di gemme, monete, vasi e gioielli, tesori preziosi oltre ogni immaginazione! Ci pensi, Neri?»
In effetti, il ragazzo doveva ammettere che gli era venuta l'acquolina in bocca. «Stiamo parlando degli appartamenti privati di Piero de' Medici, ci saranno decine di guardie! È più prudente arraffare qualche candelabro d'oro e filarsela» ribatté invece.
«O, questa l'è nova! Da quando vai sul sicuro?»
«Da quando ho capito che Natale non è un buon giorno per essere scannato come un cane!»
«E quale lo sarebbe mai? Pasqua?»
«Grullo che non sei altro!» borbottò Neri. «Sai che ti dico? Al diavolo la pellaccia! Siamo arrivati fin qui, non si torna indietro con un premio di consolazione.»
Il ghigno di Gittato era evidente persino al buio.
Dall'esterno non proveniva alcun rumore; con i preparativi per il banchetto della Vigilia, sia la famiglia Medici che i servitori dovevano essere occupati a intrattenere gli ospiti al piano terra. Il corridoio, infatti, era deserto.
La luce si riversava dai massicci lampadari d'oro che pendevano dal soffitto a cassettoni, disperdendosi talvolta in pozze ombrose intorno ai piedi svelti e silenziosi dei due ladri. Neri e Gittato avanzarono con cautela, ma senza indugiare oltre il tempo necessario ad anticipare i loro passi con un'occhiata furtiva lungo l'androne tappezzato di arazzi variopinti, tra cui faceva capolino, più e più volte, lo stemma con le sei palle rosse dei Medici.
Giunsero a una scalinata di marmo chiaro e Neri seguì il compagno giù, con lo stomaco sempre più in subbuglio. Per fortuna non aveva mangiato un solo boccone, o avrebbe avuto qualche problema a tenerlo nello stomaco.
Evidentemente san Nicola aveva deciso di accogliere le suppliche silenziose, e aveva spianato la strada ai due furfanti. Non un'anima li intralciò nel loro intento; così si ritrovarono davanti a una porta di legno dall'aspetto molto solido, l'ingresso agli appartamenti di Sua Signoria Piero de' Medici.
Nondimeno, nessun lucchetto o chiavistello era in grado di resistere alle lusinghe delle abili dita di Neri e alle carezze dei suoi minuscoli arnesi da lavoro – avrà pure avuto poca dimestichezza nel far aprire le cosce alle signore, ma con le serrature era tutt'altra storia!
Il meccanismo interno scattò con un lieve clic.
Facile come bere un ovo, pensò baldanzoso il giovane.
L'ala del palazzo in cui si inoltrarono era semplicemente maestosa – pareva una reggia. Dipinti a olio dalle pennellate prodigiose, statue di marmo dalle curve tanto morbide da sembrar sul punto di risvegliarsi, e ancora vasi con decorazioni delicate e affreschi di scene memorabili; ma non erano solo i suoi abbellimenti, l'edificio stesso era un'opera d'arte.
Quel Michelozzo ci sapeva proprio fare come architetto.
Senza smettere di ringraziare san Nicola, Neri s'avventurò lungo il corridoio che gli si spalancava davanti, alla ricerca dello studio di Piero de' Medici e del tesoro custodito al suo interno.
Non gli ci volle poi molto per trovarlo.
Come il ragazzo si aspettava, era un'ambiente che cantava di opulenza e grandezza e ingegno – nonché di brutale efficienza. Gli ornamenti qui si riducevano a pochi esemplari pregiati, orientati verso la finestra ed esposti in modo da essere ammirati alla luce naturale del sole. Per il resto, libri e pergamene, tra cui campeggiavano onorificenze d'ogni genere. E le pareti...
Degli armadi a muro rivestivano le pareti, custodendo gelosamente il tesoro dei Medici.
Gittato si lasciò sfuggire un fischio meravigliato di fronte al luccichio degli oggetti preziosi, che facevano loro l'occhiolino sotto le luci delle fiaccole nei loro eleganti sostegni metallici. «Santissimo Iddio! Guarda qua...»
Neri accompagnò quell'esclamazione di stupore con un fischio gemello. «Non credo ai miei occhi... È un bottino da re!»
«Grazie Gesù!» mormorò l'altro ragazzo, affondando già le mani nel mucchio d'oro.
«Aspetta!» lo bloccò Neri. «Dobbiamo prendere pezzi piccoli, qualcosa della cui scomparsa non s'accorgeranno subito, altrimenti avremo l'intero corpo di guardia addosso prima di poter rivendere la roba.»
La faccia di Gittato si contrasse in una smorfia di dolore. «Per tutti i diavoli! Come si può ignorare questo ben di Dio e accontentarsi delle briciole?»
«Consolati pensando che queste briciole ci renderanno più ricchi d'un cardinale» ghignò Neri, infilando più monete che poteva nelle tasche delle braghe e scartando i monili più vistosi. Il suo compare fece lo stesso. Non s'arrischiarono a ricoprirsi le dita di anelli, per timore che nella discesa lungo il lato dell'edificio da cui erano passati all'entrata potessero perdere la presa e stramazzare al suolo.
«Bene, può bastare. Alziamo i tacchi ora.»
Molto più appesantiti, e molto più appagati, percorsero il corridoio a ritroso fino alla porta che Neri aveva scassinato poco prima.
«Ch'è capitato qua? Quest'uscio non era chiuso?» Una voce gutturale vibrò con irritazione all'altro capo del passaggio. Le guardie li avevano scoperti.
«Che si fa?» chiese Neri in un bisbiglio.
«Per di qua» esclamò Gittato, tuffandosi in una stanza che si apriva alla loro sinistra.
C'era qualche candela accesa, quindi poterono studiare rapidamente l'interno alla ricerca di una via di fuga. Invano, purtroppo.
Era una camera da letto sfarzosa dalle tinte forti – tutte tonalità di verde – e, a giudicare dagli eleganti abiti ordinatamente poggiati sulla spalliera di una poltrona, apparteneva a una donna.
«Dannazione! Da qui non si scappa» imprecò Gittato a denti stretti mentre si accostava all'unica finestra della stanza.
Come Neri stesso ebbe modo di constatare tetramente, l'apertura si affacciava direttamente sul cortile interno, dove un folto gruppo di persone chiacchierava in allegria, spostandosi di quando in quando tra i pilastri del colonnato e ammirando la statua nel suo centro, realizzata dal celeberrimo Donatello per il suo mecenate, Cosimo de' Medici. La festa procedeva sotto i loro occhi, e non potevano far nulla se non assistere impotenti finché le guardie non li avessero sorpresi con le mani nel sacco.
«Siamo spacciati, Neri.» Non potevano certo calarsi in mezzo alla folla come se niente fosse.
«No che non lo siamo!» Gli occhi grigi del ragazzo bruciavano, cupi ma determinati. Si spostò verso la poltrona dall'altro lato della stanza e afferrò uno degli abiti che vi erano sopra. «Aiutami a indossare questo» intimò all'altro.
«Cosa? Scherzi?»
«Per niente. Infilamelo, e alla svelta! Se sai come toglierne uno, riuscirai pure a fare l'opposto.»
«Perché mai dovrei farlo?»
«Per uscire da qui vivi, ovvio! L'hai detto anche prima, potrei passare per una giovinetta... Guarda, il vestito dovrebbe calzarmi. Se la sorte ci assiste un'ultima volta stanotte, possiamo passare sotto il naso delle guardie e dileguarci senza destare sospetti.»
«Che c'hai in mente, Neri?»
«Aiutami con questo e te lo mostro» rispose il ladro con un sorriso tanto audace da esser quasi profano.
Gittato obbedì, gettando una bestemmia o due tra un gesto e l'altro, e riuscendo infine a mettergli addosso l'abito di un giallo chiassoso in modo tutto sommato passabile. Avevano evitato sottovesti e finimenti per limitarsi all'essenziale, e Neri aveva tenuto le braghe imbottite d'oro sotto la gonna; dopotutto, contavano di non indugiare troppo sotto l'esame delle guardie in stato d'allerta.
Dei passi s'avvicinarono alla porta della camera, terribili come quelli d'un boia che attraversa il patibolo verso il condannato.
Neri calciò casacca e camicia di lana sotto il letto a baldacchino, mentre Gittato gli calcava una veletta sulla testa e annuiva a guisa d'approvazione. «Giammai avrei creduto di trovarmi in cotale situazione» bisbigliò.
«A chi lo dici...»
Dei colpi tuonarono contro la porta, e i due furfanti si misero in moto.
Gittato afferrò la maniglia – Neri accasciato contro il suo fianco – e la tirò verso di sé, ritrovandosi faccia a faccia con un uomo alto il doppio di lui e con un paio di baffi scuri come il fango degli Inferi. «Cosa volete, messere? Fate largo! Non vedete che la mia signora è afflitta da un malore? Deve prendere aria fresca. Su, su, scansatevi!» Senza lasciare che l'uomo avesse modo di ribattere, o anche solo di richiudere il suo beccaccio spalancato, lo spinse di lato e si portò dietro Neri, che seguitò a sua volta nella recita, fingendo debolezza.
Raggiunto l'ingresso agli appartamenti privati, altre tre guardie gli si pararono davanti con sguardo inquisitore.
«Lasciateli passare» ordinò la quarta alle loro spalle.
Gittato la ringraziò con un cenno della mano, senza neanche voltarsi, procedendo con sicurezza verso il pianerottolo lì vicino.
Incredibile, l'avevano abbindolati!
Non appena furono fuori dalla visuale della scorta armata, si lanciarono giù per la scalinata, quasi ruzzolando, per via dell'ampia gonna di Neri che tentava di farli inciampare a ogni falcata. Si costrinsero però a rallentare. Dovevano ancora attraversare il palazzo sotto lo sguardo dei pettegoli nobili fiorentini, già intenti a domandarsi chi fosse la dama in giallo scortata da un servo vestito da pezzente invece che con indosso la livrea sfoggiata dal resto dei domestici.
Anche le guardie che sostavano nei corridoi al pian terreno, senza dare troppo nell'occhio, osservarono attentamente il loro passaggio, i lineamenti induriti dalla diffidenza; ma esitavano a fermarli per interrogarli davanti agli altri ospiti, nel timore di guastare l'aria di festa senza motivo e di inimicarsi il proprio signore. Dopotutto c'era molta gente, e alcuni invitati al banchetto erano ospiti di Piero de' Medici nella sua residenza e avevano portato i propri servitori.
«Guardali... porci in brago, ecco cosa sono» gli sussurrò Gittato all'orecchio mentre vassoi carichi di dolciumi sfilavano davanti a loro.
Neri ignorò il cibo e si concentrò sull'obiettivo più urgente: trovare un'uscita non sorvegliata.
Il giardino sembrava fare al caso loro.
Qualche invitato si aggirava tra le siepi che adornavano il prato, scolpite nelle forme più strane, ma la maggior parte delle persone si trovava all'interno, al caldo. Persino le sentinelle cercavano il riparo dei portici, tenendosi più lontano possibile dalle raffiche gelide e profumate di neve che giungevano dall'esterno.
Neri e Gittato affrettarono il passo, attraversando il manto erboso imbiancato come se fosse un loro diritto farlo. Davanti a uno dei cancelli incastonati nelle spesse mura di cinta, i due ladri si lasciarono andare a un sospiro di sollievo, e fu allora che una voce risuonò dall'alto del palazzo: «Fermate quei due! Sono ladri!»
Mossi dall'istinto, Neri e Gittato iniziarono a correre.
Svolta dopo svolta, vicolo dopo vicolo, si allontanarono dalla villa, acquistando maggiore sicurezza, solo per veder sbucare fuori dal nulla una guardia. L'uomo riuscì ad afferrare Gittato per la cintola, strattonandolo con violenza tale da sbrindellargli le braghe e riversare il prezioso contenuto delle tasche sui ciottoli della via buia.
Neri fu tentato di darsela a gambe, di abbandonare l'altro ragazzo al proprio destino. Alla fine, raccolse il coraggio e caricò l'uomo in pieno petto, mandandolo giù come un sacco di farina. La testa della guardia cozzò contro la pietra, e il tizio smise di dimenarsi.
«Andiamo via. Svelto, Neri!» Gittato lo strattonò per riscuoterlo.
Ripresero la fuga, mulinando le gambe come se avessero avuto il Diavolo stesso alle calcagna, fin quando non furono davvero certi d'averla scampata.
«Per un soffio» sospirò Gittato mentre Neri si liberava dell'abito, restando nudo come un verme dalla cinta in su, stiracchiandosi davanti al magro focolare della cucina di un'osteria vicino a Ponte Vecchio.
Se il cibo era davvero terribile quanto il suo odore, il proprietario non doveva guadagnare poi molto, ma la birra era la migliore che avessero mai assaggiato nell'intera Firenze.
Quando erano arrivati, trafelati e arruffati – Neri vestito da donna – l'oste li aveva quasi cacciati via; ma poi gli avevano offerto qualche moneta d'oro, e l'uomo aveva esclamato: «Puoi avere la mia, di camicia, per tutto quel dinaro!»
Prima che se ne rendessero conto, la notte sgattaiolò via senza far rumore, cedendo il passo a una giornata chiara – e a una sbronza coi fiocchi.
L'oste li scacciò via all'alba, per godersi finalmente il Natale con la propria famiglia, così i due ragazzi si ritrovarono a bighellonare per le strade di Firenze, finendo ad ascoltare i buoni auspici decantati da un banditore in piazza del Duomo per conto della famiglia Medici.
«O, magari torniamo a fargli visita anche il primo dell'anno. Il Gottoso darà di sicuro qualche festicciola per il compleanno del suo quartogenito, Lorenzo. Che ne dici?»
«Ne' denti, Gittato! Io là dentro non ci metto più piede.» L'altro ragazzo lo spintonò per gioco e Neri finì per perdere l'equilibrio, andando a sbattere contro un passante intento ad ammirare le statuine di gesso esposte nella piazza.
Alcuni artisti avevano fatto dei presepi, e li mettevano in mostra così che anche coloro che non potevano acquistarli potessero goderne.
«Chiedo venia» esclamò Neri.
«Non fa niente, tranquillo» rispose l'altro. Era un giovane bruno, più o meno suo coetaneo. Gli sorrise in modo amichevole, dicendo: «Buon Natale.»
Neri rimase a fissarlo per qualche istante, ammutolito, forse per colpa della birra che gli aveva annodato la lingua. «Buon Natale a voi» biascicò alla fine.
«Da Vinci, che fai? Ci aspettano!» Un altro ragazzo fece cenno all'estraneo di sbrigarsi.
«Scusate, devo andare» disse quello a Neri. «Di nuovo tanti auguri.»
Poi sparì tra la folla.
«Allora, vieni o no?» lo pungolò Gittato. «A proposito... Grazie, Neri. Davvero. M'hai salvato la pellaccia, e hai pure spartito il tuo bottino con me dopo che quel bastardo m'ha fatto perdere tutto. Non mi dovevi niente e voglio che tu sappia che hai il mio rispetto e la mia gratitudine.»
«Macché, non dirlo neanche. È Natale in fin dei conti» rispose Neri, minimizzando il suo slancio di bontà. D'altra parte, Gittato non aveva idea del fatto che era comunque lui a guadagnarci di più, visto che poco prima di lasciare lo studio di Piero de' Medici aveva ingoiato un rubino grosso quanto un uovo di piccione che gli sarebbe fruttato parecchio.
Se fosse stato cauto, Neri avrebbe potuto campare di rendita per diversi mesi. Ma doveva prima aspettare che la gemma uscisse dal suo deretano.
Prese una bella boccata d'aria fresca, cercando di dissipare la foschia alcolica che gli annebbiava la testa, pesante come di rado gli era capitato. Probabilmente avrebbe ricordato ben poco di quella giornata e della notte precedente in futuro.
«Sai a cosa stavo pensando, Gittato? Questa faccenda del travestimentoda donna potrebbe rivelarsi utile in molte altre occasioni... Credo che mitroverò un bell'abito nuovo da sfoggiare per le festività» dichiarò Neri con unsorrisetto malizioso che gli si allargava sul viso.
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