Capitolo 38: Labirinti e mummie
Firenze, 1471
Era come trovarsi in una maledetta tomba. Una enorme, interminabile, infinita tomba, fatta di passaggi e svolte e ancora gallerie – ma pur sempre una tomba!
E, per quel che ne sapevano, quel tunnel che emanava un odore rancido di morte e decomposizione avrebbe anche potuto diventare la loro. Centinaia e centinaia di cunicoli correvano sotto e all'interno del colle come i fili della tela di un ragno, intersecandosi e diramandosi, ma senza alcuna logica apparente. Tutto ciò che Neri sapeva – o meglio, tutto ciò che Gittato gli aveva detto – era che uno di essi avrebbe condotto lui e Leonardo all'esterno, a poca distanza dal Ponte Vecchio. Ma se si fossero smarriti in quel dedalo sotterraneo nessuno avrebbe mai ritrovato i loro corpi.
Neri si voltò indietro, col palmo sudato saldamente ancorato alla parete laterale, assicurandosi che Leonardo fosse ancora dietro di lui.
«Tranquillo, non fermarti» rispose la voce ansante dell'amico a pochi passi di distanza.
Alle loro spalle giunse l'eco delle grida di Giuliano de' Medici e di altri inseguitori senza volto.
«Dobbiamo accelerare.» Le parole di Leonardo, ora più vicino, gli sfiorarono il collo, trasportate dal suo alito caldo, infondendogli un senso di urgenza ancora maggiore.
Neri affrettò il passo il più possibile, ma non poteva rischiare di perdere il senso dell'orientamento nel buio più fitto di una notte senza luna; a guidarlo aveva soltanto il senso del tatto e la mappa approssimativa che si era sforzato di imprimere nella memoria fino a poche ore prima.
Gittato conosceva ogni nicchia e ogni svolta di quel maledetto labirinto, aveva dedicato anni a esplorarlo, in parte per pura curiosità e in parte per poter sfruttare le gallerie come nascondiglio quando la superficie non era abbastanza sicura. Nel corso delle sue perlustrazioni aveva inciso sulle pareti di pietra grezza dei segni che avrebbero fatto da guida a chiunque avesse saputo della loro esistenza, e siccome Neri questa volta non aveva il coraggio di affidarsi esclusivamente alla propria memoria preferiva seguire le briciole di pane lasciate dall'amico.
Fece un passo in avanti e si fermò di scatto, sentendo un distinto scricchiolio sotto la suola della scarpa.
Ossa.
Leonardo andò a sbattergli contro e, senza lasciare andare la presa sulla sua giacca, domandò nervosamente: «Che c'è?»
«Niente. Andiamo avanti.»
Ripresero a camminare in silenzio, circondati solo dal suono dei loro respiri irrequieti e da fruscii lontani e indistinti.
Neri non aveva mai messo piede laggiù, ma sapeva che quei cunicoli erano stati usati dai primi cristiani per sfuggire alle persecuzioni quando ancora nell'Impero romano era rigorosamente proibito dalla legge praticare religioni estranee al paganesimo; erano catacombe improvvisate, dove la gente si riuniva in segreto per celebrare l'immensa gloria di un Dio che li teneva relegati nelle tenebre – ma si sapeva, le vie del Signore erano infinite, e non stava certo a lui giudicare. In ogni caso, per Neri la fede era solo un comodo diversivo dalle brutture e dalle difficoltà della vita, non una vera e propria vocazione.
Molte di quelle gallerie erano state abbandonate e dimenticate nel tempo, finendo per diventare un covo per i senzatetto e i criminali abbastanza arditi – o disperati – da avventurarcisi, come Gittato appunto; altre invece erano state riqualificate come parte della rete fognaria cittadina. Neri e Leonardo stavano seguendo proprio uno di quei condotti che sfociavano sulle rive dell'Arno.
Non avrebbero saputo dire da quanto camminassero o quale distanza avessero percorso, ma ai primi sentori di aria fresca si rianimarono, correndo a perdifiato verso l'ammiccante raggio di luce alla fine dello stretto passaggio come se fossero rimasti rinchiusi laggiù per anni senza vedere il sole.
Lo scroscio delle placide acque del fiume fu un sollievo sia per le orecchie che per i nervi, a confronto con i sottili, raccapriccianti strofinìi delle gallerie buie.
«Grazie a Dio ce l'abbiamo fatta!» esclamò Leonardo allargando le braccia e rivolgendo il volto al cielo con gli occhi chiusi, respirando a fondo per scacciare l'olezzo dei liquami che erano stati costretti ad attraversare.
«Andiamo via di qui» disse Neri mentre cercava di liberare la scarpa che il fango lasciato dall'Arno lungo gli argini gli aveva risucchiato.
Come aveva assicurato Gittato, il cunicolo li aveva effettivamente condotti a poche decine di metri dal Ponte Vecchio; a quell'ora del pomeriggio c'era parecchia gente in giro, comprese diverse brigate di ragazzini che si divertivano a tirare pugni e sassi gli uni agli altri – i tradizionali giochi del Carnasciale fiorentino, insomma.
Il martedì grasso era come una gigantesca festa, un'ultima occasione di sfogo prima dell'inizio della Quaresima; esso segnava la fine del Carnasciale – e di quella brutta avventura, sperava Neri.
Lui e Leonardo riuscirono ad attraversare il ponte miracolosamente illesi e si diressero verso la loro destinazione. «Chissà come è andata a Gittato...» sospirò mentre l'amico si stiracchiava stancamente.
«Lo sapremo presto» rispose Leonardo con un'alzata di spalle. Era visibilmente più sereno ora che era all'aperto, in mezzo a tanta altra gente. Anche Neri si sentiva al sicuro, in effetti.
Ma sbagliava. E anche di grosso.
Quando arrivarono all'altra estremità del ponte trovarono ad attenderli i due sgherri di Domenico di Giovani, con un ghigno sul volto che per bizzarria ben si accostava all'espressione livida nei loro occhi.
«Siamo bell'e che fottuti!» imprecò Neri.
Evidentemente non erano tanto stupidi come sembravano. Dovevano aver intuito le loro intenzioni ed erano andati loro incontro, anziché affannarsi a rincorrerli per i cunicoli bui.
«Che facciamo?» ansimò Leonardo.
«Corriamo.» A Neri bastò una rapida occhiata per valutare in quale direzione avrebbero avuto maggiori possibilità; si gettò a testa bassa tra folla che sostava accanto al Ponte Vecchio in un clima festoso, ridendo e punzecchiando i passanti con scherzi e marachelle. Un ragazzo col capo ricoperto di bende macchiate gli si parò di fronte, agitando le braccia tese in avanti con un gemito gutturale, ma lui lo scansò malamente di lato e continuò ad avanzare verso l'altro lato dello spiazzo assiepato, sempre stringendo la mano di Leonardo nella sua per non perderlo in mezzo al quel bailamme.
Decine e decine di persone, per lo più ragazzini, si aggiravano avvolti in logori stralci di stoffa e si divertivano a spaventare i più impressionabili con goffe e arlecchinesche imitazioni di mummie, o semplicemente a rincorrersi gli uni con gli altri. In men che non si dica, Neri e Leonardo vennero inghiottiti dal caos, fuggendo così indisturbati. I due sicari provarono a tenere loro testa, ma fu inutile.
«Aspetta Neri» boccheggiò Leonardo, tirandolo per il braccio. «Fermiamoci un momento, ti prego, sono senza fiato.»
Lui si guardò attorno con circospezione, il cuore gli sfarfallava in petto come un colibrì catturato in un sacco. «Va bene,» gli concesse alla fine, «ma leviamoci dalla strada. Entriamo in quella taverna.»
Nell'esatto istante in cui furono sulla soglia del piccolo e spoglio locale, i loro inseguitori riapparvero, emergendo dalla calca di mummie con latrati inferociti di iene fameliche. Neri li vide con la coda dell'occhio, ed ebbe appena il tempo di imprecare prima di spingere Leonardo oltre l'entrata e di caricarlo come un toro: rovinarono disastrosamente ai piedi di una giovane cameriera, che sussultò spaventata, perdendo l'equilibrio e rovesciando due grosse caraffe di birra addosso a un cliente.
Nel locale calò un silenzio improvviso e quasi palpabile.
Neri vide la cameriera soffocare un gemito con mani tremanti e indietreggiare lentamente senza incrociare lo sguardo dell'uomo. Non chiese nemmeno scusa, sollevo l'orlo della gonna e corse verso il retro.
Il cliente rimase immobile per un momento, quasi non avesse ancora realizzato di essere bagnato fradicio; delle gocce colavano dall'estremità della coda in cui erano raccolte le ciocche color zolfo dei suoi lunghi capelli striati d'argento, andando ad allargare la pozza di liquido ambrato intorno alla sua sedia. Poi l'uomo si alzò in piedi. Era molto più alto e robusto di quello che sembrava.
Parecchio più alto e robusto.
I muscoli delle sue larghe spalle furono percorsi da un guizzo mentre scuoteva lentamente la testa, spargendo altre gocce di birra sul pavimento lercio su cui Neri e Leonardo erano ancora aggrovigliati. Si voltò con calma risoluta verso di loro, inchiodandoli giù col suo sguardo di ghiaccio. I suoi occhi erano di un azzurro talmente limpido e cristallino da sembrare quasi dello stesso colore della neve sotto quella luce.
Oh, che strano, pensò Neri. Una delle due iridi sembrava più lucida e più scura dell'altra. Poi capì. Un occhio di vetro.
L'occhio buono si posò sul suo viso con un'espressione a metà tra l'indignazione più totale e un mite interesse, mentre il resto degli astanti si rianimava e vociava incuriosito dai possibili risvolti di quello sfortunato incidente.
«Ma che bailamme vu' fate?» berciò un ometto gobbuto appena arrivato – probabilmente il proprietario del locale.
«Levati di torno!» replicò il bestione, la sua voce un sibilo crudele, come quello di un'ascia pronta ad amputare un arto. «Questi due se la vedranno con me» disse rivolto a Neri e Leonardo, sguainando una lunga spada ricurva.
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