Capitolo 36: La resa dei conti
Firenze, 1471
L'uscio si chiuse con un leggero scatto, appena udibile nonostante il silenzio perfetto e squallido che regnava nella stanza. Tuttavia, quel suono riverberò nelle orecchie di Neri come il colpo di uno schioppo, fondendosi con l'eco dell'urlo che soffocò nel cuscino mentre Leonardo sgattaiolava via senza far rumore.
Dunque era così che ci si sentiva a tradire la persona che si amava.
Perché questo era ciò che provava per Leonardo – amore.
Non importava quanto forte fosse la sua determinazione, quanto si sforzasse di tenere il ragazzo a distanza e di fingere che non gli importasse, era inutile provare a negarlo ancora e ancora; niente era stato in grado di dissipare l'ardente desiderio che lo tormentava. Neri si era illuso – si era voluto illudere – che si trattasse soltanto di un sentimento passeggero e ingannevole, un senso di attaccamento che aveva sviluppato unicamente per via delle particolari circostanze in cui aveva conosciuto l'amico e del modo in cui si era finalmente sentito accettato.
Ma alla fine la verità l'aveva colpito come un pugno allo stomaco.
La notte precedente se ne era rimasto lì, di fronte a Botticelli, con le dita serrate intorno al manico della frusta che aveva scelto a caso dalla parete della sua camera da letto, e aveva quasi vomitato. In quel momento non aveva più potuto negare la verità.
Lui amava Leonardo.
Eppure il suo primo istinto era stato quello di opporsi, di resistere, e aveva comunque lasciato che le sue azioni lo portassero a quel punto. Era riuscito a farsi odiare dall'unica persona a cui avesse mai davvero tenuto.
Certo, però, Leonardo non l'avrebbe mai disprezzato quanto lui disprezzava se stesso.
Neri si sollevò a fatica dal suo pagliericcio, tirando via rabbiosamente con il dorso della mano le lacrime roventi che si aggrappavano ostinatamente alle sue ciglia, rifiutandosi di sgorgare copiose e di concedergli almeno quell'unico sollievo. E invece no, doveva accontentarsi di quella misera imitazione, la cosa più vicina al pianto che avesse sperimentato negli ultimi dodici anni, ovvero dalla morte di sua madre.
Forse, prima o poi, avrebbe trovato il coraggio di chiedere perdono, il coraggio di essere se stesso, il coraggio di amare.
Ma non quel giorno. Quel giorno non riguardava lui e ciò di cui aveva bisogno, la posta in gioco era ben più alta: le loro vite.
Si vestì in fretta, sciacquandosi il viso con l'acqua rimasta nella brocca sul davanzale della finestra, e scese a cercare Leonardo. Non gli parlava dalla notte precedente, visto che quando Neri era rientrato, alle prime luci dell'alba, lui dormiva ancora profondamente. Dovevano definire alcuni dettagli del piano che stavano per mettere in atto e prepararsi a ogni eventualità se volevano uscirne vivi.
Trovò l'amico alla locanda; stava facendo colazione. Prese posto di fronte a lui e ordinò quando la cameriera si avvicinò a loro.
Mai – nemmeno per un istante – Leonardo sollevò lo sguardo, come se gli acini d'uva sul suo vassoio fossero la cosa più interessante che avesse mai avuto occasione di ammirare.
Neri si schiarì la voce e, ignorando il groppo che sentiva in gola, iniziò a rivedere ad alta voce il piano passo per passo. L'altro ragazzo si limitò ad annuire nei punti salienti, sempre evitando accuratamente di incrociare i suoi occhi. Quando fu l'ora di avviarsi, pagarono quello che avevano consumato e lasciarono il locale, ormai vuoto.
Neri iniziò a fischiettare per riempire quel silenzio che aleggiava su di loro, opprimente come una cappa d'afa estiva. Poi, finalmente, raggiunsero la loro destinazione: San Miniato.
La vista dal monte abbracciava il cuore di Firenze, che pulsava al di là delle placide, seppur insidiose, acque dell'Arno. Gli edifici si univano in isolati e poi in quartieri che si allungavano in tutte le direzioni, protendendosi verso Fiesole e le altre colline a nord della città. Era curioso osservare come da quella prospettiva il duomo apparisse un titano, un imponente re, con la magnifica cupola del Brunelleschi a cingergli il capo come una corona, mentre tutti gli altri palazzi intorno si inchinavano a esso, riconoscendosi suoi sudditi con ossequiosa solennità, e forse con tacito timore.
Raggiunsero l'abbazia, che incombeva su di loro insieme al fedele compagno, il campanile, eretto poco più indietro alla sua sinistra. La facciata della prima era di un bianco accecante nella luce del mezzodì, coi suoi marmi candidi scolpiti in cinque archi perfetti, sovrastati da due frontoni simmetrici tra cui era racchiusa una finestra incorniciata da due colonne sorrette da teste di leone.
Una volta, mentre Neri stava derubando un tizio durante la messa, lo aveva sentito rivolgersi al vicino dicendo che quella chiesa era uno dei capolavori dell'architettura romanica fiorentina. Capolavoro o no, sarebbe stata il luogo in cui avrebbero riscattato la libertà di Leonardo.
Quest'ultimo non aveva l'aria d'esserne tanto entusiasta, però.
Neri lo lasciò ai suoi pensieri e iniziò a vagare per conto proprio, ritrovandosi a cercare riparo dal sole all'interno della chiesa. Quasi senza pensare, si diresse verso la meridiana incastonata nel pavimento dell'abbazia. Osservò i segni dello zodiaco disposti in cerchio senza soffermarsi su nessuno in particolare, eccezion fatta per il cancro.
Ricordava la prima volta in cui, ancora bambino, l'aveva visto illuminato dai raggi del sole: era il giorno del solstizio d'estate e, come ogni anno, la sagoma di marmo bianco del granchio si era accesa al caldo tocco della luce che filtrava dal soffitto quando il disco solare raggiungeva il suo apice.
Neri non aveva mai capito bene perché, ma aveva subito sentito una curiosa affinità con quel segno. Era stato in quel momento che aveva capito di doversi costruire un carapace come quello del granchio raffigurato nel marmo, una difesa dal mondo esterno.
E così aveva fatto – fino a quando aveva conosciuto Leonardo.
Concentrati, avanti, si rimproverò. Dunque iniziò a tracciare per l'ennesima volta i fili dell'ordito che aveva gettato, nella speranza che la trama finale risultasse quella desiderata.
Domenico di Giovanni si sarebbe presentato a breve per incontrare Leonardo, che durante la giostra gli aveva dato appuntamento lì con la minaccia di rovinarlo se non avesse acconsentito a trattare per mettere fine al ricatto nei suoi confronti. Più o meno alla stessa ora, sarebbe poi arrivato Giuliano de' Medici, sempre che decidesse di accogliere il falso invito di madonna Simonetta Cattaneo. La presenza di entrambi a San Miniato avrebbe così legittimato il sospetto che il biglietto scritto da Neri aveva già instillato in Bernardo Bandini, il quale aveva sicuramente appioppato un mastino all'amico di Giovanni per tenerlo d'occhio. Se questo fosse stato coinvolto in un incontro segreto con uno dei Medici, Neri non dubitava che Bandini e il suo padrone, Francesco de' Pazzi, avrebbero provveduto a sbarazzarsi del congiurato traditore senza possibilità di appello; perché era assai probabile che, visto il forte legame col mercante, anche di Giovanni fosse coinvolto nella stessa congiura ai danni del Magnifico di cui quello faceva parte.
E, sparito Domenico di Giovanni, Leonardo sarebbe stato finalmente libero.
Certo, restava la questione di Francesco de' Pazzi che voleva Neri morto, ma magari Gittato aveva ragione e costui aveva lasciato perdere per non attirare su di sé ancora più sospetti.
Leonardo arrivò trafelato all'improvviso. «Di Giovanni è qui» disse senza fiato. I suoi occhi scuri erano infiammati come tizzoni e tradivano paura, ed eccitazione.
«Andiamo allora» annunciò Neri con solennità. «Cosa potrà mai andare storto?»
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