Capitolo 24: Conosci il tuo nemico

Firenze, 1471

«Come sarebbe a dire lo ricattiamo

Gittato si voltò verso Piera, che lo fissava come se fosse un rincitrullito. «Lo minacciamo di rivelare informazioni compromettenti su di lui se non lascia in pace il tuo fratellone, ovvio. È in questo che consiste il ricatto, chiedere qualcosa in modo che l'altro non possa opporre un rifiuto. Hai presente?»

«Sì che ho presente, non sono idiota! Ma quali informazioni compromettenti vuoi usare, non hai appena detto che non hai nemmeno indagato sul suo conto?»

Gittato sollevò le spalle con nonchalance e rispose: «A quello si può rimediare. No, Neri?»

Lui si limitò ad annuire, ancora perso nei suoi ragionamenti.

«Andiamo, non puoi pensare che sia una buona idea» sbottò Leonardo. «Lui ricatta me, e io ricatto lui. È ridicolo!»

«No, è geniale!» ribatté Gittato un tantino risentito.

Iniziarono a discutere e a beccarsi come lavandaie sguaiate, finché Neri non intervenne. «Adesso smettetela! Mi fate venire il mal di testa, maledizione a voi.» Li fulminò con lo sguardo e si sorprese quando si misero tutti sull'attenti con le orecchie tese, in attesa del suo verdetto. «Bene, ora che vi siete calmati possiamo discutere. Prima di tutto, l'idea di Gittato è ottima. Tutti possiedono dei panni sporchi nell'armadio, qualcosa di cui si vergognano o che vogliono tenere nascosta, soprattutto i farabutti come questo tizio. Potrebbe non essere semplice smascherarlo, ma è per questo che io e Gittato siamo qui.» Neri lanciò un'occhiata all'amico e aggiunse: «Credo siamo tutti d'accordo sul fatto che l'omicidio è fuori discussione, quindi ci occuperemo noi due di Domenico di Giovanni. Nel frattempo, Leonardo, tu continuerai a comportarti normalmente.»

«Va bene» acconsentì il ragazzo.

«E tu» disse Neri con l'indice puntato verso Piera, che si era improvvisamente rabbuiata, «te ne starai buona buona qui in casa. Non abbiamo bisogno di altri impicci di cui occuparci al momento. Capito?»

«Ma io posso...»

«Capito?» ripeté lui alzando la voce.

«Sì, capito» sbuffò la ragazza infastidita, ma non insisté.

Ormai avevano una direzione precisa da seguire, non dovevano più brancolare nel buio. Nonostante trovare un modo per scoprire i segreti più oscuri di un uomo non fosse affatto un'impresa da poco, Neri si sentì in qualche modo sollevato di essere un passo più vicino alla soluzione.

Dopotutto, quanto poteva essere difficile trovare una crepa nei loschi traffici di messer di Giovanni?

Non sprecarono tempo; Neri e Gittato – con grande rammarico di quest'ultimo – uscirono di casa di buonora. Era domenica mattina, quindi erano soddisfacentemente certi che l'uomo si sarebbe recato a messa a un certo punto e, con un po' di fortuna, avrebbe lasciato la sua abitazione incustodita.

E infatti così accadde.

Si separarono: Gittato rimase lì per cercare di intrufolarsi in casa, se possibile, e per raccogliere informazioni dai vicini; mentre Neri decise di seguire di Giovanni per osservarlo più da vicino. Voleva farsi un'idea sua prima di etichettarlo in base alle voci che giravano sul suo conto.

L'uomo non aveva un aspetto particolarmente minaccioso, soprattutto per via della sua postura rigida, quasi sicuramente dovuta al gonfiore intorno alle ginocchia e alle caviglie che risultava evidente persino attraverso il sottile tessuto delle calzebraghe.

Gittato aveva ragione, doveva passarsela bene se la cosiddetta malattia dei re lo affliggeva a tal punto. Ma Neri non si lasciò ingannare dall'aspetto deforme di un vecchio debole e malandato, perché sapeva che dietro a esso si celavano una mente diabolica e un animo corrotto.

Lo seguì a distanza, studiandone i modi, i gesti. Le persone si comportavano in maniera diversa quando pensavano che nessuno le stesse osservando, rivelavano la loro vera natura. Così notò il modo in cui l'uomo scacciò con una pedata un randagio che gli si era avvicinato per annusarlo, e lo sguardo imperioso nei suoi occhi sporgenti e neri come olive mentre superava un drappello di operai con abiti logori per attraversare la navata centrale di Santa Maria del Fiore.

Domenico di Giovanni si beava nella luce morbida che filtrava attraverso le vetrate istoriate dai colori vividi e brillanti, si sentiva intoccabile alla vigile presenza di santi e angeli, avanzando impunemente sotto lo sguardo compassionevole della Vergine ritratta nel colossale rosone del duomo, che dominava la scena e irradiava tutto col suo bagliore divino.

Quella era la sua Firenze: bellissima, e marcia fino al midollo.

La città annegava nella corruzione e nel delitto tanto quanto nel lurido liquame delle sue fogne, nonostante le cupole delle chiese che s'innalzavano maestose verso il cielo e i marmi scintillanti degli altari da cui predicavano gli uomini più pii della Cristianità.

Neri si fermò accanto a un pilastro, dove un'acquasantiera sorretta da un candido cherubino offriva la purificazione dalla lordura del mondo; intinse le dita e rivolse una preghiera alla Madonna come non faceva da anni, affinché vegliasse su Leonardo. Lui certamente non era degno della salvezza, e mai lo sarebbe stato, ma l'amico aveva diritto all'occasione di potersi redimere agli occhi di Dio e della propria famiglia.

Attese il termine della funzione e approfittò della confusione generale per avvicinarsi a di Giovanni senza essere notato.

L'uomo era circondato da altri quattro o cinque del suo stesso stampo: in là con l'età, ben vestiti e disgustosamente boriosi. Uno di loro salutò Domenico di Giovanni e gli disse: «Ci vediamo venerdì sera alla Villa del Bandino. Come sempre, non mancheranno né vino né buona compagnia!»

A quel punto anche gli altri presero commiato e si dispersero nella folla.

A chiunque altro quelle poche parole sarebbero parse come un magro compenso per il tempo speso a pedinare di Giovanni, ma non a Neri. Per lui erano più che sufficienti, anzi di più. Erano una vera e propria manna dal cielo.

Si diresse a passo svelto verso la basilica di San Lorenzo per recuperare Gittato prima che il loro uomo rientrasse a casa, ma senza fretta; tanto quello là ci avrebbe impiegato parecchio per fare la strada. Quando giunse sul posto dove lo aveva lasciato, ritrovò il ragazzo comodamente appoggiato a una piccola fontana, intento a osservare i passanti.

«Tutto bene?» chiese a Neri.

«Benissimo. Tu invece, scoperto qualcosa?»

«Non sono riuscito a entrare» rispose con una smorfia di disappunto. «Il suo tirapiedi gironzola qui davanti da stamane. Ma ho chiesto in giro e ho trovato un paio di comari linguacciute. Anche se devo dire ... ho avuto l'impressione che si trattenessero, come se avessero paura di dire qualcosa di troppo.»

Neri non si sorprese. «Quindi?»

«Quindi, Domenico di Giovanni non è molto amato dai suoi dirimpettai. Non è un tipo socievole, dicono. Si è trasferito da solo in questa casa da circa vent'anni, subito dopo la morte del suo unico figlio, ma non ha mai avuto buoni rapporti col vicinato. Si sente superiore per via del suo denaro, ma è solo un povero falegname che qualche anno fa si è arricchito grazie a degli investimenti fortuiti nelle miniere pisane. Ora fa la bella vita, frequentando conoscenze altolocate e feste esclusive in ville di lusso.»

Lui annuì. «A questo proposito, ho sentito che andrà da Bandini venerdì sera.»

«Ah, quel Bandini?»

«Esatto, proprio lui. Pensi quello che penso io?» canticchiò Neri.



Nota dell'autrice❞ La cosiddetta malattia dei re non è altro che la gotta, ovvero una malattia del metabolismo che provoca l'accumulo di cristalli di acido urico e un'artrite infiammatoria acuta, con gonfiore e arrossamento delle articolazioni e altri sintomi più gravi. Veniva anche detta malattia dei ricchi, perché appunto associata a un'alimentazione ricca e al forte consumo di bevande alcoliche, condizioni che solitamente si potevano riscontrare negli individui più benestanti.

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