Capitolo 19: La Porta della miseria
Firenze, 1471
Oportet misereri – occorre compatire.
Così recitava l'iscrizione latina sulla porticina di cui tutti i fiorentini conoscevano il significato, seppur illetterati.
Neri si ritrovò col naso per aria, a fissare l'altissimo muraglione con un senso di vuoto sotto i piedi e dentro al petto: con la bellezza di diciotto metri d'altezza, l'impenetrabile barriera di blocchi di pietra si allungava uniforme e priva di aperture fino ad abbracciare completamente la costruzione a pianta quadrata della prigione al suo interno. Come se ciò non fosse stato sufficiente, un fossato circondava la struttura, facendo guadagnare a quel luogo il nome di Isola delle Stinche.
Neri era in piedi di fronte a quella che il popolo aveva ribattezzato, per ovvi motivi, Porta della miseria. L'angusto passaggio rappresentava l'unico ingresso alle carceri.
Forse, a pensarci bene, non era poi così angusto; ma più lui fissava l'apertura nel muro, più quella sembrava restringersi, come se la porta fosse stregata. Neri temeva che una volta dentro non ne sarebbe più uscito. Il che era ridicolo, perché stavolta non aveva fatto nulla per meritarselo; tuttavia il suo istinto di sopravvivenza si era ridestato di colpo alla vista di quel colosso di pietra e adesso faceva da padrone.
Proprio lui, che per tutta la vita aveva faticato per restare fuori dal quel luogo, si ritrovava ora a entrarci spontaneamente. Pensò ai cortei di condannati diretti alla torre della Zecca, cieca al fato di quegli sventurati che venivano giustiziati proprio ai suoi piedi, e rabbrividì.
«Allora ragazzo, ti decidi o no? Posso sempre consegnarlo io il pacco se non te la senti.» Il ghigno provocante sulla faccia della guardia la faceva sembrare ancora più ripugnante, mettendo in evidenza quella patata bitorzoluta che aveva in mezzo agli occhi al posto del naso.
«No, grazie. Faccio da me» rispose Neri a denti stretti. Cercando di ignorare i numerosi avvertimenti che il suo corpo gli dava, dalle improvvise difficoltà motorie alla respirazione irregolare, fece il primo passo verso l'interno della prigione.
Le Stinche non erano certo all'altezza del più prestigioso Alberghetto, come veniva chiamata la cella nella torre di Arnolfo del Palazzo della Signoria, ma erano comunque riservate a detenuti di un certo livello, per lo più prigionieri di guerra e colpevoli di reati politici. Niente a che vedere con la feccia dei comuni criminali come lui. Quindi, in un certo senso, era un onore esservi ammesso.
Neri notò la facilità con cui gli uomini di guardia lo lasciarono passare. D'altra parte, le prigioni non erano fatte per tenere la gente fuori – bensì dentro.
Venne scortato all'interno del torrione adiacente alle mura esterne, e poi su per delle scale fredde e buie. L'umidità gli entrò nelle ossa come una lama affilata, e Neri si chiese come facessero le guardie a lavorare in quel posto giorno e notte.
Infine giunse a destinazione, l'ufficio del direttore.
Il suo incarico era semplice: recapitare un pacco.
Niente di più e niente di meno di ciò che faceva ogni santissimo giorno. Eppure, stavolta, gli era stato espressamente ordinato di consegnare l'oggetto in questione direttamente nelle mani del destinatario – nessuna eccezione. Neri aveva provato a defilarsi e a passare l'incarico a qualcun altro, ma gli era toccato mandar giù il rospo per non rimetterci il lavoro.
Ora però iniziava quasi a rimpiangere i giorni da ladruncolo.
La stanza non era che un buco e, se possibile, ancora più umida delle scale che la precedevano. Niente ninnoli o generi di conforto in generale, fatta eccezione per il fuoco acceso nel camino di pietra di fronte alla scrivania sommersa di scartoffie. Anche quello però risultava misero e triste come il resto dell'ambiente, con la debole fiamma che tremolava nell'aria stantia che sapeva di muffa.
L'uomo ingrigito con due folti baffi curati seduto alla scrivania si addiceva perfettamente a tutto il resto. Era altrettanto insignificante e tetro.
«Che ti prende ragazzo? Stai forse male? Sudi come un maiale, per carità di Dio!»
Neri si affrettò a tranquillizzarlo. «Non è niente messere, va già meglio. Vi prego di prendere questo, così posso tornarmene a casa.»
L'uomo lo osservò con ripugnanza per qualche istante, esitando a toccare l'involucro del pacchetto, quasi temesse il contagio. Alla fine optò per la sicurezza ed estrasse un fazzoletto con cui evitare il contatto diretto.
Neri lo ringraziò e si fiondò giù per le scale, tanto che la guardia che lo accompagnava dovette mettersi a correre per stargli dietro. L'aria fresca del cortile fu un vero e proprio sollievo. Respirò a fondo un paio di volte, asciugandosi con la manica della camicia la goccia di sudore che gli era colata lungo la guancia gelida.
Mancava poco ormai. Qualche metro e sarebbe stato fuori – libero.
La brama improvvisa di spazi aperti e arieggiati lo distrasse dall'osservare con più attenzione i dintorni, ignorando del tutto il famoso affresco nel cortile del carcere in cui un angelo scacciava da Firenze il dispotico Gualtieri.
Neri cadde nuovamente in preda al nervosismo quando, arrivato di fronte all'uscita, venne trattenuto per far passare un gruppetto di persone dirette all'interno del carcere. A giudicare dai saluti amichevoli che rivolsero alle guardie, doveva trattarsi dei Buonomini, una compagnia che si occupava di fornire assistenza spirituale e materiale ai carcerati, i quali spesso pativano le pene dell'inferno in terra – ed erano per giunta costretti a pagare una libbra al giorno per coprire le spese del loro soggiorno.
Il gruppo gli passò accanto poco dopo ma, preso dai suoi pensieri, Neri non badò più di tanto all'occhiata in tralice che ricevette dal cappellano che era insieme agli altri. L'uomo lo fissò coi suoi limpidi occhi grigi per appena il tempo d'uno sbadiglio, poi camminò oltre senza degnarlo d'ulteriore attenzione.
Ormai Neri aveva raggiunto l'abbazia benedettina che si trovava a un tiro di sasso dalle Stinche, proprio di fronte al Palazzo del Capitano, quando ricordò di avere ancora una commissione da sbrigare prima di rincasare.
Sentì lo stomaco contrarsi dolorosamente e realizzò che non aveva ancora avuto modo di pranzare adeguatamente. Era quasi giunta l'ora di cena, ma forse un compromesso si poteva trovare. In fin dei conti, lo doveva a quei poveri diavoli rinchiusi in un sotterraneo e costretti a mandar giù dei miseri pasti.
Avrebbe gozzovigliato con una bella razione di cibreo e brindato alla loro salute.
❝Nota dell'autrice❞ Il cibreo era uno dei piatti preferiti da Caterina de' Medici. Si tratta di una frittata di uova insaporita con brodo di carne, salvia, cipolle, creste di gallo, fegatini, bargigli e cuori di pollo. Va mangiato ben caldo e spolverato di pepe.
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